TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 5 febbraio 2020

Franco Astengo, PCI e comunismo in Italia




Franco Astengo

PCI e comunismo in Italia
A proposito di "Azione comunista, Da Seniga a Cervetto" di Giorgio Amico

Giorgio Amico, attento osservatore di tutti i risvolti che hanno accompagnato le diverse realtà della sinistra italiana, ha appena pubblicato un testo:“Azione Comunista : da Seniga a Cervetto 1954 – 1966”. Una ricerca che tiene assieme due risvolti: quello riferito a un episodio clamoroso di lotta interna al PCI con l’abbandono del partito da parte di Giulio Seniga (già braccio destro di Secchia) e quello seguente relativo alla formazione del gruppo di “Lotta Comunista”, ancor oggi attivo in diverse parti d’Italia e in particolare in Liguria, tra Genova e Savona.

Il lavoro di Amico si addentra nei veri e propri meandri di composizione ricomposizione dei diversi gruppi all’epoca operanti alla sinistra del PCI, sia di origine trotzskista, sia di origine bordighista, e ancora dei loro contatti con altri gruppi di origine libertaria e di strani intrecci mantenuti da alcuni dei personaggi che si muovevano all’interno o ai margini di questa area politica con settori anticomunisti tra i quali quelli di origine socialdemocratica e altri di chiara natura provocatoria (il famigerato “Pace e Libertà” di Edgardo Sogno e Luigi Cavallo) fino a prolungati contatti con i servizi segreti mantenuti addirittura nella persona di Umberto D’Amato. Una storia complessa, per certi versi affascinante e inquietante come riflesso dei tempi in cui la lotta politica, condotta per alti ideali, finiva con lo sconfinare in livelli di scontro particolarmente aspri con particolari aspetti che possono essere giudicati come oscuri.

Non è facile riassumere un lavoro di così forte spessore in alcune proposizioni politiche. Mi permetto così di utilizzare una sintesi, una vera e propria “reductio”, raccolta attorno a due elementi. Il primo elemento me lo ha suggerito una mirabile sintesi formulata nel libro dallo stesso Amico interrogandosi sulle ragioni di questa lotta politica condotta sul filo di sottilissime diaspore nell’illusione di ravvedere in piccoli, se non inesistenti, movimenti l’avvio di una nuova tensione rivoluzionaria.

Spiega Giorgio Amico: “Il fenomeno è vecchio almeno quanto l’esistenza di gruppi rivoluzionari. E’ proprio il minoritarismo, vissuto come condizione politica permanente, a portare alla chiusura settaria e autoreferenziale (come nel caso di Bordiga e Maffi) o al sovraccaricare di valenze messianiche ogni evento che solo sembra spezzare la routine terribile e frustrante dell’isolamento e dell’impotenza pratica”.

Il secondo punto da sviluppare riguarda la lotta condotta contro il PCI in nome di diverse forme di ortodossia comunista. La lettura del testo di Giorgio Amico mi conferma in un punto di analisi che mi pare debba essere ancora sostenuta oggi a tanti anni di distanza dallo scioglimento del Partito Comunista Italiano. Il PCI ha rappresentato la forma politica del comunismo italiano, almeno fino alla formulazione della strategia del compromesso storico poi ridotta alla tattica della “solidarietà nazionale”. Strategia del “compromesso storico” attraverso la quale si segnava un punto di decisivo distacco anche da quella dei “fronti popolari”.

Una forma politica specifica era già identificabile in quella del PCd’I la cui particolarità era principiata fin dallo stesso congresso di Livorno attraverso il confronto fra le componenti originarie e poi aveva trovato una sua prima sistematizzazione nel III congresso di Lione del 1926, ben in precedenza alla “svolta di Salerno”.

La ragione per la quale si può considerare il PCI,almeno nella fase delle segreterie di Togliatti e Longo, quale forma politica compiuta, complessivamente esaustiva nel bene e nel male del comunismo italiano risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci, infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni. Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.

Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo. La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico.

Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza. Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale. La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato. Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista.

L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.

Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difese, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.

Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale. In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali. Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1975) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito attraverso l’estensione dello storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso. La concezione del marxismo in Gramsci è stata quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale (esattamente il contrario di quanto elaborato nei gruppi di cui scrive Giorgio Amico).

Il più valido spunto critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 da Raniero Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività. Panzieri era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”.

La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord” di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono agli spunti di analisi di Panzieri e dei “Quaderni Rossi” di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano.

Non risultò neppure all’altezza di quel confronto il punto  di dibattito apertosi al momento della scomparsa di Togliatti, ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista” (termine del resto rivendicato anche dalla stessa “Azione Comunista”, a mio giudizio in maniera erronea). L’iniziativa della “sinistra comunista” raccolta attorno a Pietro Ingrao all’XI congresso era stata avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri ( una riflessione ancora parzialmente diversa da quella avanzata con la successiva vicenda del “Manifesto”, il cui gruppo fu inizialmente influenzato dalle vicende del ‘68 e della stessa rivoluzione culturale cinese). Quella riflessione, sviluppata appunto a cavallo dell’XI congresso il primo svoltosi in assenza di Togliatti, rimproverava, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”) e di aver annacquato il marxismo nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi rivendicando un primato del politico sull’economico che aveva smarrito il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria (attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico.



Restarono così punti irrisolti di dibattito, cui i gruppi la cui attività è stata analizzata da Giorgio Amico nel suo testo non riuscirono a partecipare produttivamente rimanendo marginalizzati (come del resto verificatosi successivamente con il gruppo di “Lotta Comunista”) e rimasti fuori dal filone centrale della presenza comunista in Italia. Rimane, a questo proposito la testimonianza di elementi di dibattito nell’area comunista attraverso la cui rievocazione si possono comprendere meglio spunti di evoluzione e di modificazione progressiva nella proposizione del pensiero politico legato all’idea della rivoluzione e della lotta di classe rimasti comunque confinati in quella logica minoritaria cui si è già fatto cenno citando la formulazione adottata dall’autore.

Torniamo allora a quei punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo da chi era stato capace di individuarli e argomentarli. Nella nuova sinistra post – sessantottesca dentro le cui diverse soggettività pure si trovavano fermenti molto significativi emersero limiti forti di vero e proprio politicismo.

Il PCI dal canto suo, con l’elaborazione berlingueriana del “compromesso storico” negli anni’70, sviluppò una sorta di visione distorta del “primato della politica” . Una visione distorta che portò, sulla base del prevalere del concetto di governabilità, al collasso della teoria: ciò avvenne ben in precedenza alla stagione degli anni’80 nel corso della quale si pose la questione della liquidazione del partito avvenuta poi semplicisticamente all’insegna dello “sblocco del sistema politico” nell’esasperazione dell’utilizzo dell’autonomia del politico proprio in funzione della governabilità.

Per questi motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico (mantenendo comunque sul piano politico e anche economico il “legame di ferro”), primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI togliattiano è stato il soggetto politico che si può considerare quasi complessivamente rappresentativo del comunismo italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha ruotato attorno.

Lo scioglimento del  partito, avvenuto in condizioni di evitabile frettolosità e al di fuori da una qualsiasi ricerca di impostazione teorica alternativa ma semplicisticamente sull’onda dell’attualità, di una presunta “fine della storia” e della necessità già citata ( di natura davvero provinciale e politicamente angusta) di “sblocco del sistema politico”) ha dato origine ad un cesura epocale  che al momento apparve irrecuperabile: il patrimonio della stessa “sinistra comunista” che si era opposta all’operazione liquidatoria risultò disperso, al momento dell’esperienza del seminario di Arco del 1990 e del mancato raccoglimento del messaggio lanciato da Lucio Magri con la sua relazione “Il nome delle cose”. La diaspora tra Cossutta ed Ingrao ed il ritiro di Natta privò quell’area politica di riferimenti unitari per proseguire nella sua storia.

Nacque un soggetto come Rifondazione Comunista all’interno del quale il portato ideal – storicista del PCI e della stessa sinistra comunista non trovò particolare accoglienza sovrastato, in particolare nella fase dell’assunzione della segreteria di Fausto Bertinotti, dai concetti effimeri della personalizzazione e di un impasto tra movimentismo e governativismo, che hanno decreto in poco tempo la pressoché definitiva conclusione di quell’esperienza ed, in ogni caso, il suo essere superfluo al riguardo della realtà del sistema politico italiano e, soprattutto, rispetto all’apertura di una ricerca sull’attualità di un nuovo comunismo, dopo l’esperienza fallita dell’inveramento statutale dei fraintendimenti marxiani del ‘900.

I tempi sono sicuramente maturi per avviare una proposizione di un discorso di sinistra che affronti, finalmente, il tema delle nuove contraddizioni cercando anche di mantenere aperto il confronto con quelli che sono stati i punti più alti della sua storia sul piano teorico e politico.