Giorgio Amico
Nascita di un teppista
La conquista del primo paio di jeans fu una dura battaglia. In Italia iniziarono a diffondersi fra i giovani alla fine degli anni Cinquanta sull'onda lunga di un certo cinema americano che aveva lanciato il mito del ribelle senza una causa, fosse l'efebico James Dean di Gioventù bruciata o il tenebroso Marlon Brando de Il ribelle.
Non ci fu nulla da fare. A poco era servito Alberto Sordi con il suo Nando Moriconi di Un americano a Roma. Ancora minori risultati ottenne Renato Carosone con la peraltro molto orecchiabile canzoncina Tu vuo fa l'americano.
Gli adolescenti volevano i jeans, con tanto di enorme risvolto. Fu uno dei primi sintomi che, come cantò poi il poeta, the times they are a-chancing. Non c'erano difese possibili.
E così anch'io, allora poco più di un bambino, pretesi il mio paio di jeans. Non dai miei genitori che non ci pensavano neppure, ma da una zia che assieme ai miei nonni mi ospitava in estate, dandomi tutto l'affetto che avrebbe dato ai figli che non aveva avuto.
A complicare le cose ci si misero i giornali che all'improvviso iniziarono a battere la grancassa sul tema della devianza giovanile, i famosi teddy boys di cui si parlava il più delle volte a sproposito, sull'emozione del momento e senza saperne nulla. Giusto per vendere un po' di copie in più ad un pubblico di piccolo-borghesi benpensanti. Tanto che pure i Gufi ci fecero una canzone sbeffeggiante, arruolando fra i proto-teppisti l'incolpevole, almeno di quello, Giuseppe Garibaldi e i suoi Mille.
La zia, stimata Dama di Cristo Re, nicchiava fra il desiderio di accontentarmi e la paura della riprovazione di un ambiente pettegolo e bigotto come l'Oneglia cattolica e borghesuccia di allora.
“Io te li comprerei – diceva – ma che figura ci facciamo con i conoscenti e i vicini. Sono calzoni da delinquenti.”
A complicar le cose ci si mise pure l'idiota di turno. Il gestore di un negozio di abbigliamento che li esponeva, unico in città – allora non esistevano negozi dedicati alla moda giovanile – in vetrina assieme a gessati e principi di Galles. Inconsapevole come tutti i cretini, a mia zia, quasi ormai semiconvinta, spiegò tutto serio che il taschino sopra la tasca destra era fatto per tenerci il coltello.
Mia zia fuggì inorridita dal negozio e per un paio di settimane non volle più nemmeno parlarne. Poi l'affetto materno ebbe il sopravvento sugli scrupoli e finalmente accettò di acquistarmene un paio ma....
Ma a patto che non lo scrivessi -allora il telefono era prerogativa di pochi e ci si teneva informati per lettera – ai miei genitori e che al termine delle vacanze li lasciassi da lei e non li portassi casa.
Un compromesso accettabile che salvava i rapporti interparentali oltre che le mie vacanze.
Furono i miei primi jeans e, anche se continuavo a giocare con i soldatini, quei magici pantaloni mi diedero il coraggio di incominciare a guardare le ragazzine sotto i portici di Oneglia. Stando ben attento, sia chiaro, a non farmene accorgere da mia zia che mi avrebbe immediatamente spedito da Don Luigi a confessarmi.
E così eccomi immortalato sulla Spianata di Borgo Peri in maglietta a strisce e jeans con risvolto d'ordinanza, molto compiaciuto e del tutto ignaro che negli stessi giorni a Genova, ragazzi di qualche anno più grandi ma vestiti allo stesso modo, buttavano i celerini del Battaglione Padova nel vascone di Piazza De Ferrari.