TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 24 novembre 2015

In ricordo di Guido Barroero. Umberto Marzocchi, Arrigo Cervetto e l'anarchismo italiano degli anni '40



E' morto Guido Barroero, militante anarchico genovese e storico del movimento operaio. Lo ricordiamo riprendendo questo suo vecchio articolo del 2005.

Guido Barroero

Tre libri e una questione ancora aperta 


Alcune considerazioni sugli ultimi decenni di storia del movimento anarchico ad opera di un sostenitore dell’“anarchismo di classe”.

Può sembrare singolare la scelta di accomunare questi tre libri – recentemente usciti – in un discorso comune, ma a ben vedere tanto strana non è. In primo luogo, ad un livello molto generale, trattano tutti e tre (in varia misura e in modo diverso) della storia del movimento anarchico e, con qualche sovrapposizione, ma anche con precise demarcazioni temporali, di questa storia nel secondo dopoguerra, fino agli anni ’80. Periodo su cui per adesso si è scritto, ricercato e ricostruito davvero poco. Attraverso le figure di Umberto Marzocchi e Arrigo Cervetto, le vicende dei GAAP e della Federazione Anarchica Italiana e il loro dibattito esterno e interno si delinea un quadro che, a pelle di leopardo, copre oltre quarant’anni di storia dell’anarchismo italiano. Ma questo ancora non basterebbe a trarre un filo comune da una collettanea di scritti di argomento analogo, se non si aggirasse sullo sfondo di queste ricerche la questione dell’anarchismo di classe. 

Esplicitamente nel libro su Cervetto, come contesto di alcune vicende nel libro su Marzocchi, come uno spettro da esorcizzare nel libro sulla FAI. 

È questa la grande questione che attraversa la storia del movimento e della FAI nel dopoguerra: la natura storica e sociale dell’anarchismo e la contrapposizione su questo tema tra chi riteneva (e ritiene) che l’anarchismo fosse nato “... non dalle astratte riflessioni di uno studioso o di un filosofo, ma dalla lotta diretta dei lavoratori contro il capitale, dai bisogni e le necessità dei lavoratori, dalla loro aspirazione alla libertà e all’eguaglianza” (1), e chi, più ecumenicamente, lo riteneva (ritiene) la massima espressione di un eterno spirito di rivolta e di ricerca di libertà che attraversa tutte le epoche e tutti gli sfruttati, enucleato in principi dai suoi grandi teorici. 

Questa contrapposizione, in realtà, viene da lontano, almeno da quando il movimento anarchico, raggiunte dimensioni di massa, ha iniziato a riflettere sulle proprie origini, ed è patrimonio dell’anarchismo di tutti i paesi. Spesso, inoltre, questa querelle è stata mascherata, sottesa o inglobata in altre: quella tra individualisti e organizzati, tra organizzatori e antiorganizzatori, tra piattaformisti e tradizionalisti, tra anarcosindacalisti e anarchici “puri” e così via. 

Tuttavia, in Italia, nel dopoguerra, a partire dal congresso di Carrara del settembre 1945 che sancisce una transitoria e fittizia unità tra le varie anime dell’anarchismo italiano, questa contrapposizione si esprime in massima parte nel duro confronto (che si sviluppa in maniera esplicita in diverse fasi, fino all’inizio degli anni ’80) tra piattaformisti (2) (o arscinovisti che dir si voglia) e il resto del movimento. 

È vero che questa riduzione può sembrare eccessivamente semplificativa nel non tenere conto, ad esempio, del dibattito sulla questione sindacale di fine anni ’40 (3) o della scissione dei Gruppi di Iniziativa Anarchica dalla FAI del 1965, ma è anche vero che i contenuti del primo (trasversale, ieri come oggi, rispetto alle diverse concezioni dell’anarchismo) riguardavano la specificità della condizione dei lavoratori e la seconda, entro certi limiti, può essere considerata il regolamento di conti definitivo all’interno della Federazione rispetto alla vicenda gaappista.



L’esperienza dei GAAP

Proprio le figure di Marzocchi e Cervetto sono in qualche modo esemplari all’interno di questo dibattito. Il primo, figura ormai carismatica dell’anarchismo italiano, rappresenta il nucleo duro e lo spirito della Federazione, attento alle istanze di rinnovamento che provengono dagli strati giovanili della FAI, legato da un forte rapporto al giovane Cervetto, è tuttavia anche preoccupato da possibili derive filo-marxiste e si pone, se mi è concesso il termine, come fautore di un rinnovamento nella continuità delle migliori tradizioni del movimento anarchico organizzato in Italia, del suo patrimonio ideale, ma anche del suo radicamento nel mondo dei lavoratori e dell’attività sindacale. 

Il secondo, anche lui savonese, è il simbolo di una profonda spinta al rinnovamento che viene dai giovani, prevalentemente di estrazione operaia, affluiti al movimento durante la lotta partigiana, e sarà insieme ad altri giovani (come Masini, Parodi, Vinazza, ecc.) elemento propulsore nella costituzione, nel 1951, dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP). 

Tuttavia nelle vicende (4) di fine anni ’40, inizio anni ’50 – ben sintetizzate nel libro di Amico e Colombo – che porteranno all’estromissione di fatto dalla Federazione dei giovani piattaformisti (Congresso FAI di Ancona dell’8-10 dicembre 1950) e alla fondazione dei GAAP (Convegno di Pontedecimo, 24-25 febbraio 1951) sancendo una dolorosa spaccatura nel movimento anarchico, prevale lo scontro sulle forme e le dinamiche organizzative rispetto a quello, ben più rilevante, sui contenuti politici dello scontro in atto. 

Questa accentuazione (ed in particolare il forte accento sulla responsabilità collettiva) e talune pratiche poco limpide (5), dettero l’impressione di un lavoro clandestino di frazione orientato a una manovra scissionista. 

Così, almeno all’inizio, sicuramente non era, il progetto dei giovani piattaformisti era quello, esplicitamente dichiarato, di trasformare la FAI in un’organizzazione di tendenza, coesa dal punto di vista programmatico e ideologico, fortemente strutturata dal punto di vista organizzativo e decisamente classista. Gli avversari da sconfiggere che venivano accusati di “resistenzialismo” e di “nullismo” ovvero di essere portatori di una visione difensiva, testimoniale, puramente propagandista e sostanzialmente aclassista dell’anarchismo, erano le aree vicine alla rivista «Volontà» e al periodico «L’Adunata dei Refrattari». 

Il progetto dei futuri gaappisti – nella sostanza e non nelle accentuazioni organizzativiste – trovò, almeno inizialmente, un certo sostegno e simpatia da parte di molti “vecchi” militanti (Mantovani, ma anche Failla e molti altri). Lo stesso Marzocchi, legato da forti rapporti di stima a Cervetto e agli altri giovani “orientatori” (6) liguri, ebbe – come ben testimoniano Sacchetti e Amico-Colombo – forte interesse nell’iniziativa, almeno fino a che il livello della polemica non travalicò certi limiti. Preoccupato delle lacerazioni che si stavano profilando nella Federazione, infatti Marzocchi si chiamò fuori dalle esasperazioni polemiche del dibattito e non partecipò al già citato Congresso di Ancona che sancì l’estromissione dei gruppi “orientatori” e per questo fu nel seguito aspramente criticato dai “resistenzialisti”. 

Si chiude dunque nel 1951 la prima esperienza piattaformista all’interno della FAI, i GAAP seguiranno una propria strada accentuando sempre più l’aspetto dirigista sul piano organizzativo mentre, dal punto di vista teorico, gli elementi iniziali di analisi marxista scivoleranno (per una parte della leadership: Cervetto e Parodi in primis) nella rilettura e nell’accettazione e nella riformulazione di tesi leniniste. Qui, almeno nell’ambito di questo articolo, il discorso si chiude se non per un piccolo bilancio dell’esperienza e due rilievi sul libro di Amico e Colombo. 

Un bilancio minimo, a mio avviso, non può essere che questo: l’esperienza “orientatrice” non fallì per un’interna incoerenza, né per l’accentuazione dell’importanza di categorie d’analisi marxiste (7), ma piuttosto per una certa arroganza intellettuale dei giovani piattaformisti e per il loro uso spregiudicato di dinamiche organizzative non sempre trasparenti. 

Il primo rilievo riguarda invece l’assoluta condivisibilità della tesi delle convinzioni anarchiche di Cervetto e Parodi, almeno per la prima fase dell’esperienza gaappista. Articoli e scritti dei due su varie pubblicazioni e periodici anarchici (8) smentiscono nettamente la tesi di un loro leninismo originario. 

Il secondo, che può sembrare una pignoleria filologica (ma non è tale) e che è forse l’unico piccolo neo della monografia su Cervetto, è l’attribuzione a questi delle “Tesi sull’abrogazione dello Stato come apparato di classe”. Documenti, relazioni, testimonianze dirette e indirette di partecipanti al Convegno di Pontedecimo avvalorano la tesi che queste furono discusse, prodotte e redatte da una commissione ristretta a cui parteciparono, tra gli altri, Cervetto e Masini, che poi le illustrarono in sede di Convegno. Una attribuzione ad personam non pare dunque possibile (9).



Quegli anni tumultuosi

Abbandoniamo il libro su Cervetto e facciamo un salto di circa vent’anni. Inizio anni ’70: il movimento anarchico, dopo la crisi dei primi anni ’60, culminata nella scissione del 1965 dei Gruppi di Iniziativa Anarchica, è in notevole crescita. 

Ha perduto la sua unità organizzativa (alla FAI e ai GIA si affiancano, come organizzazione a carattere nazionale, i Gruppi Anarchici Federati), ma grazie all’afflusso di giovani militanti (di estrazione studentesca, ma anche operaia) maturati nelle lotte del 1968/69, si sono moltiplicati sedi, circoli, gruppi, federazioni a carattere cittadino e regionale, dentro e fuori le organizzazioni a carattere nazionale. 

A questa crescita quantitativa corrisponde una forte richiesta, da parte dei nuovi gruppi e compagni, di approfondimento dell’apparato teorico e analitico specifico del movimento anarchico e di una maggiore incidenza di questi nelle lotte sociali e operaie del periodo. 

È quasi naturale dunque che nella situazione convulsa di quegli anni (la campagna sulla strage di Stato e l’assassinio di Pinelli, la campagna per la liberazione di Valpreda e Marini), insieme al dibattito sulle forme di lotta (la candidatura elettorale di Valpreda, ma anche la violenza rivoluzionaria) si riapra con forza la discussione sulla centralità della questione operaia nel movimento. 

Ed è quasi altrettanto inevitabile che le risposte del movimento siano differenti: mentre i GIA arroccati ad una visione testimoniale dell’anarchismo, rimangono sostanzialmente impermeabili alle nuove spinte, e i GAF si avviano verso una revisione colta dell’anarchismo (10) che però problematicizza lo stesso concetto di lotta di classe, nella FAI (e nella vasta area di gruppi non federati) si apre un profondo dibattito sulla natura dell’anarchismo, le sue forme organizzative, la questione sindacale e le lotte operaie. 

Inizia un decennio (quello ’70-’80), che è anche l’argomento del libro di Cardella e Fenech, che per la FAI (e il resto del movimento) è ricco di eventi, discussioni e polemiche, in una parola tumultuoso. 

In estrema sintesi alcuni degli episodi salienti di quegli anni. Nel biennio ’72-’73 una serie di gruppi e di organizzazioni regionali (interne ed esterne alla FAI) intraprende un percorso di dibattito e di confronto che, partendo dalla necessità di recuperare le istanze classiste e la natura operaia dell’anarchismo, finisce per sfociare nella rilettura dell’arscinovismo e dell’esperienza gaappista e nell’adesione al piattaformismo.

La contrapposizione all’interno del movimento è subito aspra, alcune prese di posizione dei GAF sulla figura di Bertoli (11) la acuiscono e diventano, per certi aspetti, un casus belli. 

La costituzione di una vasta area piattaformista – fuori e dentro la FAI – genera non poche preoccupazioni all’interno di una parte del movimento anarchico (GIA, GAF e alcuni settori della FAI stessa), che la vede come un tentativo di egemonizzare il movimento stesso. I timori non sono del tutto ingiustificati in quanto l’obbiettivo esplicito dell’area piattaformista è – agendo in maniera concertata fuori e dentro la Federazione – di riportare il movimento alle sue radici operaie emarginandone le componenti giudicate aclassiste. Si tratta di un progetto politico radicale che implica un confronto (anzi uno scontro) estremamente duro, ma legittimo. 

Quello che lo guasterà e contribuirà a determinarne l’insuccesso saranno l’immaturità politica e comportamentale di alcuni gruppi di quest’area, l’uso spregiudicato di dinamiche organizzative e assembleari e, come nel caso dei GAAP, un certo settarismo intollerante che porta alla sottovalutazione degli “avversari”. 

Così dopo l’indiscutibile successo del Convegno nazionale lavoratori anarchici promosso dall’area piattaformista (Bologna, 11-15 agosto 1973) che sembra il preludio di un processo inarrestabile di recupero delle radici classiste del movimento, una serie di durissime contrapposizioni a livello locale (Milano, ma anche Genova), ai limiti dello scontro materiale, sviano e snaturano i contenuti politici del dibattito. 

È proprio da una di queste situazioni molto tese e da uno spiacevole episodio che vi si verifica (il danneggiamento dei locali del circolo di via Scaldasole ad opera di piattaformisti milanesi – settembre 1973) che trae alimento, da un lato, una maggior coesione dell’area anti-piattaformista e, dall’altro, una campagna strumentale che porterà, dapprima all’estromissione dell’area piattaformista da importanti scadenze di movimento (come il Convegno pro-Marini di Carrara – 7 ottobre 1973) e, in seguito all’uscita dei gruppi FAI del “nucleo operativo” dalla Federazione stessa (12). 

Anche qui un piccolo bilancio si impone. Questa seconda esperienza piattaformista – più partecipata numericamente della prima – rimane però largamente confinata allo stato di progetto, non produce cioè esiti organizzativi duraturi (13). 

La relativa immaturità dei suoi protagonisti produce spesso atteggiamenti arroganti e settari (contrappuntati, bisogna dire, da altrettanta arroganza e settarismo di vasti settori del movimento anarchico organizzato) che offuscano i termini reali del conflitto politico in atto. Il merito indiscutibile dell’esperienza è comunque, al di là di tutto, quello di riproporre con forza e chiarezza la questione della natura classista dell’anarchismo e di rinsaldare la sua presenza nel movimento operaio. A questo stimolo non resteranno indifferenti diversi vecchi militanti della FAI, come Umberto Marzocchi, e i frutti si vedranno qualche anno dopo.



Vecchie discussioni

Proprio la figura di Marzocchi ci consente un balzo in avanti di alcuni anni, per arrivare alla fine del decennio ’70. 

La FAI, di cui Umberto Marzocchi è uno degli esponenti più prestigiosi, ha riguadagnato le sue posizioni di preminenza nel movimento (i GIA sono sull’orlo dell’estinzione per la scomparsa dei loro vecchi militanti, i GAF si stanno trasformando esplicitamente in progetto culturale che non richiede forme specifiche organizzative), gruppi e federazioni locali, molto consistenti, sono impegnati nell’intervento politico e in un’accesa discussione interna che spazia dalla forma organizzativa specifica, alla presenza nel movimento operaio, all’intervento nel sociale, alla violenza rivoluzionaria. 

Sulle prime due di queste questioni si innesta un doppio percorso che, da un lato, prelude ad una nuova spaccatura della Federazione e, dall’altro, porta a riconsiderare le scelte sindacali fatte nell’immediato dopoguerra e mai rimesse, nella sostanza, in discussione (14). 

Due percorsi che si intrecciano perché i protagonisti sono gli stessi e perché dinamiche e tematiche organizzative specifiche – purtroppo e come spesso accade – oscurano i contenuti di un importante dibattito, che neanche può essere ridotto ad una mera scelta sindacale. 

Così, mentre tra il 1977 e il 1983 si sviluppa un articolato percorso che porterà alla rifondazione dell’Unione Sindacale Italiana, attraverso due importanti e partecipati attivi preparatori (15), raccogliendo in qualche modo il lascito politico della necessità del recupero dell’anarchismo di classe del già citato Convegno nazionale dei lavoratori anarchici di cinque anni prima, sul piano dell’organizzazione specifica (la FAI) il dibattito sul recupero della natura operaia dell’anarchismo è fuorviato (anche per responsabilità dei promotori, una “nuova generazione” piattaformista) sul terreno delle scelte e delle modalità organizzative. 

Così tutto l’armamentario di vecchie discussioni è rimesso in campo: organizzazione di sintesi vs. organizzazione di tendenza, organizzazione strutturata vs. organizzazione federata, responsabilità collettiva vs. responsabilità individuale. Si continua a confondere il contenitore con il contenuto e la discussione, come al solito, ne viene falsata trasformandosi in quello che appare uno scontro di potere all’interno della Federazione. Scontro che si conclude al Congresso straordinario della FAI di Carrara (gennaio 1979) che sancisce l’estromissione di alcuni gruppi piattaformisti. 

Termino qui questa sommaria e lacunosa ricostruzione di circa trent’anni di dibattito e scontro politico all’interno della FAI e del movimento anarchico, che altro non mi serviva se non a tratteggiarne la complessità e l’importanza. In questo senso il piattaformismo (o arscinovismo) altro non è stato che una forma specifica, contestualizzabile e, per certi versi, criticabile della rivendicazione della natura operaia e proletaria del movimento anarchico e della necessità di riportare la sua prassi e la sua strategia su questa coordinata politica.
Gli scontri e le lacerazioni che questa rivendicazione hanno portato all’interno della Federazione (e del movimento) sono stati aspri e dolorosi, tuttavia “necessari” in quanto hanno portato a confronto tra loro (e con la realtà sociale e politica) visioni dell’anarchismo contrastanti, se non inconciliabili.
Quello che stupisce – per ritornare ai libri in oggetto – è che un testo documentato, per certi versi interessante (e che deve essere costato parecchio impegno agli autori) come quello di Cardella e Fenech non colga né la complessità di questa dinamica, né la sua importanza e si abbandoni a giudizi superficiali e banalizzanti (16), vagamente fastidiosi per chi, come chi scrive, è stato testimone e parte attiva di quell’esperienza. Introdurre surrettiziamente elementi di polemica (e non di dibattito) per di più datata e acontestualizzata, in una ricerca storiografica non è un buon servizio alla storia del nostro movimento. Peccato, un’occasione mancata.


Concludo con un ultimo apprezzamento per il libro di Giorgio Sacchetti. Umberto Marzocchi è stato, nei suoi oltre sessant’anni di militanza, figura di estremo rilievo dell’anarchismo italiano e non solo. Nel secondo dopoguerra ha avuto un ruolo centrale nella FAI, vivendone, per quarant’anni, crescita, successi, crisi, riprese e contraddizioni, con lo sguardo sempre attento al nuovo e con la preoccupazione di salvare il meglio delle tradizioni del movimento. 

Il libro di Sacchetti rende tutto ciò in maniera esaustiva, documentata e convincente. Credo che non si potesse fare di più. Chi intendesse dedicarsi ad una ricostruzione seria e rigorosa delle vicende del nostro movimento, a partire dal secondo dopoguerra, non potrà prescindere né dalla figura di Umberto Marzocchi, né da questo libro.

Note
  1. Georges Fontenis, Changer le monde, Toulouse 2000. Riportato in Amico-Colombo, Un comunista senza rivoluzione.
  2. Dal nome della Piattaforma di Arscinov, il programma-manifesto elaborato nel 1926 dal gruppo di anarchici russi in esilio Delo Truda e che, ricalcando l’esperienza machnovista, propugnava l’esigenza di un’organizzazione anarchica fortemente strutturata e classista.
  3. Tra i fautori della ricostituzione dell’USI e coloro che privilegiavano l’unità d’azione con i lavoratori degli altri partiti della sinistra nella CGIL.
  4. Poco è stato scritto, recentemente, specificamente sull’esperienza gappista. Posso segnalare solo la mia ricerca: Barroero Guido, Per la storia del movimento anarchico nel dopoguerra. Un’esperienza dell’anarchismo di classe: I Gruppi Anarchici di Azione Proletaria – in «Comunismo Libertario», nn.32, 33, 34, 35 del 1998 e nn.39, 41, 43 del 1999, raccolti in opuscolo, nel 2004, dalla redazione della rivista, senza la necessaria opera di revisione.
  5. Come la riproposizione da parte dei futuri gaappisti della mozione, già presentata al Convegno di costituzione della Unione Anarchica Laziale, a Frascati nel febbraio del 1950, al Congresso della Federazione Anarchica Ligure, svoltosi a Pontedecimo il 19/3/1950, senza citare il precedente.
  6. “Per un movimento orientato e federato”, così era definito il progetto.
  7. L’accettazione di queste nel movimento anarchico, a ben vedere, non ha mai provocato grosso scandalo, a partire da Bakunin e Cafiero.
  8. Cito – come fanno Amico e Colombo – e senza pretesa di completezza: «Umanità Nova», «Volontà», «Inquietudine», «il Libertario».
  9. Stupisce che nel Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, all’interno della scheda su Pier Carlo Masini, le “Tesi”, pur riconosciute prodotto di discussione collettiva, vengano poi considerate uno scritto attribuibile allo stesso. È evidente che chiunque sia stato l’estensore materiale di quel documento non può averne attribuita la paternità politica. Altrimenti, seguendo questo curioso criterio, dovremmo considerare scritti di singoli (o di poche persone) tutte le relazioni, le mozioni, le tesi e altri documenti a firma collettiva, adottati o approvati in vari Convegni e Congressi.
  10. Cfr. tra l’altro le tesi sul “feudalesimo industriale”, ispirate da una rilettura di Bruno Rizzi.
  11. Autore di un attentato davanti alla questura di Milano nel maggio del 1973.
  12. A questi gruppi fu negata la partecipazione al Congresso FAI di Carrara – 22-25 dicembre 1973.
  13. Immagino che questa affermazione non sarà condivisa dall’attuale area comunista-libertaria che si rifà a quell’esperienza, ma è innegabile che le aspettative che allora si davano trascendono di gran lunga gli esiti di oggi.
  14. Parliamo, evidentemente, della scelta pro-CGIL che non viene intaccata dalla ricostituzione dell’USI, su posizioni minoritarie, negli anni ’50 e che si estinguerà all’inizio degli anni ’70.
  15. Mi riferisco al I attivo nazionale di base dei lavoratori per l’USI (Roma, 22-23 aprile 1978) e al secondo (Genova, 25-26 novembre 1978). Esulando, tuttavia, la storia recente dell’Unione Sindacale dagli scopi del presente scritto, rimando all’articolo di Giorgio Sacchetti: L’Unione Sindacale Italiana (USI) nel movimento operaio italiano, in «Autogestione» n.10, dicembre 1984, essendo il testo di Gianfranco Careri (Il sindacalismo autogestionario, Ed. USI, Roma 1991) che affronta lo stesso periodo, un po’ troppo apologetico e venato da eccessi romanzeschi.
  16. Particolarmente deplorevole è la ripresa acritica di giudizi e di prese di posizione che forse allora (ma non certo oggi) potevano essere comprensibili solo all’interno di una polemica accesissima. Cito solamente: “il sedicente [sic] Convegno nazionale lavoratori anarchici” e “[elementi e gruppi piattaformisti –nda]... procedevano all’assalto [sic] e alla devastazione della sede del Circolo Pinelli”.

Giorgio Sacchetti, Senza frontiere. Pensiero e azione dell’anarchico Umberto Marzocchi (1900-1986), Edizioni ZIC, Milano 2005, pag. 543, euro 35,00.
Giorgio Amico – Yurii Colombo, Un comunista senza rivoluzione. Arrigo Cervetto dall’anarchismo a Lotta Comunista: appunti per una biografia politica, Massari Editore, Bolsena 2005, pag. 167, euro 10,00.
Antonio Cardella – Ludovico Fenech, Anni senza tregua. Per una storia della Federazione Anarchica Italiana dal 1970 al 1980, Edizioni ZIC, Milano 2005, pag. 350, euro 25,00.

rivista anarchica
anno 35 n. 311 - ottobre 2005