TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 29 ottobre 2020

Perché Alfonso Leonetti è rientrato nel PCI

 


Fare una ricerca storica è operazione simile alla composizione di un puzzle. Si ricercano tutti i tasselli, si comparano fra loro per farli combaciare e infine si incastrano a formare una narrazione compiuta. Un lavoro simile stiamo compiendo riguardo alla storia delle dissidenze comuniste in Italia dagli anni Venti agli anni Settanta. È un lavoro lungo che richiede pazienza, ma che permette di ri/scoprire episodi interessanti come quello che presentiamo oggi. Nel 1962, dopo due anni di trattative condotte in prima persona da Umberto Terracini suo vecchio compagno dei tempi de L'Ordine Nuovo, Alfonso Leonetti fu riammesso nel PCI. Nonostante dal 1956 si parlasse di destalinizzazione, la Direzione del partito gli chiese un pesante atto di sottomissione pubblica. Una pratica che lo stalinismo aveva mutuato dalla Chiesa cattolica della Controriforma che “perdonava” chi si era macchiato di eresia, ma solo dopo la pubblica ammissione dei propri errori, il rinnegamento del proprio passato e una incondizionata dichiarazione di fede. Questo accadde nel 1962 con Leonetti, a cui sotto l'ipocrita forma di un intervista all'Unità fu chiesto una totale abiura delle proprie idee che arrivò fino all'umiliante esaltazione del genio politico di Togliatti, l'uomo che lo aveva espulso nel 1930 dal PCI perchè assieme a Tresso e Ravazzoli (tutti membri della Direzione del partito) egli ne aveva duramente contestato l'asservimento opportunistico a Stalin ormai padrone dispotico dell'Internazionale comunista. Davvero la Santa Inquisizione non avrebbe saputo fare di meglio.

G.A.


Perché Alfonso Leonetti è rientrato nel PCI

Dai gruppi di opposizione trotzkista alla lotta contro il fascismo. «non si può – egli afferma – essere marxisti nel chiuso della propria stanza»


Il compagno Alfonso Leonetti (alias Feroci o Guido Saraceno), rientrato nelle file del Partito comunista italiano, aderì alla gioventù socialista, ad Andria, nel 1914. Nel 1918, a Torino, iniziò a collaborare con l’Avanti!e con Gramsci. Divenne redattore capo dell’Ordine Nuovo (quotidiano) nel 1921, dopo aver partecipato alla fondazione del PCI, a Livorno. Fu direttore del Lavoratore di Trieste alla fine del 1922, e, dopo il delitto Matteotti, dell’Unità. Nel 1923 entrò a far parte della Direzione del partito e nel 1924 partecipò al V Congresso dell’Internazionale, a Mosca. Arrestato, ferito e perseguitato dal fascismo, dopo un periodo di lavoro clandestino in Italia emigrò in Francia. Dalla fine del ’26 fino alla «svolta» del 1930, partecipò attivamente al lavoro di direzione del Partito. Nel 1930 fu espulso con altri compagni in seguito a dissensi sulla linea generale del partito. Militò, fino al 1930, nei gruppi di «opposizione» trotskisti, e fece parte, dal 1930 al 1938, del segretariato internazionale di questi gruppi di opposizione, sotto gli pseudonimi di Martin e Sogò. Restato in Francia durante la seconda guerra mondiale, qui partecipò alla Resistenza, nell’Alta Loira. E a questo periodo risale il suo distacco definitivo dai gruppi trotskisti e il suo riavvicinamento al partito. Attualmente il compagno Leonetti vive a Roma, si occupa di studi a carattere storico. Recentemente, insieme con altri, ha pubblicato e commentato la raccolta di sentenze del Tribunale speciale (Aula IV) e ha in preparazione un volume (La Chiesa contro il Risorgimento) in collaborazione con Ottavio Pastore. Da noi avvicinato, il compagno Leonetti ci ha precisato i motivi e le circostanze che, dopo il suo riavvicinamento, lo hanno spinto a chiedere di rientrare nel Partito comunista italiano.

«Rientrando oggi nel PCI ‒ egli ci ha detto ‒ non mi considero un miracolato del XXII Congresso. Infatti il mio distacco dai gruppi di oppositori, nei quali militai dopo il 1930, e il mio accordo con i partiti comunisti, risalgono in modo netto all’epoca della Resistenza, che io vissi in Francia. Fin da allora io ricercai ed ottenni il contatto con il partito comunista francese e da allora, benché ancora non tornato in possesso della tessera, mi considerai politicamente legato soltanto al partito comunista, respingendo ogni invito a iscrivermi, in Francia e in Italia, ad altri partiti operai. In realtà fin dall’epoca dei fronti popolari si fece strada in me la del trotskismo.

«Il riconoscimento della giusta linea dei partiti comunisti e degli errori del trotskismo nell’analisi e nel giudizio sui partiti comunisti e sull’URSS, mi si fece poi chiarissimo attorno al 1940, all’inizio della grande lotta internazionale contro il fascismo. Oggi tutti i motivi di dissenso con la linea generale del PCI, vecchi di trent’anni, sono per me caduti. Il XX e il XXII Congresso del PCUS hanno restituito un grande slancio, con la critica a Stalin e agli errori del passato, per la edificazione del comunismo e il rafforzamento del leninismo nei partiti comunisti.

«La mia convinzione sulla giustezza della linea del PCI, il cui merito, mi pare, vada per tanta parte ascritto all’azione politica di Palmiro Togliatti, si è dunque venuta sempre più rafforzando: e sempre più si è riconfermata in me la fiducia nella capacità del PCI di guidare le lotte della classe operaia e del popolo, di rafforzarsi e di rinnovarsi costantemente. Per questo, e da molti anni, ho sentito il bisogno di tornare a militare nel PCI, dando ad esso il contributo che potrò e saprò dargli. Ed è motivo per me di grande gioia e commozione essere ritornato a lavorare e lottare insieme ai vecchi e giovani compagni comunisti.

«Per ciò che riguarda i dissensi e i motivi che, nel 1930 spinsero me ed altri compagni a porsi fuori del Partito, ritengo che si tratti ormai di questioni che, nel merito, riguardino soprattutto gli storici del movimento operaio, italiano e internazionale.

«Errore grave, comunque, fu certamente il nostro, di spingere la nostra opposizione e la lotta politica fino alla rottura. E questo in un momento in cui il partito comunista era impegnato in una lotta a fondo contro il fascismo in Italia. La mancanza di ogni collegamento con le masse italiane e con l’emigrazione, l’ostilità alla “politica di fronte popolare” inaugurata in Francia con la manifestazione del 14 luglio 1935, portò al nostro completo isolamento e alla disgregazione del nostro gruppo.

«Sono certo che, in condizioni di vita politica diverse, a contatto con le masse e nel corso di un dibattito democratico, i dissensi sarebbero stati ricomposti, sul terreno dell’unità politica e ideologica. Fu, ripeto, da parte nostra, almeno da parte mia, un errore aver rotto con il Partito, poiché i fatti hanno sempre dimostrato che un comunista non ha ragione che nel Partito e con il Partito, il quale esprime gli interessi di classe del proletariato. Lo so, non in astratto, ma per la esperienza personale che ne ho fatto.

«La lotta contro il fascismo ‒ con lo scoppio della seconda guerra mondiale ‒ fu il banco di prova di tutti i gruppi e movimenti politici. Ed è stato soprattutto in quella congiuntura storica decisiva che si poté verificare l’insufficienza dei piccoli gruppi sorti marginalmente e in opposizione ai partiti comunisti. Dispersi e minati dal settarismo, dal dogmatismo e dalle lotte personali, questi piccoli gruppi non ressero alla prova, furono incapaci di legarsi alle masse, e crollarono, mostrando la loro debolezza, politica e ideologica.

«Per quanto riguarda il nostro gruppo in particolare, esso in realtà si era disgregato fin dal 1935, con la entrata dei suoi componenti nei partiti socialista e massimalista. Gli anni da me trascorsi, fuori del partito e militando nelle diverse “opposizioni”, mi hanno dimostrato la sterilità dell’azione di questi gruppi, senza alcun legame vivente con la classe operaia e il suo movimento di sviluppo reale. Mi hanno dimostrato anche la stolta presunzione di questi piccoli gruppi di potersi sostituire e contrapporre ai partiti comunisti con le loro gloriose tradizioni di lotta, le loro indistruttibili radici di classe, la loro esperimentata capacità di sviluppo e rinnovamento costante. Infatti non è soltanto moltiplicando le “tesi” o scrivendo delle mozioni che si può lottare, nelle condizioni più diverse, contro il nemico di classe e per il socialismo. Le posizioni politiche, per un marxista, devono essere sempre verificate con le masse e nelle masse. Non si può essere marxisti né da soli né nel chiuso della propria stanza, fuori dal contatto con la classe operaia e le masse popolari.

«Il movimento comunista mondiale organizzato, ormai, conta circa mezzo secolo di vita e la Rivoluzione socialista è uscita dall’isolamento, è divenuta il fatto dominante della storia contemporanea. Essa si è realizzata nell’URSS e in molti altri paesi, a prezzo di duri sacrifici e di lotte aspre, il cui centro è stato il partito comunista. La esperienza dunque dimostra che fuori dal partito comunista non può esservi, per un marxista, una vera esperienza rivoluzionaria. Lo provano il fallimento storico del trotskismo e della socialdemocrazia, movimenti che, pure, assorbirono capacità individuali notevoli condannatesi tuttavia alla sterilità per il solo fatto di essersi poste fuori della reale corrente rivoluzionaria moderna, la cui componente essenziale è data dai partiti comunisti.

«Dovunque essi operino, quali che siano le condizioni della loro lotta, i partiti comunisti esprimono la coscienza e la volontà della classe operaia: ad essi deve andare l’appoggio di quanti vogliono lottare per il socialismo. E i partiti comunisti, in ogni condizione di sviluppo, devono corrispondere concretamente ai desideri delle masse. Che si muovono su un terreno di continuo progresso ed avanzata verso il socialismo. Il Partito comunista italiano è su questa strada giusta, ha dimostrato di essere capace di affrontare i momenti più duri rafforzandosi e rinnovandosi, usando l’arma della discussione e della critica, secondo il grande insegnamento di Lenin. Mi auguro che queste discussioni continuino e siano approfondite, e da ciò il partito non può trarre che nuovo rinvigorimento.

«Gramsci ha detto, in qualche parte, che il presente è la tomba del passato e la culla dell’avvenire. Quel che conta veramente per un marxista è operare sul presente per evitare gli errori del passato costruendo l’avvenire. Perciò penso che il dovere dell’ora è di unirsi, per portare sempre più avanti la lotta del partito comunista ‒ anzi dei partiti comunisti ‒ per la pace [e] la liberazione di tutti i popoli oppressi e delle masse lavoratrici dallo sfruttamento del capitalismo e per la creazione di una vera democrazia sociale.»


L’Unità, 17 febbraio 1962