TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 26 marzo 2011

Ripensare Marx


Seconda e ultima parte del testo della lezione tenuta nell'ambito dell'edizione 2011 della scuola di politica organizzata dalla Federazione savonese del PRC. La prima parte è stata pubblicata il 24 marzo.

Giorgio Amico

Non il denaro, ma l'uomo è il centro del mondo
Ripensare Marx (II)



Per Bloch quello di Marx è un realismo “capace di cogliere la tendenza del reale, la possibilità oggettiva reale che sorge da questa tendenza e, da qui, le proprietà utopiche, ossia cariche di futuro, della realtà”.

La coscienza critica del reale diventa coscienza anticipante, la capacità di cogliere la porzione di avvenire contenuta nel presente, una coscienza che fa di tutto per permettere a questa intuizione d'avverarsi. Le armi della critica, appunto, che si trasformano nella critica delle armi. Il pensiero critico che non si accontenta di interpretare il mondo (come hanno sempre fatto i filosofi), ma pretende di cambiarlo. La critica filosofica che diventa prassi sociale, collettiva. Una prassi che è già prefigurazione del futuro, rottura implacabile col mondo presente. “Chiamiamo comunismo il movimento reale che supera lo stato di cose presente”.

Per Bloch (e per noi) tutta l'opera di Marx è al servizio del futuro e la sua filosofia è la prima che sia davvero fondata su di un avvenire autentico, oggetto non di una contemplazione passiva (il marxismo delle sette che in nome del futuro rinunciano al presente), ma di un pensiero qui e ora orientato verso la trasformazione del mondo, la naturalizzazione dell'uomo e l'umanizzazione della natura.

Tra un empirismo senza prospettive appiattito sul presente e una prospettiva priva di agganci con il reale, Marx ci invita a saper già ora cogliere nel presente i segni del futuro, segni potenziali sia chiaro, ma fondamento di quel principio speranza che da sempre spinge l'uomo alla rivolta.

Speranza nel futuro e critica del presente si fondono in una filosofia della storia che trova il suo elemento agente nel proletariato, principale prodotto dei nuovi rapporti di produzione capitalistici. L'unica classe che nella società non abbia interessi materiali da difendere. L'unica classe che può dunque portare fino in fondo la critica radicale del presente.

“Non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia”, il mondo va trasformato per via rivoluzionaria in quanto “non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali” (Ideologia tedesca)

La scienza de “Il Capitale” non segna il superamento definitivo di questa afflato utopistico in nome di un materialismo meccanicistico e determinista (come sarà in larga parte il marxismo della II e della III Internazionale), ma offre al contrario a questo pensiero filosofico la sua prima vera possibilità di realizzazione, offre alle anticipazioni dell'utopia una base economica che lo corregge e lo oriente secondo il divenire del mondo reale. Si supera così il dualismo tra essere e non essere, tra realtà empirica e utopia.

A questo punto una domanda diventa inevitabile. E' ancora possibile questa speranza nel mondo attuale dopo Aschwitz e Hiroshima? La risposta è no: Come Dio nella canzone di Guccini, anche il marxismo positivistico e determinista è morto nei campi di sterminio. Così come il crollo dell'URSS e di quella mostruosità chiamata “socialismo reale”, segna la fine di un marxismo che vede il socialismo come onnipotenza dello Stato e crescita costante della produzione. Un pensiero che ha perso ogni criticità, ma diventa mera giustificazione di una realtà in cui il lavoro è sempre più alienato. Tanto alienato da a perdere persino il carattere illusorio di libera compravendita per diventare asservimento totale, schiavitù vera e propria nel sistema del Gulag fondamento di quell'accumulazione primitiva “socialista” teorizzata da Bucharin e da Lenin. Il socialismo che si riduce ai Soviet più l'elettrificazione.

Così come, da un altro lato, il liberismo economico indotto dalla globalizzazione segna il tramonto delle illusioni socialdemocratiche nella trasformabilità per vie interne del sistema di produzione capitalistico. Un marxismo quello della socialdemocrazia incapace di criticare la civiltà capitalistica, di andare oltre il presente e dunque destinato, con il crollo generalizzato in Occidente sotto i colpi della crisi e dell'emergere di nuove potenze di quello stato sociale che ne era stato il principale prodotto, a diventare mera gestione dell'esistente, incapacità di esercitare un'egemonia fosse anche riformistica.

In questo scenario di macerie, Marx ci può ancora aiutare a comprendere ciò che accade e che spesso è tanto irrazionale da sembrare incomprensibile. Un Marx critico della globalizzazione e persino di quella cosiddetta post-modernità che si presenta come livellamento a livello mondiale del prezzo della forza lavoro al suo grado più basso, crescita parallela sia del lavoro salariato sia della disoccupazione strutturale (non legata, cioè all'andamento del ciclo economico), spezzarsi del rapporto fra sviluppo economico e occupazione, generale peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e delle masse popolari, crescita dell'orario di lavoro (o per meglio dire della giornata lavorativa), cioè del tasso di sfruttamento, riduzione progressiva delle garanzie sindacali e sociali, generalizzazione della precarietà. Più in generale, come un inarrestabile imbarbarimento dei rapporti sociali.

Leggere Marx, permette di capire che non di disfunzione si tratta, non di una degenerazione, ma del pieno dispiegarsi su scala planetaria della “razionalità” capitalistica. Con Shakespeare possiamo dire che “c'è una logica in questa follia”. La logica del profitto. La spietatezza crescente delle politiche padronali non risponde da cattiveria o da incapacità a operare le scelte giuste. Alla base stanno mere logiche di sopravvivenza di un sistema economico sempre più in rotta di collisione con l'ecosistema planetario, sempre più incompatibile con la sostenibilità ecologica e dunque con la stessa sopravvivenza della specie.

Anche ad una veloce analisi Marx si rivela dunque un grande pensatore della modernità e delle sue incessanti trasformazioni. Basta un passo del Manifesto a dimostrarlo.

“La continua rivoluzione della produzione, lo scuotimento ininterrotto di tutte le istituzioni sociali, l'incertezza e l'incessante movimento contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e congelati, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi diventano obsoleti prima di potersi ossificare. Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria, tutto ciò che è santo viene profanato e gli uomini sono spinti finalmente a guardare con sensi asciutti e assennati le reali condizioni delle loro vite e le loro relazioni con gli altri esseri umani (...). “

Come nota Marshall Berman in L'esperienza della modernità basta questa frase da sola a rendere a pieno l'essenza della condizione moderna, quel processo di continua smaterializzazione, sradicamento in cui sempre più siamo immersi.

“Spinta dal bisogno d’uno smercio sempre più esteso, la borghesia invade il globo intero. Bisogna che dappertutto essa s’impianti, che dappertutto stabilisca e crei dei mezzi di comunicazione. Per mezzo dello sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia imprime un carattere cosmopolita alla produzione ed alla consumazione di tutti i paesi. A disperazione dei reazionari essa tolse all’industria la sua base nazionale. Le vecchie industrie nazionali sono distrutte o sul punto di esserlo. Esse vengono sostituite da nuove industrie la cui introduzione di- viene una questione vitale per tutte le nazioni incivilite; industrie che non adoperano più materie prime indigene, bensì materie prime venute dalle regioni più lontane, ed i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese stesso, ma in tutti i punti del globo. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, si sviluppa un traffico universale, una dipendenza mutua delle nazioni. Ciò che avviene nella produzione materiale si riproduce nella produzione intellettuale. Le produzioni intellettuali di una nazione divengono proprietà comune di tutte. L’esclusivismo ed i pregiudizi nazionali divengono ognora più impossibili; e delle diverse letterature nazionali e locali si forma una letteratura universale.”


Nonostante il tempo trascorso la sostanza del discorso marxiano resta intatta. La continua trasformazione degli assetti produttivi, l'estensione su scala sempre più vasta del mercato capitalistico fino alla formazione di un unico mercato globale, fenomeni che Marx aveva saputo leggere in un industrialismo allora ancora ai suoi primi passi, si sono ora completamente realizzati. La globalizzazione, di cui tanto spesso si parla come di un fenomeno qualitativamente nuovo, funziona ogni giorno seguendo proprio questa legge dello sviluppo incessante e distruttivo della natura, delle frontiere nazionali e dei rapporti fra gli uomini che Marx già alla fine del 1847 aveva saputo intravvedere.

Certo Marx non poteva prevedere tutti gli sviluppi della modernità, ma il suo pensiero ci può aiutare oggi a confrontarci con le dinamiche e le contraddizioni del nostro tempo a partire dal concetto stesso di crisi.

“La società borghese moderna che mise in movimento così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia a quei maghi, che non sapevano più dominare le potenze infernali, che essi stessi avevano evocato. Da trenta anni almeno, la storia dell’industria e del commercio non è che la storia della rivolta delle forze produttrici contro i rapporti di produzione moderna, contro i rapporti di proprietà, che sono le condizioni d’esistenza della borghesia e della sua supremazia. Basta menzionare le crisi commerciali che, per il ritmo periodico, mettono ogni volta più in questione l’esistenza della società borghese. Ogni crisi distrugge regolarmente, non soltanto una massa di prodotti già creati, ma ancora una grande parte delle stesse forze produttrici. Una epidemia colpisce l’umanità, che nelle epoche precedenti sarebbe sembrata un paradosso: è l’epidemia della sopra-produzione. La società si trova subitamente rigettata in uno stato di momentanea barbarie: si direbbe che una guerra di sterminio le porta via tutti i mezzi di vita: l’industria ed il commercio sembrano paralizzati. – E perché? – perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttrici di cui essa dispone non assicurano più le condizioni della proprietà borghese; al contrario, esse divennero troppo potenti per queste condizioni, che si mutano in ostacoli; e tutte le volte che le forze produttrici sociali spezzano gli ostacoli, esse precipitano nel disordine la società intera, e minacciano l’esistenza della proprietà borghese. Il sistema borghese divenne troppo angusto per contenere le ricchezze create nel suo seno. Come fa la borghesia per superare queste crisi? Da una parte con la distruzione forzata d’una massa di forze produttrici, dall’altra con la conquista dei nuovi mercati e lo sfruttamento più perfetto degli antichi. Cioè essa prepara delle crisi più generali e più terribili, e riduce i mezzi per prevenirle.”

Da cosa ripartire allora per tentare di andare oltre le rovine del presente, per riaprire un discorso di speranza?

Come scriveva già nel 1950 Karl Korsch forse davvero occorre abbandonare definitivamente il marxismo novecentesco con la sua idea di Progresso, del socialismo come uscita naturale automatica e ineluttabile della storia; per ripartire da Marx.

Occorre ripensare la storia (come diceva Benjamin) sotto il segno della catastrofe, dal punto di vista dei vinti (superando contraddizione propria di Marx fra denuncia implacabile dei costi umani dello sviluppo e visione comunque positiva dello sviluppo come necessità storica, come fatto in se progressivo). Occorre ragionare su una nuova qualità della vita, ripensare il socialismo come civiltà radicalmente altra, non più fondata sul paradigma dello sviluppo continuo delle forze produttive e dello sfruttamento intensivo della natura. Una civiltà fondata su una diversa e nuova qualità della vita, su una nuova gerarchia dei valori, su un rapporto diverso con la natura, su relazioni egualitarie tra sessi, popoli, razze. Il che significa cambiare rovesciare la linea seguita dal mondo occidentale negli ultimi cinque secoli, abbandonare l'ottimismo ingenuo di un pensiero che si voleva incarnasse il senso della storia, ridare cioè all'idea di socialismo la sua dimensione utopica.