TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 2 gennaio 2014

Marsiglia di notte (Le illusioni d'Itaca, 10)



Marsiglia di notte è un luogo d'ombre, abitato da fantasmi. (Decimo capitolo de Le illusioni d'Itaca)

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

10. Marsiglia di notte


Trovò un hotel proprio allo sbocco della grande via che conduceva al Vieux-Port. Un albergo moderno, all’americana, tutto luci e vetrate, in ogni cosa simile ai mille altri dove era stato in quegli anni. Luoghi freddi, asettici, senza storia. Buoni solo per scopate senza amore. Alla reception un portiere annoiato gli consegnò la chiave della sua camera senza fare commenti sul fatto che egli fosse praticamente senza bagaglio.
  • Venez-vous a Marseille pour la premier fois? - Gli chiese tanto per darsi un contegno.
  • Non.
E il tono non invitava a fare altre domande.
  • Bon… votre chambre est au troisième étage. Il y a aussi un très grand balcon sur le Vieux-Port. Bonne nuit, Monsieur.
  • Bonne nuit.
In effetti la sua camera dava direttamente sul Vieux-Port. Dal grande balcone ne aveva una visione completa. Come sempre quella vista lo colpì per la sua bellezza. File di imbarcazioni stazionavano ordinate nella darsena mentre la risacca ne faceva ondeggiare lievemente le alberature producendo un soffuso tintinnio metallico. Un battello turistico, l'ultimo della giornata, proveniente dalle isole del Frioul e dal Chateau d’If, stava attraccando in quel momento alla banchina. A prua un gruppo di giapponesi nell’attesa di sbarcare fotografava i palazzi del Quai de la Rive Neuve e del Quai des Belges. La vista era magnifica, ma il suo cuore non ne gioiva. Non sapeva neppure lui cosa ci facesse lì, in quell'albergo. Era da quando era entrato nella camera che se lo chiedeva.



Chiamò il bar, si fece portare in camera una bottiglia di Oban e cominciò a bere alternando il whisky liscio con la Perrier gelata del frigobar. Dalla stanza accanto provenivano voci e il rumore di un televisore acceso.

Accese a sua volta il televisore. Sullo schermo apparvero le immagini di un vecchio film in bianco e nero. Riconobbe quel film, lo aveva visto tanti anni prima con Giulia. Raccontava la storia di una donna divisa fra due uomini, ma padrona della propria vita. Decisa a gestire la propria esistenza a ogni costo. Nonostante tutto e tutti.

Ricordava come Giulia si fosse fortemente identificata con il personaggio di Catherine (questo il suo nome), con il suo rifiuto dell'ipocrisia e del perbenismo borghese. Ricordava ancora come fosse uscita eccitata dal cinema, ammirata per la sensibilità quasi femminile con cui il regista aveva tentato di rendere le raffinate atmosfere del romanzo di Roché che avevano letto entrambi ai tempi del liceo. Un tentativo, quello di Truffaut, gli aveva spiegato in una delle loro animate discussioni, non tanto di fare un film sull'esperienza della libertà assoluta, quanto di girare un film assolutamente libero su di un'esperienza fallita di libertà.

Da chissà quale luogo remoto della memoria gli ritornarono le frasi che Jeanne Moreau pronunciava fuori campo all'inizio del film:

"Tu mi hai detto: t'amo. Io t' ho detto: aspetta. Stavo per dirti: prendimi: Tu mi hai detto: vattene".

Quante volte Giulia gliele aveva ripetute. Era diventato quasi un gioco fra di loro, un motivo di scherzo e di risa. Ora comprendeva il senso profondo di quelle poche battute. Il loro metaforico esemplificare la crudele ambiguità del rapporto d’amore.

Si sdraiò sul letto, spense la luce. Nel buio della stanza, illuminata dalla pallida fluorescenza del televisore, le immagini del film facevano da sfondo all'errare inquieto dei suoi pensieri.

Ricordava una delle ultime sere che avevano passato insieme. Avevano cenato in un ristorante sul mare. Lei aveva appena toccato il cibo che pure era buono. In qualche modo aveva capito che in lui qualcosa stava cambiando. Che la sua mente sempre più spesso era altrove. E aveva avuto paura.

Usciti dal ristorante, avevano camminato a lungo per le vie deserte della loro città stretti l'uno all'altra.
  • Andiamo sulla spiaggia? - Giulia gli aveva chiesto
Lui non aveva risposto.
  • Non vuoi che andiamo sulla spiaggia? - Aveva insistito.
Aveva cercato di risponderle con una battuta, ma lei era rimasta seria.



Giù lungo la riva l'odore del catrame si fondeva con quello della notte. Alle loro spalle le luci della città bruciavano come falene nelle tenebre. E ad un tratto avevano sentito il respiro notturno del mare avvolgerli e tutto era parso loro cambiare aspetto, assumere nuove sembianze, mentre lontano sulla linea tremula dell'orizzonte il buio della notte stagnava. Un preludio, forse, di ciò che li attendeva, di ciò che stava per accadere loro. In silenzio continuavano a stringersi l'uno all'altro sapendo che mai più sarebbero riusciti a ricreare quel momento, che mai più si sarebbero sentiti in quel modo. Tormentato dai suoi dubbi, lui si sentiva confuso, nonostante il tepore del corpo di lei stretto al suo. Aveva dimenticato le parole che pure da tempo voleva dirle. E il suo cuore lentamente si riempiva di notte, di nebbia e di vento.

Giulia si era turbata per il suo silenzio.
  • Cosa c’è? - Gli aveva chiesto - Non sei felice qui con me?
La sua voce tremava.

Quando si era chinato per baciarla, si era accorto che nel buio lei stava piangendo. Una rabbia cieca lo aveva preso. Le si era rivolto bruscamente, con asprezza.
  • Cosa succede? Cos' hai?
  • Nulla, non ho nulla.
A capo chino aveva continuato silenziosamente a piangere. Tirando su col naso, come fanno i bambini quando non vogliono farsene accorgere.
  • Mi dispiace, Giulia. Mi dispiace davvero. - Non gli venivano altre espressioni che quelle frasi banali.
Più tardi nella loro camera, mentre di là nel bagno Giulia si preparava per lui, si era vergognato per quelle parole, per quella rabbia, per averla fatta piangere. Sapeva che l'inquietudine che lo rodeva l'avrebbe presto portato via di lì e questo lo faceva sentire in colpa. A poco era servita la foga con cui avevano fatto l'amore, con cui si erano vicendevolmente dati e presi. Aveva ragione Giulia: la sua mente era ormai altrove, lontano da lei. Pur sentendo di amarla ancora, pur desiderandola con ogni fibra del suo corpo, qualcosa di indefinibile si ergeva ormai fra di loro, li allontanava sempre più l'uno dall'altro.

In silenzio, davanti allo specchio, lei pettinava i suoi lunghi capelli neri. Sdraiato sul letto lui la guardava e avrebbe voluto pregarla di smettere, di voltarsi e sorridergli, di fare ancora l'amore con lui, ma non c'erano parole, né segni per riparare a ciò che era accaduto tra loro.

Si accorse all'improvviso che il televisore non trasmetteva più nulla. Di stare fissando uno schermo vuoto. Si riscosse da quei pensieri. Inutili, come le cose passate. Bevve un altro bicchiere di whisky, poi si alzò, si avvicinò al balcone aperto e guardò fuori nella notte. Giù nel porto luci di segnalazione verdi e rosse contrastavano singolarmente con le lampade allo iodio dell'illuminazione stradale. Aveva caldo. Andò nel bagno per farsi una doccia. Lo scroscio dell'acqua fredda sul suo corpo lo svegliò del tutto. Dalla banchina sottostante gli giunsero le voci dei facchini che stavano scaricando le cassette del pescato per il mercato del giorno dopo. Guardò l'orologio sul comodino: era l’una. Ancora troppo presto per andare a dormire. Con gesti lenti si rivestì, si chiuse la porta della camera alle spalle, percorse il lungo corridoio silenzioso fiocamente illuminato dalle luci notturne, scese nella hall deserta. Dietro il bancone della reception il portiere di notte tutto preso dal suo computer non si accorse neppure di lui.

La notte calda di Marsiglia lo accolse nel suo abbraccio salmastro appena fuori la grande porta girevole dell’hotel. Era molto tardi, ma le strade erano ancora piena di gente. Lentamente si incamminò lungo il Quai du Port, in direzione del Fort St-Jean che intravvedeva sullo sfondo, grande macchia bianca nella luce dei riflettori a chiudere l'imboccatura della darsena.



Rannicchiato in un angolo, avvolto in una palandrana consunta, una bottiglia di vino semivuota accanto, un vecchio clochard al suo passare si mise a intonare La Varsovienne.

En rangs serrés l'ennemi nous attaque,
Autour de notre drapeau regroupons-nous
Que nous importe la morte menaçante,
Pour notre cause soyons préts à mourir !

("A ranghi serrati il nemico ci assale,/ stringiamoci attorno al nostro vessillo/ Che ci importa della morte,/ siamo pronti a morire per la nostra causa!")

Si fermò a guardarlo. Si frugò in tasca e mise qualche moneta vicino alla bottiglia.
  • Salut, mon camarade. - Lo salutò il vecchio alzando il pugno chiuso.
  • Salut - Rispose lui - Ça va?
Il vecchio borbottò qualcosa. Lui si voltò e riprese a camminare, ma il vecchio lo richiamò indietro.
  • Attention à les mouchards et à les gendarmes. Ils sont partout, comme les fachos du Front National! Ces salauds!
E sputò per terra. Uno sputo lungo, dritto davanti a sè. Un gesto d’orgoglio a ricordargli che sotto quegli stracci c’era ancora un uomo, che la rivoluzione è un’avventura del cuore.
  • Merci, camarade. Je ferai attention.
  • Attention à la taupe, - aveva ripreso a dire il vecchio con l’espressione misteriosa di chi svela un arcano - elle est fragile. Et pourtant, avec patience, avec obstination, de galeries en soutarrains, elle va en souriant son cheminement de taupe vers des nouvelles irruptions.
Gli parve di conoscere quelle parole, di averle già sentite.
- Lo spirito soffia dove vuole. – Pensò.
Mentre si allontanava sentì il barbone intonare a squarciagola il ritornello di una vecchia canzone rivoluzionaria, L'Appel du Komintern:

Quittez les machines, dehors prolétaires,
Marchez et marchez, formez-vous pour la lutte,
Nous ne craignons pas la torture, ni la mort,
En avant prolétaires, soyons prêts, soyons forts!

("Abbandonate le macchine, uscite fuori o proletari,/sù in marcia, preparatevi alla lotta,/non temiamo la tortura o la morte,/avanti proletari, siamo pronti, siamo forti!")

La tortura e la morte. Gli venne da sorridere.

(continua)