TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 8 settembre 2010

Jorn, l'arte, la scienza, il laboratorio... (II)

Piero Simondo a Cosio d'Arroscia (2007)

Seconda e ultima parte dell'intervista (del 1992) a Piero Simondo in cui si tratta di Jorn, avanguardie artistiche, situazionismo.

Jorn, l'arte, la scienza, il laboratorio...
Intervista a Piero Simondo (seconda parte)

a cura di Cesare Viel


C.V. - Riguardo al rapporto arte-scienza anche i Nucleari avevano qualcosa da dire. Qual era la differenza rispetto alle posizioni di cui si é parlato?

P.S. - I Nucleari pensavano ad un rapporto arte-scienza di tipo letterario. L'idea dell'"arte nucleare" è un'espressione, tutto sommato abbastanza convenzionale, dell'attualità dell'epoca. Non si dava in loro un rapporto tra l'arte e la scienza, semmai un problema di metafora.

C.V. - Quindi il discorso si poneva ad un livello completamente diverso?

P.S. - Si, perché non c'era nei Nucleari lo sviluppo di una problematica tra il campo artistico e quello scientifico. Non avevano nessun interesse ad approfondire questi rapporti, nè sotto l'aspetto filosofico, al modo di Jorn, né in una direzione più fredda e metodologica come io la concepivo e nemmeno nel senso politico propugnato da Debord (opzioni teoriche, queste, tra loro contrastanti ma che comunque individuavano delle posizioni).

C.V. - Sintetizzando, si può ipotizzare una reale fecondazione, un passaggio nell'Italia degli anni '50 delle tematiche di CoBrA e, in particolare, di Jorn?

P.S. - Rispetto a CoBrA erano ormai mutate le condizioni di base, per cui quando Jorn viene in Italia non lo fa più come esponente di CoBrA ma come uno che ha già tagliato i ponti con questa esperienza, in parte anche perché alcune cose che aveva pensato in quel contesto non erano poi passate. Comunque é molto difficile rispondere con precisione a questa domanda, perchè è difficile sceverare le diverse componenti all'interno di un clima complessivo. E' certo che Jorn ha influenzato anche cose mie, ma ancora di più i lavori di Gallizio, sul quale anch'io ho avuto un ascendente, perchè Gallizio nasce da questi incontri, prima con me e poi con Jorn. Certo, per vari aspetti, il peso di Jorn é più consistente del mio. Quanto a Gallizio ho sempre sostenuto che si é trattato di uno dei pochi naif non figurativi degli anni '5O. In altri casi questo tipo di rapporti si vede meno, ma ho l'impressione che il "Gesto" abbia subito quest'influenza, anche se ce ne sono state anche altre. D'altronde Jorn e Dubuffet si conoscevano, anche se quest'ultimo era più vecchio e cominciò tardi a dipingere, ma non si può dire che Dubuffet dipenda da CoBrA più di quanto CoBrA dipenda da Dubuffet. Quello che conta é che ci fu una sorta di "esprit" del momento, per cui determinate cose che vennero fatte qui somigliano molto ad altre fatte invece in America, sebbene manchi un legame vero e proprio. Maturano e vengono fuori... Poi certe forzature si fanno a posteriori per creare una linea genealogica di comodo, ancora secondo l'antico cliché della noblesse... andando a cercare i quarti di nobiltà, ma questi sono solo vecchi modelli. Di fatto però Jorn - ma anche Constant ed il Situazionismo - portano nella pittura italiana degli elementi che qui non c'erano, nel senso che le cose di cui si occupavano erano estranee al circuito culturale ufficiale italiano, venivano percepite come del tutto marginali. D'altra parte sono stati importanti proprio per questo, per aver introdotto idee diverse, che si trovarono a confluire con altre posizioni marginali che non riuscivano a trovare ascolto.
Per quanto mi riguarda, ho trovato in Jorn, su varie questioni, conferme e appoggi di cui altrimenti, qui, non avrei mai potuto fruire. In questo senso c'è stata una risonanza sotterranea e non estesa, più che un'influenza.
La cassa d'amplificazione massmediatica viene solo in un secondo tempo e sopraggiunge proprio quando i contenuti sono spariti dalla realtà. Quel clima é stato amplificato non certo per i suoi contenuti ma perché diveniva una bandiera ed un fattore promozionale; le cose più importanti sono cadute e sono rimasti solo gli aspetti più di facciata, mentre altre rimangono ancora lì: problemi che non si toccano perchè non si saprebbe da che parte incominciare.

C.V. - Quale ruolo svolgeva il Centro di Ricerche Estetiche di Torino? Che cosa ha rappresentato l'esperienza del C.I.R.A.?

P.S. - Si é trattato di due vicende diverse. Nel '57/58, dopo che ero riapprodato a Torino (ma la data iniziale è poi veramente il 1962), ho costituito il C.I.R.A. (Centro Internazionale Ricerca Artistiche) che ha una storia sotterranea nel senso che non é mai uscito fuori clamorosamente. Più o meno in quegli stessi anni, per ragioni che non conosco, Michel Tapié creò il suo Centro di Ricerche Estetiche. In realtà su uno dei bollettini d'informazione dell'I.S. fui accomunato all'attività di Tapié, che tra l'altro - a differenza di Jorn - non conoscevo personalmente. Il Centro di Tapié era costituito nell'ottica delle gallerie. Mentre il C.I.R.A., attraverso la mia persona, si ricollegava al principio del laboratorio, Tapié non ha nessuna connessione con tutti i discorsi cui accennavo prima, nel senso che Tapié era un critico e tutto il suo discorso si ricollegava piuttosto all'informale e quindi ad un mercato già esistente. Il gruppo C.I.R.A. riprendeva in concreto il discorso interrotto del Laboratorio, nel senso di un'educazione estetica di base, dove ognuno poteva realizzare i suoi prodotti anche andando contro il mercato. Era decisamente un discorso anti-Tapié, anche se a livello di ciò che é stato riportato nei bollettini dell'I.S. sarebbe stata la stessa cosa.

C.V. - Il C.I.R.A. promosse delle pubblicazioni?

P.S. - Si, due o tre bollettini poco diffusi; c'è altro materiale che non é stato neanche del tutto recuperato. Il nucleo del lavoro riguardante l'attività del C.I.R.A., comunque, é rimasto inedito.



C.V. - Jorn era al corrente di questa attività?

P.S. - Si, quando venne fondato il C.I. R.A., ne diedi comunicazione a tutti quelli che conoscevo, chiedendo un aiuto. Jorn mi rispose in una lettera augurandomi fortuna e mi inviò un assegno. Quindi sapeva di questa mia attività ma in effetti non era più così interessato ad un lavoro di questo genere. Aveva mantenuto ancora qualche legame con un certo Situazionismo di matrice più artistica che si esprimeva attraverso la rivista "Situationist Time" di Parigi, dove anch'io scrissi un paio di articoli sul tema del labirinto. Era una rivista in cui si realizzava una certa confluenza tra la scienza e le arti. Ne uscirono tre o quattro numeri.

C.V. - Quindi attraverso il C.I.R.A. viene approfondito il discorso dell'artista non professionista, iniziato con il Laboratorio di Alba?

P.S. - Nel mio libro sul colore ("Il colore dei colori", Nuova Italia ed., 1990 N.D.R.) ho scritto che l'avanguardia ha un oscuro rovello pedagogico. Anche il rifiuto, almeno verbale, della pedagogia da parte di Jorn é in realtà pedagogico. Non a caso Jorn fu anche insegnante, all'inizio, in Danimarca. La sua prima professione é stata quella del maestro. E gli altri se non furono maestri furono scolari. Ho sempre avuto l'impressione che uno come Debord abbia sofferto in qualche misura di non aver fatto la Sorbona. Può averlo fatto come scelta, ma in fondo un poco gli deve aver pesato. Anch'io non posso dire che il non aver seguito il mercato in certa misura non mi crei dei problemi. E' chiaro: posso aver scelto ma rimane il problema. Cose di questo genere nascono nel mondo dei chierici. Se si leggono i documenti del '47 di Jorn, Constant ecc. il rapporto arte-lavoratori era molto clericale, ambiguo, perché sono sempre i chierici che parlano e quello che arriva agli altri é comunque distorto. Ritornando al tema del laboratorio vien fuori l'idea (che mi affascina ancora anche se in maniera diversa) che tutti potessero in qualche misura produrre quel tanto o quel poco di bellezza, e questa è una tesi pedagogica. Vale a dire: il laboratorio come luogo dove chiunque può provare avendo un minimo di riferimento. Questo era un pensiero estratto dal modello della libera ricerca scientifica, con tutti i limiti ed i condizionamenti che un progetto del genere si porta dietro. Comunque centrale era l'idea che la ricerca é aperta: puoi provare e costruire quel tanto di teoria legata alla prassi che ti é possibile condurre. Cosa che si può veder bene se ci si riferisce al mondo dei bambini perché con loro queste cose emergono in modo più evidente. Ma lo si può notare anche al livello degli artisti per la loro componente fanciullesca (vera o falsa che sia); non a caso la poetica del fanciullino di Pascoli é più vera di quanto possa sembrare, nel senso che se la si pensa a fondo non é poi così banale.
Ora, confrontando la posizione del ricercatore non professionale alla figura dell'artista di professione, risulta evidente come la prima sia più debole: il professionista prevale perché ha dietro la struttura, cioè tutto quanto garantisce quello di cui ha bisogno per esser tale.
In effetti questo dislivello fra le due posizioni non disturba, tuttavia penso che le contraddizioni siano reali e non un'invenzione, per cui alla fine la situazione si può capovolgere nel contrario e questa specie d'apertura può risultare del tutto illusoria.
In realtà niente garantisce che quest'apertura porti più in là di tanto. Lo si vede anche a livello dell'esperienza che abbiamo fatto noi, nel senso che i ragazzini che compiono un certo tipo d'esperienza poi due anni dopo vengono reificati dalla pressa ed escono chissà come: non si sa cosa sia rimasto di quell'esperienza, raramente qualcuno di loro va a vedere una mostra.

C.V. - Qual è, dunque, l'elemento forte (se c'è) tra il maestro e l'allievo? Sta forse nel rapporto interpersonale, che può diventare anche rivoluzionario, rispetto ad un rapporto di lavoro, di natura esclusivamente professionale?

P.S. - Per me é soprattutto quest'idea (in qualche misura presente anche in Jorn) di rendere disponibile una serie di possibilità, un po' il concetto di riappropriarsi di strumenti, di mezzi che ti vengono comunque confiscati. Sono strumenti di varia natura; certo è che questa riappropriazione resta soggetta a tutta una serie di crisi, di sconvolgimenti. Quindi si tratta del problema di creare una situazione. Questa parola ritorna spesso, anche se poi le situazioni che in concreto si realizzano non sono proprio come ci s'immaginava che dovessero essere. Creare una situazione significa "modificare delle condizioni".
Se tu modifichi un po' una serie di condizioni t'accorgi che succedono cose assolutamente diverse. Ad esempio, stando ai sacri testi della psicologia dell'età evolutiva, il bambino raggiungerebbe il massimo della sua libertà espressiva intorno ai 5/6 anni per passare poi al realismo visivo. E' facile dimostrare - ed io l'ho fatto più d'una volta - che, cambiando la situazione e mettendolo in condizione di compiere un altro tipo d'esperienza, l'individuo non approda dove gli era stato predetto. Non esiste alcun rapporto predeterminato di questo genere. Che poi questo significhi cambiare il mondo... beh al riguardo c'è da discutere ma resta comunque il fatto che anche un piccolo cambiamento non è così disprezzabile.

C.V. - Allora diviene determinante il fattore tempo?

P.S. - Si, certo. Poi questo é anche legato ad una serie di cose che costituiscono la contraddizione insita in una gran quantità di faccende. C'è, ad esempio, un problema di numeri: dieci esperienze hanno un peso diverso rispetto a diecimila, è chiaro. Ciò significa che entra in gioco la questione del controllo. Finora quel che si è visto storicamente è che vengono riciclati i sistemi di controllo precedenti. Quanto Trotzkij diventa commissario dell'Armata Rossa, l'unico gioco che ha in mano è quello di ricilare gli ufficiali zaristi e appoggiarsi alle strutture di comando che non vengono toccate, per cui il generale può giurare fedeltà alla rivoluzione ma in fondo la sua funzione è sempre quella del generale e non cambia. Allora qui è un po' lo stesso, certamente libertà e illusione sono due cose molto vicine.
Certo, in questa storia di creare situazioni l'accordo non c'era, nel senso che quando - ad Alba - spingevo l'idea del laboratorio non ho trovato appoggi concreti nel renderla operativa. Ad esempio quando al congresso erano venuti, in ritardo, due cecoslovacchi (la cortina di ferro era allora una realtà ben presente) si mostrarono interessati a questo progetto. Avevano cercato di dire che sarebbe stato opportuno fare uno scambio reale: pensavano di mandare degli studenti di Belle Arti. Jorn, dal canto suo, aveva immaginato e i contatti con la vedova di Leger, ma tutte queste proposte rimasero inutilizzate. Si volevano creare simili innesti culturali ma per un certo verso questo tentativo sembrò al movimento un'attività troppo banale. Jorn però, in Danimarca, quando aveva potuto s'era dato da fare per far diventare suoi amici direttori di qualche importante accademia. Quindi l'idea che non si dovesse abbandonare l'ambito della scuola per Jorn era valida, nel senso che la scuola non la puoi pensare solo come strumento in mano d'un potere ma occorre pensarla anche nei termini d'una conquista degli altri. La scuola è in questo senso un concetto ambiguo e contraddittorio, perchè possiede due facce e anche di più.

C.V. - Quindi c'era accordo con Jorn nella considerazione del problema educativo.

P.S. - Si, anche se questi problemi non venivano resi del tutto espliciti. Sicuramente non trovavano spazio nel pensiero di Debord. L'interesse che condividevo con lui e con Jorn (c'è stato un periodo in cui abbiamo lavorato molto insieme) era per un collegamento concreto di tutte queste cose con la vita sociale. Sembrava di nuovo balenare in una forma diversa l'idea del gioco dell'arte come un qualcosa che non si poteva buttar via tanto facilmente. Però tutto questo non é stato portato ad un livello di dibattito avanzato e strutturato in senso completo.
Uno dei limiti, secondo me, era questo: in realtà il movimento aveva un potere espansivo estremamente limitato e, quindi, una capacità di dibattito altrettanto ristretta.
Sono tutti problemi rimasti aperti (come la problematica arte-scienza di Jorn) e questa é la cosa più interessante: alcuni problemi in quel momento sono stati aperti e sono rimasti sospesi: problemi fondamentali che rimangono lì per anni o addirittura per secolo, per motivi molto complicati, difficili da comprendere appieno. La questione sollevata da Jorn non tanto sul rapporto arte-scienza quanto su quello arte-industria, che si riallaccia alle problematiche del Bauhaus, é una questione non risolta cui in seguito sono state date svariate risposte, tutte però estremamente deboli e banali. Il rapporto arte-industria nel senso della sua produzione economica é rimasto al livello pedestre della sponsorizzazione: niente di più o di diverso dal cardinale rinascimentale. O si é concretato, per altro verso, anch'esso affatto semplicistico, nel design.

C.V. - Per finire, quale valutazione si può dare dei rapporti fra arte e industria sorti attorno al M.A.C.?

P.S. - Li trovo molto banali, tra l'altro anche negli esiti. Non ne scaturisce niente di particolarmente interessante, perché non si attua nessuna vera integrazione: il rapporto tra quelle ricerche e la realtà, la vita sociale, rimane sempre modesto. Finisce per tornare ad essere quel che non vorrebbe, cioè décor, nel senso più banale del termine, con tutta una serie di stereotipi, con un po' di stranezza qua e là ma in effetti mi pare molto poco e comunque scarsamente incidente.



PIERO (PIETRO) SIMONDO é nato a Cosio d'Arroscia, in provincia di Imperia, il 25 agosto 1928. E' laureato in filosofia. Ha studiato pittura con Felice Casorati all'Accademia Albertina di Torino. Nel 1955 ha fondato con Asger Jorn il Laboratorio sperimentale per una Bauhaus immaginista; nel 1957 ha partecipato alla fondazione dell'Internazionale Situazionista. Nel 1962 ha fondato, a Torino, il C.I.R.A. (Centro per un istituto internazionale di ricerche artistiche) con il proposito di recuperare l'esperienza di laboratorio della Bauhaus immaginista e soprattutto la sperimentazione artistica in senso lato. Dal 1972 si è occupato dei Laboratori di attività sperimentali presso la facoltà di Magistero dell'Università di Torino."




(Da: OCRA, circolare sui problemi dell'arte, Genova, ottobre 1992)