TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 30 luglio 2020

Franco Astengo, Alternative




Che esista oggi un vuoto politico a sinistra è cosa sotto gli occhi di tutti. Altrettanto evidente è che da questa situazione non si esce con soluzioni estemporanee, uomini della provvidenza o semplici cartelli elettorali. Occorre un ripensamento profondo della storia passata che analizzi sia la trasformazione profonda degli assetti repubblicani che la crisi della sinistra nelle sue diverse accezioni (comunista, socialista, post-sessantottina). Negli anni Ottanta i due processi andarono avanti infatti di pari passo, in parallelo con il mutamento della situazione internazionale e il trionfo del neoliberalismo. Pubblichiamo oggi una riflessione di Franco Astengo sul tema, centrale dalla Liberazione a tutti gli anni '80, dell'alternativa. Una alternativa di “sistema” che sulla spinta delle lotte operaie modificasse in profondità il sistema o semplicemente una alternativa“democratica”, giocata principalmente a livello parlamentare e che dunque, come poi avvenuto, lasciasse in piedi i meccanismi di potere esistenti salvo correzioni marginali a livello sovrastrutturale. Superfluo dire che fu la seconda ipotesi ad affermarsi, lasciando intatto il sistema di potere DC. Fu proprio l'incapacità di pensare una radicale alternativa, che sapesse andare oltre gli slogan della sinistra rivoluzionaria e i tentennamenti di quella istituzionale, che permise, al momento dell'implosione della prima repubblica fondata sulla centralità della DC, la nascita e l'affermazione del berlusconismo come nuova forma di equilibrio dei poteri “forti” che ancora oggi con vari passaggi (Renzi, M5S, Salvini) nella sostanza regge il paese.

G.A.

Franco Astengo

Alternative

“Democrazia bloccata”, “conventio ad excludendum”, “consociativismo”: su questi tre punti si è sviluppato il processo che, in ragione di fattori derivanti sia dal vincolo esterno (caduta del muro di Berlino, trattato di Maastricht) sia dal vincolo interno (Tangentopoli) ha portato all’implosione di quella che, nella definizione di “Pietro Scoppola”, è stata la realtà della “Repubblica dei Partiti”.
Nella sostanza la fase repubblicana sviluppatasi tra il 1945 e il 1980 che si è frantumata di fronte all’assenza di una alternativa che non fosse quella “politicista” del cambiamento della legge elettorale.
Una fase contrassegnata dal permanere della posizione “pivotale” da parte della Democrazia Cristiana, dal progressivo adeguamento alle logiche di governo da parte del Partito Socialista fino all’assunzione della “logica” della governabilità nella fase della segreteria Craxi, dalla tensione consociativista del PCI quale riflesso della ricerca “togliattiana” sull’identità nazionale.
Un periodo nel corso del quale si segnò la ricostruzione del paese realizzata attraverso il piano Marshall e i grandi sacrifici imposti ai lavoratori: ricostruzione come base verso l’affermarsi del consumismo, avvenuto nell’esaurimento delle logiche “comunitarie” del welfare keynesiano nei trent’anni gloriosi fino all’affermarsi dell’individualismo dello sfrangiamento sociale.
Collegare questo quadro per analizzare l’eredità politica di Lelio Basso, come richiesto dall’intelligente intervento di Giorgio Amico, non può che stimolare la riflessione su di un punto: acclarata l’assenza di un’alternativa si potrebbe discutere oggi di un appuntamento mancato attorno ad almeno 3 visioni d’analisi emerse nel movimento socialista e comunista e mai raccolte all’interno di un progetto politico che pure, a giudizio di chi scrive, poteva anche risultare possibile?

Le tre visioni riguardano:

1) La critica iniziale portata avanti da Basso fin dalla natura del CLN e quindi rispetto all’origine stessa della Resistenza, della Costituzione, della Repubblica. L’interrogativo posto da Basso all’origine del CLN riguardava, rispetto al ruolo dello PSIUP, l’opportunità di stringere quel tanto di alleanza che nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia non soltanto organizzativa di partito, ma di autonomia politica di classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanze delle riforme di struttura.
Nel giudizio di Basso l’avere accettato l’impostazione paritetica ed indiscriminata dei C.L.N. aveva aperto facilmente le porte ai sabotatori della Resistenza: nella sua valutazione, infatti, sarebbe stato sufficiente che una parte di coloro stessi che avevano sostenuto il fascismo, che ne avevano approfittato durante un ventennio e che avrebbero volentieri continuato ad approfittarne, venissero a cercare un alibi in seno a qualche partito riconosciuto come antifascista. Basso lamentava anche la mancanza di un programma di rivendicazioni sociali che caratterizzasse i partiti proletari e sulle quali si sarebbe forse potuto, nel clima della Resistenza, ottenere il consenso anche dei partiti borghesi. L’impostazione della politica postfascista non si realizzò così come una rottura del ventennio ma fu invece tutta dominata dalla preoccupazione di assicurare la continuità politica e giuridica col vecchio stato sabaudo-fascista, e di soffocare ogni tentativo di rinnovamento sotto uno scrupolo di legalità formale, senza riflettere sul fatto che si trattasse di legalità fascista, perché fasciste erano le leggi in vigore. La mancanza di una qualsiasi riforma sociale nei programmi dei primi governi Parri e De Gasperi e il loro rinvio alla Costituente prima e alle Camere Legislative poi, avrebbe finito con lo svuotare la lotta politica italiana di ogni serio contenuto, capace di orientare ed educare democraticamente le masse popolari, lasciandole così preda della demagogia dei programmi e della retorica dei disborsi, anziché del chiaro linguaggio dei fatti. Comunque la lotta politica in Italia, dall’aprile 1945 fino alla rottura del Tripartito, fu dominata da questo equivoco. In omaggio all’idea dell’unità, il C.L.N. non aveva elaborato un programma su cui fosse possibile dividersi, e in omaggio alla stessa unità le sinistre rinunciarono ad elaborarlo per proprio conto e a lottare per esso. La critica di Basso arrivava così al cuore della politica dei partiti di sinistra:lontani al mettere in chiaro le differenze, erano apparsi anch’essi dominati dal desiderio di confondere le tinte, di attenuare le distinzioni, di mettere in ombra le caratteristiche particolari, per apparire anch’essi come dei bravi democratici antifascisti che si distinguevano dagli altri democratici antifascisti quasi soltanto per il maggior impegno che ponevano nel realizzare le comuni rivendicazioni.

2) La critica avanzata da Panzieri. Attraverso l’elaborazione sviluppata su Quaderni Rossi, Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto largamente ignorati come la IV sezione del I libro del Capitale, il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il Capitolo VI del Capitale (inedito), facendo emergere nel dibattito i concetti di sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro al capitale per indagare i processi di trasformazione economico – sociale e per analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro.
Su queste basi Panzieri elaborò i concetti di “operaio massa” e di “composizione di classe”.
Panzieri considerava l’operaio massa, tecnicamente dequalificato rispetto all’operaio di mestiere, come portatore di una potenzialità conflittuale molto forte.
La composizione di classe indicava il nesso tra i connotati oggettivi della forza lavoro in un certo momento storico e i suoi connotati politici soggettivi.
Secondo Panzieri non esisteva alcune tendenza immanente al superamento della divisione del lavoro, così come non esisteva alcun limite allo sviluppo del capitale.
L’unica costante nel modo di produzione capitalistico era rappresentato dalla crescita (tendenziale) del potere del capitale sulla forza lavoro e l’unico limite al capitale è la resistenza della classe operaia.
Panzieri ipotizzava che, in ragione della crisi della teoria economica, il capitalismo avesse perduto il suo pensiero classico nell’economia politica e avesse ritrovato la sua scienza non volgare nella sociologia, la quale segnalava il passaggio del problema del funzionamento del meccanismo economico a quello dell’organizzazione del consenso.
Tale trasformazione corrispondeva a un mutamento del rapporto tra ricchezza e potere.
Il rapporto tra ricchezza e potere si trasformava in una concezione del potere inteso ad asservire la ricchezza, in una funzione del denaro utilizzato come mezzo per conseguire il dominio politico.
Una analisi che, anche in questo caso, può essere ben considerata come profetica e di fortissima attualità.
Panzieri indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi produrre).
L’avanzamento di questa domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte intente – in quella fase – a muoversi sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo italiano”).
Le lotte di fabbrica di quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale tutta incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro.
Una tesi, quella del marxismo italiano “ufficiale” compresa tra la programmazione giolittiana e il sostegno al “capitalismo straccione” di Amendola,  che Panzieri contrastò vivacemente come altri fecero in diverse sedi (a partire dal convegno dell’Istituto Gramsci sulle “tendenze del capitalismo italiano” svoltosi nel 1962 di cui si parlerà in seguito).
L’ analisi di Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica.
L’eredità teorica di Panzieri rimase così sullo sfondo nell’elaborazione della sinistra italiana.

3) La posizione emersa nella sinistra comunista in particolare nell’occasione del già citato convegno organizzato nel 1962 dall’Istituto Gramsci sulle “Tendenze del Capitalismo italiano”.
In quel convegno la futura “sinistra comunista” che avrebbe fatto capo a Ingrao (assente nell’occasione) e rappresentata dagli interventi di Trentin e Magri fu capace di sottolineare le novità qualitative che stavano emergendo nel capitalismo italiano. Dal subbuglio del neocapitalismo arrivavano al dunque problemi e bisogni che andavano oltre la semplice redistribuzione del reddito e/o la modernizzazione del sistema (come pensava Amendola). Si trattava di far prendere forma all’insieme dei rapporti politici e sociali in mutamento nel corso di quegli anni aprendo due filoni principali di riflessione:
a) quello con la classe operaia nell’ambito di una relazione che non fosse soltanto quella sindacale, ma quello di una lotta operaia urbana ad alta densità politica. L’industrializzazione doveva accompagnarsi con la modernizzazione. Su questo punto il collegamento con Panzieri che chiosando i Grundrisse ne aveva ripreso un concetto fondamentale: “ Verrà il momento che lo sfruttamento materiale sarà ben misera cosa per misurare la ricchezza, perché emergeranno nuovi bisogni e criteri per misurare il progresso e la ricchezza”
b)quello di una battaglia, della quale si erano già visti elementi concreti nei fatti del Luglio ‘60 nel corso dei quali i giovani erano stati l’anima dell’antifascismo, che indicasse come la lotta contro il fascismo non fosse finita con l’obiettivo di sradicare quanto ancora ci fosse di fascismo nelle istituzioni e nella società.
In entrambi i punti emergono con chiarezza gli elementi di collegamento nel pensiero tra questi soggetti e protagonisti politici.

Quanto fosse possibile costruire un’alternativa alla dimensione dominante dei partiti di massa rimane un interrogativo la cui risoluzione è ormai circoscritta al segno della storia.
Forse lo PSIUP avrebbe potuto rappresentare un punto di coagulo intellettualmente all’altezza se all’interno di quel partito fosse stato possibile misurarsi con i temi della classe e del rapporto tra essa e la modernizzazione industriale in Occidente e le tendenze che essa avrebbe suscitato nel movimento operaio.
Lo PSIUP, di cui Basso era stato tra i promotori mentre Panzieri morì nel dicembre 1964 quando il partito era sorto da pochi mesi, si rivelò insufficiente per eccesso di politicismo e di legame con lo schema bipolare (tema che non si è affrontato in questa sede e che rimane comunque fattore decisivamente insuperabile in quell’epoca se pensiamo a ciò che si verificò, pochi anni dopo, con l’invasione della Cecoslovacchia).
Si sarebbe dovuta rinvenire la capacità di uscire dall’egemonia dello schema togliattiano di lettura di Gramsci del “Risorgimento incompiuto” e dell’identità nazionale della classe operaia.
I due punti che Togliatti mutuò da Gramsci attraverso la pubblicazione “ragionata” dei Quaderni e che rimangono comunque le stimmate di identità peculiare del comunismo italiano anche rispetto al materialismo dialettico sovietico.
Un’identità consolidata ed egemone che poteva essere affrontata attraverso la rilettura, assieme ai nuovi classici della sociologia americana dell’epoca e dei teorici della Scuola di Francoforte anche di un altro Gramsci: quello di “Americanismo e fordismo”.
Dei “se” e dei “ma” però sono piene le fosse e in questo caso ne ho compiuto un utilizzo colpevolmente abusivo.
Vale la pena, comunque, di continuare a scavare in quel periodo senza soffermarsi troppo sul gusto amaro delle occasioni perdute.