TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 29 marzo 2011

Veronica Pesce, Verso l'edizione critica di "Murmuri ed Echi"


La nuova edizione di "Murmuri ed Echi" è un' edizione critica che riporta per intero le due edizioni più significative pubblicate (1912 e 1919), prendendo in considerazione tutte le altre con un lavoro di ricerca esaustivo svolto dalla curatrice, Veronica Pesce. Un impegno ammirevole per serietà filologica e rigore critico di cui è testimonianza il testo che pubblichiamo in cui si ricostruiscono le fasi salienti del progetto.

Veronica Pesce

Verso l’edizione critica di “Murmuri ed Echi”

Sono trascorsi più di vent’anni da quando Franco Croce sosteneva l’importanza dell’indagine critica di molti letterati liguri di primo Novecento, non solo per «l’autonoma incidenza della loro poesia», ma anche per il rapporto «a ritroso» con essi intessuto da Eugenio Montale, che -parafrasando Borges- «come tutti i veri grandi poeti, in qualche modo crea i suoi predecessori». E fra questi liguri Mario Novaro occupava un posto di rilievo, non tanto in virtù di pur evidenti riprese testuali, ma quasi quale ‘formula’ o ‘modello’ (va da sé condotto a ben differenti esiti espressivi e approfondito dal punto di vista contenutistico), per cui il poeta affida al paesaggio le più alte questioni esistenziali. Ancor prima Pier Vincenzo Mengaldo, riconosceva alla «tradizione ligure da Roccatagliata a Boine e Sbarbaro» un ruolo di intermediazione rispetto alla lingua di Pascoli, e ancor più, forse, di D’Annunzio, cui riconduceva quel «conservatorismo formale» proprio degli Ossi.

Accanto alla critica più autorevole valgono naturalmente le parole del medesimo Eugenio Montale che in più occasioni ha ricordato il nome di Mario Novaro parlando delle proprie radici poetiche e si è talvolta spinto a puntuali osservazioni di carattere critico-letterario:


“[...] Un altro poeta ligure appena conosciuto, Mario Novaro, che non deve essere confuso con l’autore del Fabbro armonioso. Mario Novaro è un poeta filosofo al quale si deve anche uno studio in lingua tedesca sul Malebranche. La sua poesia, quando è tale, è volutamente sfatta grezza affannosa, espressione di un animo turbato e rivolto agl’interessi supremi. Più frequente è in lui quella rarefazione di cui abbiamo recato un esempio in Ceccardo: «Liquido respiro aperto, alterno / di liscio mare ferrigno / con pigra una barca là nell’infinito / donde immensa volta di cielo s’inarca» [Oppio, 1919]; o con più forza ritmica, e con un senso di smarrimento che è la chiave di volta di questa ispirazione: «Pentecoste / campane del pomeriggio / lucido verde al sole / turchino di mare con sparse vele / nuvole chiare / delle selve d’ulivi respiro mite // e le campane / con tocchi chiari blandi / oh come tutto sarebbe felice / se potesse vanire / nel blando suono / delle campane.» [Pentecoste].


E questo è un paese da impressionista francese, che so, un Monet con una ruga più pensosa che lo fa «nostro»; un quadro che porremo nella mostra del nostro «novecento poetico» quando ci decideremo ad inaugurarla. Il Novaro vive ad Oneglia e questa sua poesia, della quale del resto egli ha dato troppo rari esempi, ha l’ondulazione e l’argenteo grigiore di quel tratto della riviera di ponente. Ansiosa è la sua poesia ma non mai scabra come quella del Boine e dello Sbarbaro; anzi segnata da un gusto di leggerezza, da uno spirituale desiderio di scelta: «Nell’aria fredda sottile / è un sentore d’arancio / che punge il cuore; / il mare nell’aria lieve invernale / à un suono più chiaro / più prossimo all’anima.» [Sera d’inverno, 1919].”


Ma è ormai trascorso un ventennio anche dal primo, e a oggi unico, convegno di studi dedicato a Mario Novaro. E già allora, recensendone gli atti, Vico Faggi dichiarava la necessità di un’edizione critica di Murmuri ed Echi, anche alla luce del contributo allo studio delle varianti offerto, proprio in quella sede, da Ada de Guglielmi. Nel confronto tra le successive edizioni, la studiosa infatti osservava «aggiustamenti non sempre omogenei e unidirezionali» e suggeriva la compilazione degli apparati con uno spoglio «non portato oltre le stampe approvate dall’autore o esteso alla redazione postuma con una lettura-verifica su contrasto.»


L’esigenza non pare oggi meno manifesta. Anzi, la necessità si rivela duplice se accanto allo studio interno al divenire della raccolta novariana, si valuta l’importanza di recuperare il testo ‘storico’ che effettivamente circolò e fu letto, base fondamentale e imprescindibile per analizzare il mutuo scambio con la poesia coeva e successiva. Ma manteniamo per ora distinti i due piani.


Se il lavoro su testo critico è buona prassi per l’analisi di qualsiasi opera letteraria, sarà tanto più vero nel caso di un’opera dalla storia sui generis, un’opera che abbia subito trasformazioni e cambiamenti nelle molteplici pubblicazioni, sempre seguite dal desiderio di mettere a punto una nuova e «definitiva» edizione. I primi testi nascono infatti nell’arco di un decennio (1902-1912) in forma di prosa e sono convertiti solo in un secondo momento in versi, quando vanno ad affiancare nuove poesie nate direttamente in questa forma (1915-1919). Quasi tutti i componimenti, inoltre, sono pubblicati singolarmente (o in gruppi) sulla «Riviera Ligure» di cui Mario Novaro è direttore, e - di nuovo- soltanto in un secondo tempo sono riuniti in volume. E ancora: nel corso del tempo e nel succedersi delle riedizioni, la versificazione e l’interpunzione mutano ulteriormente, accanto a lessico e sintassi, ma in misura meno significativa. La prima edizione della raccolta appare nel 1912, l’ultima vivente l’autore, la quinta, nel 1941; la morte lascia incompiuto l’ennesimo progetto di edizione «definitiva» che vede la luce in una pubblicazione postuma per mano di Giuseppe Cassinelli nel 1975 (ristampata nel 1994).


Il curatore rispetta la presunta ultima volontà autoriale; ma si tratta di volontà ultima solo in senso cronologico, e presunta, appunto, perché il volume non era stato licenziato per la stampa. La morte per di più sopraggiunge improvvisa nell’agosto del 1944, in circostanze non del tutto chiarite. Si consideri inoltre che il ripensamento e il lavorìo correttorio condotto dal poeta è pressoché continuo e costante nel tempo e si fa quasi ossessivo negli ultimi anni. La corrispondenza documenta la periodica comunicazione, ad amici ed editori, della volontà di preparare un’edizione «definitiva». Il termine ricorre ogni qualvolta l’autore pensa a una nuova pubblicazione. Già nel febbraio del 1916 scrive a Ricciardi (editore anche delle precedenti): «Dopo la guerra intenderei stampare una o mezza dozzina di copie con un buon numero di aggiunte. E se n’avrà piacere facilmente mi troverò d’accordo con Lei per questa edizione (!) definitiva». L’annuncio si ripeterà quasi uguale per la quinta edizione (1941): «Mi rivolgo ancora a lei per un’“edizione definitiva” di Murmuri ed echi, dal momento che io sono deciso a farla uscire; e per varie ragioni (che potrebbe forse aver presenti anche Lei) mi pare questo (a parte la guerra) il momento giusto. Del resto vedo che gli editori non stanno in ozio. Penso anche che il tempo che a me avanza può essere breve, né vorrei lasciare ai miei la cura che il libro compaia ancora una volta corretto. Mai ho così riveduto e limato il libro come ora di proposito: un discreto numero di brevi soppressioni e aggiunte, e molte molte minute correzioni. Il volume risulterà dello stesso numero di pagine (o precisamente le pagine prima dell’Indice sarebbero 4 di più). Potrò mandarle una copia corretta e definitiva di tutto». E poi ancora identicamente e con le stesse motivazioni nella primavera del 1943: «Quanto all’edizione definitiva il testo lo considero dal marzo passato proprio congedato: con soppressioni, correzioni e aggiunte che certamente lo ànno migliorato. Ci sono due brevi liriche nuove. Nel n° XVIII le soppressioni sono in complesso di tre pagine; [...] Naturalmente comprendo le difficoltà attuali; pure questa edizione definitiva devo farla sia perché è necessaria sia perché vorrei curarla ancora io e... gli anni (75) mi avvertono che il tempo non mi avanza».


Quindi se non vi è dubbio che Mario Novaro stesse preparando una stesura definitiva, è altrettanto indubbia la perenne insoddisfazione per la forma della raccolta che rifiuta di cristallizzarsi. La stessa affermazione «il testo lo considero dal marzo passato proprio congedato» sarà puntualmente smentita: infatti Novaro invia a Descalzo un nuovo testo, da aggiungere alla silloge, nella primavera successiva (1944) e nei mesi seguenti invia al figlio Guido ulteriori correzioni per quel nuovo testo e per altro. È lo stesso Cassinelli a relativizzare in qualche modo il suo lavoro all’apparire di questa inedita corrispondenza con il figlio Guido: «Se al tempo in cui curai l’edizione definitiva avessi conosciuto queste lettere, mi sarei forse regolato diversamente; forse perché l’interrogativo del Novaro («e sta bene?») dimostra la sua incertezza». Valgano le parole di Ada De Guglielmi che, ancora in sede di convegno, scriveva in proposito: «Di questa redazione [l’ultima edita vivente l’autore] esistono sei copie corrette da Novaro, tre delle quali utilizzate da Cassinelli per sottrarre alla provvisorietà Murmuri ed echi, fissandone definitivamente i testi e l’indice. Tuttavia i volumi annotati, in seguito emersi, e le ultime lettere al figlio Guido, senza modificare in misura importante i contorni o il valore del libro postumo, lo risospingono alla dimensione relativa».


Nella difficoltà di stabilire una forse mai esistita stesura definitiva pare opportuno cogliere il testo nel suo instancabile processo di trasformazione. A partire però non dalla presunta volontà ‘ultima’, ma dal principio, cioè dalle due edizioni fondamentali, la prima in prosa (Ricciardi 1912) e la terza in versi (Vallecchi 1919), offerte al lettore entrambe a testo, corredato di apparato completo per tutte le altre edizioni a stampa pubblicate vivente l’autore, e limitato a una descrizione più sintetica e generale delle varianti più tarde (successive cioè alla più recente edizione licenziata dall’autore). La scelta ha ragione, per così dire, ‘storica’. La poesia di Novaro, con poche eccezioni, di cui si darà conto in apposita appendice, nasce interamente nel primo quindicennio del Novecento. La correzione è poi continua, a tratti maniacale, risente forse di tendenze poetiche coeve alle diverse fasi di revisione, ma la sostanza su cui l’autore interviene a livello prevalentemente formale è figlia del suo tempo e vive nel dialogo intertestuale con la lirica frammentista dei vociani, a tratti con l’espres­sionismo di un Boine, di un Campana, e sostanzialmente con tutto quello che passava sulle pagine de «La Riviera Ligure». La poesia di Novaro è scritta e pubblicata, dunque letta e conosciuta, in questi anni. Il dato ha una rilevanza ‘storica’ notevole: la maggior diffusione dei Murmuri ed Echi risale al suo primo periodo di elaborazione.


Si seguirà così un percorso a partire dalla genesi dei singoli e più antichi componimenti che Novaro presenta in questi termini all’editore al momento della prima raccolta in volume (aprile 1912): «Sono diciannove componimenti tra lunghi brevi e brevissimi. Tutti insieme fanno come un piccolo poema della vita. Per quanto io ci aggiungessi nulla aggiungerei al suo valore e al suo significato: è cosa compiuta. Altri più illustri di me ànno fatto pubblicazioni di minor mole». E ancora: «Veramente i maggiori di questi canti dovevano essere intermezzi lirici di un’opera di filosofia: ma vedo che mi appagano meglio così da sé». Ma l’iter è lungo e variegato. Nei testi successivi, come si è visto, il poeta abbandona quasi del tutto la prosa per la poesia e provvede a mettere in versi il primo nucleo dei Murmuri. È ancora lo stesso Novaro a chiarire (a posteriori) il suo modo di procedere, in questa dichiarazione poetica espressa all’amico Emilio Agostini:


«[...] La scarsa poesia mi viene – o meglio mi veniva – di solito di getto, senza divisione in versi sebbene buona parte delle più brevi poesie mi siano venute “dettate dentro” tali quali sono stampate in versi ben distinti. Invece Murmuri ed echi, e assai altre, erano tutto un fluire; per cui dapprima le stampai come prosa sciolta: e quando mi accorsi che buona parte dell’armonia a questo modo poteva andare perduta per il lettore, non feci che tagliare (!) in versi senza nulla mutare, o rare inezie. (Novalis à un Inno alla notte steso doppiamente e identicamente sia in verso sia in prosa).»


Altri interventi porteranno a una progressiva scarnificazione del verso, talvolta sintetizzato ma più spesso solo ulteriormente spezzato in sintagmi brevissimi, per poi ricompattarsi nuovamente, con le più tarde varianti, in una forma versificata di più ampio respiro. Gli interventi variantistici sulla forma del verso sono direttamente proporzionali al crescere di interesse per gli aspetti stilistici e soprattutto metrici, come ancora ci dimostra l’epistolario degli ultimi anni. Gli apparati documentano dunque sul piano pratico la variantistica, con le sue tappe scandite nelle cinque edizioni a stampa curate dall’autore. Non meno importanti risultano le lettere che documentano la teoria delle scelte autoriali e molto spesso alcune varianti intermedie, con annesse riflessioni in merito.


Come si evince da questi brevissimi cenni, l’archivio della Fondazione Novaro (che raccoglie la corrispondenza della «Riviera Ligure» e le lettere personali del poeta-filosofo e organizzatore culturale) gioca un ruolo fondamentale e imprescindibile nel definire la storia di Murmuri ed Echi. Già i curatori delle citate Lettere a «La Riviera Ligure» hanno ritenuto di inserire nei volumi del carteggio anche le lettere con l’editore Ricciardi. La scelta è spia dello strettissimo legame che intercorre tra i Murmuri e la «Riviera», e «tra letteratura e vita» con le parole di Pino Boero, quindi fra il poeta-filosofo-direttore e i collaboratori del periodico che sono al contempo lettori (e talvolta recensori e critici) della sua poesia. Va da sé che volendo ricostruire la storia complessiva della raccolta, la ricerca d’archivio deve coprire tutto l’arco di vita del poeta, estendendosi ben oltre quel 1919 che chiude l’attività della «rivistina», e quindi ben oltre il materiale edito. Se infatti risultano di tutto interesse le lettere con Giovanni Boine, con Aldo Palazzeschi e con molti altri corrispondenti per il periodo della «Riviera», è andando avanti nel tempo, quando la corrispondenza si fa più selettiva, più intima e meno ufficiale (Emilio Agostini, Marino Moretti, Corrado Govoni, per non citare che i corrispondenti più assidui), che vediamo esporre ragioni poetiche, assistiamo a confronti su questioni tecniche e stilistiche, registriamo la storia di alcune varianti e la loro cronologia.


Ma il rapporto con il periodico e con gli amici-poeti collaboratori non si esaurisce nei carteggi, dunque nella compilazione dell’apparato, nella datazione di una variante o nella ricerca di una riflessione poetica, dati pur utilissimi per la definizione del profilo autoriale. Il rapporto con il periodico va esplorato sul piano dell’intertestua­lità, nel reciproco scambio con gli autori che vi hanno collaborato, autori che dunque Novaro leggeva e selezionava, e che a loro volta leggevano Novaro.


Addirittura vorremmo suggerire che la poesia di Mario Novaro abbia contato il maggior numero di lettori proprio quando apparve sulle pagine della «Riviera», con la sua tiratura di 80.000 copie e punte anche maggiori. E senza dubbio fu ancora sulle pagine della «Riviera» che annoverò i suoi lettori più ‘alti’, se consideriamo i nomi di chi collaborò alla rivista e di chi non collaborò direttamente ma dichiarò di esserne stato lettore, come Montale -già ricordato- che più volte si pronunciò in merito alla poesia di Mario Novaro e alla sua rivista. Ovviamente non contano solo le dichiarazioni, ma ancor più le tangenze testuali, siano esse tematiche o lessicali: quel «Libeccio furioso sfrenato» che «sferza» il mare e che ritroviamo ne La casa dei doganieri ma anche nel ritmo di Corno inglese, quella «foglia accartocciata» della Filza che riappare in Spesso il male di vivere, quelle immagini di un paesaggio spesso dolce e lirico, ma che talvolta è colto nei suoi tratti essenziali, scabro e assolato, quelle «memorie e interrogativi metafisici, affidati all’evocazione di un paesaggio ligure tra monti e mare», suggerite da Franco Croce, pur fra le molte e sensibili differenze, sono solo minuti esempi di una ricerca ancora tutta da scrivere.

L’operazione ecdotica che si intende proporre vuole restituire i testi novariani nel loro valore storico, sia in termini di percorso poetico e linguistico individuale, dunque nell’originario percorso dalla prosa alla poesia e nell’analisi delle varianti, in modo da definire anche le diverse influenze alle diverse altezze cronologiche, sia in termini di assorbimento collettivo della sua lezione, per dare un ulteriore strumento -e si spera un rinnovato impulso- all’indagine del ruolo che anche la poesia di Mario Novaro può aver avuto nel divenire della grande poesia novecentesca.


(Da: La Riviera ligure, gennaio/agosto 2010, Anno XXI N.61/62)