TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 4 gennaio 2014

Raffaele K. Salinari, Nar­ciso: lo spec­chio d’acqua




Se davvero siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni allora per riprendere a sognare dobbiamo attraversare lo specchio e tuffarci in noi stessi.

Raffaele K. Salinari

Attraverso lo specchio come fosse acqua (seconda parte)



Nar­ciso: lo spec­chio d’acqua

Se lo spec­chio di Alice diventa una neb­bio­lina, e quello di Orfeo tra­smuta in acqua, nel mito di Nar­ciso è l’acqua stessa che si mate­ria­lizza in spec­chio per farsi riflesso dell’eroe.

Nar­ciso era figlio dell’azzurra ninfa Liríope, che un giorno il dio del fiume Cefiso aveva avvolto nella sua liquida pre­senza, fecon­dan­dola. Liríope, che signi­fica «dagli occhi sfac­ciati», aveva tra­smesso la carat­te­ri­stica del suo sguardo al figlio, che lo usò per ricon­giun­gersi a se stesso.

Il veg­gente Tire­sia aveva detto a Liríope, la prima per­sona che lo avesse mai con­sul­tato: «Nar­ciso vivrà sino a tarda età, pur­ché non cono­sca mai se stesso», curioso capo­vol­gi­mento spe­cu­lare del motto delfico.

E così, men­tre Nar­ciso è nel bosco, si imbatte in una pozza pro­fonda e si acco­sta presso di essa per bere. Non appena vede, per la prima volta nella vita, la sua imma­gine riflessa, si inna­mora per­du­ta­mente del gio­vane che stava fis­sando: è chiaro che il rispec­chia­mento acquo­reo è un ritorno alla sua essenza.

E dun­que Nar­ciso non si inna­mora della sua imma­gine, o non sem­pli­ce­mente almeno, ma della sua stessa acqua riflessa nell’immagine, in altre parole del riflesso imma­gi­nale della sua essenza acquorea.

«E ancora più pro­fondo è il signi­fi­cato della sto­ria di Nar­ciso, che non potendo affer­rare l’immagine dolce e tor­men­tosa che vedeva nella fonte, vi cadde den­tro e annegò. Ma quella stessa imma­gine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. È l’immagine dell’inafferrabile fan­ta­sma della vita, ed è que­sta la chiave di tutto». Così dice Ismaele, la voce nar­rante di Moby Dick.

Ma tutti siamo fatti d’acqua. E allora, per farsi affa­sci­nare dal nostro riflesso biso­gna tuf­far­cisi den­tro, attra­ver­sare lo spec­chio d’acqua, impe­gnarsi più a fondo per­ché l’immaginazione torni a sognare. Così la forza poe­tica, che era debole nel sem­plice gioco dei riflessi super­fi­ciali, si esalta; l’acqua, diven­tata più pesante, più scura, più pro­fonda, più avvol­gente, la «mate­ria­lizza» in noi e per noi all’improvviso.

Lo sguardo acquo­reo di Nar­ciso potrebbe essere quello di ognuno di noi davanti ad uno spec­chio d’acqua riflet­tente: una rêve­rie sulla bel­lezza di noi stessi come parte della bel­lezza del Mondo, della nostra capa­cità di par­te­ci­pare alla bel­lezza del Mondo con la nostra stessa bellezza.
L’immagine fran­tu­mata

Ma lo spec­chio può essere attra­ver­sato anche come decide di fare Lord Pat­chou­gue, pro­ta­go­ni­sta rac­conto del dandy dadai­sta Jac­ques Rigaut, distrug­gendo insieme allo spec­chio l’immagine della sua stessa vita.

«È seduto a un tavo­lino, con­cen­trato su un gioco di pazienza. Esi­ste? È fra due carte, poi è nel pas­sag­gio da una carta a un’altra: è in quell’istante a cui è ridotto l’universo — nove di cuori su dieci di fiori — Fatto. Lord Pat­cho­gue risol­leva il capo, l’universo si rianima.



Le com­parse, da un lato all’altro della stanza, fanno un gran bac­cano. Sul muro di fronte, in una grande spec­chiera, Lord Pat­cho­gue scorge la sua imma­gine, dice: vi rico­no­sco. Non vi ho scam­biato né per uno struzzo né per un river­bero, né per il mio amico Char­les. Siete l’immagine di Lord Pat­chouge, se non addi­rit­tura Lord Pat­chouge in per­sona. Ah! Chi di noi due ha fatto la prima mossa? Chi segue l’altro? Lord Pat­chouge si è alzato. In piedi si esa­mina davanti allo spec­chio: cin­que sensi non bastano ai suoi vicini occa­sio­nali; ancora una volta per­de­ranno lo spet­ta­colo, total­mente impre­pa­rati come sono a per­ce­pire la pros­si­mità di un mistero o pen­sare alla morte.

Lord Pat­chouge e la sua imma­gine si fanno len­ta­mente incon­tro l’una all’altra. Si stu­diano in silen­zio, si fer­mano, s’inchinano. Da quale ver­ti­gine è stato colto Lord Pat­chouge? Fu breve, facile e magico: Lord Pat­chouge si è lan­ciato a testa bassa. Lo spec­chio all’urto, al tra­passo, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall’altra parte. Sono tutti in piedi. Il mera­vi­glioso non è raro, l’incredulità è più forte dei mira­coli. I mira­coli fanno fatica a reclu­tare testi­moni, tanto è esi­guo il numero di coloro dispo­sti a dare la pro­pria ade­sione al sopran­na­tu­rale. Lord Pat­chouge per primo non era poi così sicuro di aver com­piuto il grande passo.

Nes­suno fra quanti gli si rac­co­glie­vano intorno si accorse della stu­pe­fa­cente spa­ri­zione dell’amico. Lo cir­con­da­vano come fosse stato ancora pre­sente, mostra­vano di rico­no­scerlo, di sen­tire la sua voce. Suben­trò tut­ta­via un certo disa­gio. Come mai Lord Pat­chouge non si era ferito più gra­ve­mente? Quel sot­tile, unico taglio di tra­verso sulla fronte non era suf­fi­ciente: non è cosa di tutti i giorni che uno attra­versi impu­ne­mente uno spec­chio; si sareb­bero sen­titi tutti alquanto più sol­le­vati se aves­sero avuto un gran numero di ferite da con­tare con tanto di per­dita di san­gue. Non c’era che una per­sona, la stessa che avrebbe offi­ciato per il resto della serata, a sospet­tare il carat­tere fatale del sot­tile filo rosso che scal­fiva la fronte del Lord. Un mira­colo non viene mai da solo; sa qual è il suo dovere e per­ciò si fa accom­pa­gnare da mani­fe­sta­zioni col­la­te­rali straor­di­na­rie… All’indomani due ope­rai ven­nero a sosti­tuire lo spec­chio. Una volta ter­mi­nato il lavoro, Lord Pat­chouge era scomparso».

Qui il per­so­nag­gio prima rompe lo spec­chio, poi fa in modo di farlo sosti­tuire per non tor­nare mai più, affin­ché la sua imma­gine sia per sem­pre altrove. L’attraversamento-scomparsa di Lord Pat­chouge è quella di un dandy che vive con­sa­pe­vol­mente la sua vita nell’opposizione totale al pro­cesso di svi­luppo bor­ghese e che, con gesto radi­cale, afferma com­piu­ta­mente la sua irriducibilità.



L’uomo di vetro

Seguendo le sug­ge­stioni sugli stati di tra­smu­ta­zione della mate­ria vitrea tro­viamo, all’opposto polare dell’acquoreo spec­chio di Nar­ciso, quello dell’Uomo di vetro di Paul Valéry: qui è una vita che diventa rifesso di se stessa.

In que­sto capi­tolo dal romanzo Una serata con il Signor Teste del 1903 assi­stiamo, per così dire, alla vetri­fi­ca­zione di un uomo, di un testi­mone (Teste), total­mente assor­bito dalla spe­cu­la­zione — dun­que dal rispec­chia­mento — sul suo stesso pen­siero: «Si droite est ma vision, si pure ma sen­sa­tion, si mala­droi­te­ment com­plète ma con­nais­sance, et si déliée, si nette ma repré­sen­ta­tion, et ma science si ache­vée que je me pénè­tre depuis l’extrémité du monde jusqu’à ma parole silen­cieuse; et de l’informe chose qu’on désire se levant, le long de fibres con­nues et de cen­tres ordon­nés, je me suis, je me réponds, je me reflète et me réper­cute, je fré­mis à l’infini des miroirs. Je suis de verre».

«Così retta è la mia visione, così pura la mia sen­sa­zione, così mal­de­stra­mente com­pleta la mia cono­scenza, così sot­tile e nitida la mia rap­pre­sen­ta­zione, e la mia scienza così com­piuta, che io pene­tro me stesso dall’estremità del mondo fino alla mia parola silen­ziosa; e muo­vendo dall’oggetto informe del desi­de­rio che nasce lungo le fibre cono­sciute e i cen­tri ordi­nati, io seguo me stesso, mi rispondo, mi rifletto e riper­cuoto, fremo dinanzi all’infinità degli spec­chi. Io sono di vetro» (tra­du­zione di pb).

«Io sono di vetro», ecco la meta­mor­fosi finale: l’uomo diviene lo spec­chio che egli stesso ha gene­rato con la sua rifles­sione per­spi­cua, con la sua spe­cu­la­zione. L’ultimo attra­ver­sa­mento sarà pene­trarsi dall’estremità del mondo intel­li­gi­bile per tra­smu­tarsi nella sua vitrea essenza, dive­nire la fonte lumi­nosa delle sue rifles­sioni, un puro e tra­spa­rente cri­stallo di lux per­pe­tua nel gioco infi­nito dell’emanazione.

Nel dio­ni­si­smo orfico il dio crea il Mondo osser­vando i suoi pen­sieri allo spec­chio, Tom­maso D’Aquino, nella Summa teo­lo­gica, parla di cla­ri­tas per defi­nire lo stato per­cet­tivo delle cose ultime. Già nella seconda metà del Sei­cento, Per­rault aveva rac­con­tato la sto­ria del signor Orante (dal greco «veg­gente», «mostrante»), tra­sfor­ma­tosi in uno spec­chio vene­ziano per troppa distac­cata obbiettività.



Chi è allora Teste? Un testi­mone, senza dub­bio, di un’epoca tra­scorsa, un indi­vi­duo, per dirla con Wal­ter Ben­ja­min «che, sul punto di attra­ver­sare la soglia della scom­parsa sto­rica, già ombra, risponde un’ultima volta al richiamo della sua iden­tità, prima di tuf­farsi là dove nes­suno più lo aspetta» ma anche l’avanguardia dispe­rata di un mondo del quale i suoi con­tem­po­ra­nei non distin­guono ancora i con­torni, le deter­mi­nanti sim­bo­li­che effettive.

L’uomo di vetro riprende dun­que il sogno eterno dell’ortho­the­ron ble­poi, la «retta visione» cui fa allu­sione Pla­tone ne La Repub­blica e sulla quale Car­te­sio fon­derà la sua axio­lo­gia nel Discorso sul metodo.

È qui che l’affermazione di Teste esprime tutta la sua valenza pro­fe­tica, per­ché l’idea di mas­sima tra­spa­renza, sim­bo­leg­giata dalla sua tra­sfor­ma­zione nel puro spec­chio riflet­tente dei pen­sieri, lungi dall’essere il deli­rio di un sin­golo, è invero l’anticipazione dell’oscuramento del sacro, cifra della moder­nità di matrice giudaico-cristiana.

Di tutte le idee legate alla visione stessa del divino, infatti, la tra­spa­renza è quella che ha subito una dege­ne­ra­zione asso­luta, pro­prio per­ché legata a que­sta sug­ge­stione di iden­ti­fi­ca­zione col Tutto, di ricon­giun­gi­mento tra noi e l’eternità.

Prima della Caduta vi era accesso diretto all’illuminazione divina, nulla ci divi­deva dal Creato. Poi, con l’invenzione del pec­cato ori­gi­nale, della colpa, la luce radiante che tra­sformò la pelle di Mosè in uno spec­chio mistico (Esodo, XXXIV, 29–30), si allon­tanò dall’umanità; San Paolo, il fon­da­tore della teo­lo­gia poli­tica, intro­dusse la meta­fora dello spec­chio affer­mando che si poteva con­tem­plare Dio solo per spe­cu­lum in aenig­mate.

Via via seco­la­riz­zata, ritro­viamo la tra­spa­renza come instru­me­tum regni fil­trata dalle grandi vetrate nell’architettura ascen­sio­nale delle cat­te­drali goti­che descritte da Panof­sky, in cui la mani­fe­sta­tio divina era ora­mai solo allusa, mediata dalle figure dei santi, per arri­vare poi, con la rivo­lu­zione indu­striale, alla mate­ria­lità cor­pu­sco­lare dell’illuminismo ed infine alla società dello Spet­ta­colo che l’ha pro­gres­si­va­mente cat­tu­rata nei neon dei cen­tri com­mer­ciali, ora­mai stru­mento con­sen­suale ed inap­pel­la­bile del domi­nio mediatico-politico libe­ri­sta di altri idoli total­mente seco­la­riz­zati e desacralizzati.

Per que­stoPaul Viri­lio parla di un acce­ca­mento del nostro psi­chi­smo, che si è ulte­rior­mente aggra­vato sino alla elu­sione ottica di cui parla il geo­grafo Franco Fari­nelli — com­men­tando l’assenza di foto­gra­fie auten­ti­che del cada­vere di Bin Laden — in cui «ogni rela­zione tra quel che vediamo e quel che accade è messa tal­mente in forse da essere due cose che non sol­tanto non hanno tra loro nes­sun neces­sa­rio rap­porto ma si oppon­gono al punto da ride­fi­nire pro­prio in tale oppo­si­zione la natura della realtà».

A dif­fe­renza dell’intimo e discreto fre­mito ema­nante dal vetro di Mon­sieur Teste, que­sta tra­spa­renza oscu­rante deve, nell’era mediatico-politica, essere mostrata ed esi­bita in pub­blico affin­ché il suo display possa garan­tire non più l’accesso all’epifania del divino, ma l’opacità asso­luta del domi­nio effettivo.

Ma, forse, senza sco­mo­dare i poeti e le anti­che Potenze, come forma essen­ziale della nostra re-esistenza per­so­nale e col­let­tiva, baste­rebbe che ognuno di noi tor­nasse con la memo­ria a quando, bam­bini, ci met­te­vamo in mezzo a due spec­chi e cer­ca­vamo di vedere dove finiva la nostra imma­gine riflessa verso l’infinito per rivi­vere l’incantesimo dell’attraversamento e ritro­vare un poco della nostra tra­spa­renza interiore.


Il Manifesto – 20 dicembre 2013