TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 13 novembre 2021

Danilo Montaldi, adolescente ribelle

 


Continuiamo la pubblicazione di parte delle bozze di una ricerca, in via di completamento, sulla vita e l'opera di Danilo Montaldi.


Giorgio Amico

Danilo Montaldi, adolescente ribelle


Agli inizi del 1946, mentre stanno già spegnendosi le speranze rivoluzionarie innescate dall'insurrezione dell'aprile '45, Danilo Montaldi è in piena crisi esistenziale, tanto da abbandonare gli studi nonostante il suo professore di filosofia, Giuseppe Berti, cattolico impegnato e stimatissimo a Cremona, cerchi in tutti i modi di dissuaderlo da una scelta che considera priva di senso. Una scelta che per l'adolescente Montaldi ha invece il sapore di un vero e proprio cambio di vita, l'abbandono di un mondo in cui non si riconosce e che lo disgusta per la sua ipocrisia perbenista. Insomma un salpare verso l'ignoto, alla ricerca di una nuova e più autentica dimensione umana. Danilo è affascinato dalla figura del ribelle, di chi - piccoli malavitosi o militanti comunisti di base che non si sono arresi - vive con fierezza una condizione di marginalità scelta o imposta dalla vita. Una umanità parallela, una sorta di controsocietà di uomini liberi con i suoi miti e i suoi riti, che si riunisce nelle osterie dei quartieri popolari o lungo le sponde del Po. Un atteggiamento tipico dell'adolescenza, ma che Montaldi non abbandonerà mai, forse perché nel suo caso alla base c'è una forte identificazione con la figura del padre e non il suo assassinio simbolico. È infatti Nino Montaldi, che fa parte di questo ambiente, ad inserirlo nella cerchia degli amici, a iniziarlo ai riti della leggera. È accompagnando il padre in queste vecchie osterie fumose, assistendo a discussioni vivacissime o ascoltando vecchi racconti degli anni del fascismo, che il giovanissimo Danilo entra in contatto con una molteplicità di storie di vita che lo affascinano al punto di diventare poi, nell'età adulta, la base materiale del suo lavoro di ricerca.

Il suo gesto è il rifiuto di un ben preciso ambiente sociale, di una “istituzione conformista, reazionaria e restrittiva”. (Montaldi N., La Matana del Po. Genesi di un documentario, Kurumuny Edizioni, Lette 2018, p. 13). Non sappiamo di più, né il figlio né la moglie si dilungano nei loro ricordi sull'episodio. Si può comunque azzardare l'ipotesi che il gesto del giovane Danilo sia in larga parte determinato dal senso di emarginazione che un adolescente di origine proletaria e di animo libertario non poteva non provare nei confronti di un tipo di scuola come il liceo classico, tradizionalmente riservata, e non solo a Cremona, ai rampolli del notabilato locale. Chiunque abbia frequentato quel tipo di scuola in una qualunque parte di Italia prima della tempesta del '68 sa, se aveva occhi per vedere, di quanta grettezza classista desse, con rarissime eccezioni,quotidiana dimostrazione il personale docente e quanto escludente potesse essere il clima quotidiano della classe per chi non facesse parte dell'élite. Una scuola per i “Pierini”, per usare la definizione di don Milani, per i figli dei “dottori”, destinati a diventare a loro volta dottori. Il che in una realtà conservatrice e culturalmente povera come quella cremonese, dove il termine “operaio” era già per i “benpensanti” di per se equivalente a “poveraccio” se non a “comunista”, non poteva che riuscire insopportabile a un giovane dalle spiccate tendenze libertarie come Montaldi. Dunque, mille volte meglio, la scuola della strada e della vita, far tesoro dei racconti ascoltati nelle osterie da vecchi esponenti della leggera o da quei militanti politici di base rimasti comunisti dentro dopo aver stracciato la tessera del partito togliattiano avviato ormai sulla via della collaborazione di classe.

Abbandono della scuola non significa però abbandono degli studi. Danilo legge in modo quasi compulsivo tutto quello che può trovare passando gran parte del suo tempo presso la Biblioteca statale di Cremona che frequenta pressoché quotidianamente. Lo studio, da mezzo di ascesa sociale si trasforma in strumento di liberazione:

«Leggevo Baudelaire, Dostojevsky. Attraverso noi la parola avrebbe dovuto diventare gesto, gesto che libera. Leggevo Rimbaud: «Eucaris mi disse che era giunta la primavera». Eucaris come un fratello».

In quel periodo manifesta un interesse crescente per la letteratura, la musica, il cinema e la storia della sua città a cui sarà per tutta la vita tanto legato da non volersene mai staccare veramente anche nei momenti alti in cui gli si prospettano possibilità importanti a Milano e addirittura a Parigi. Illuminante la ricostruzione che ne fa il figlio:

“Le letture di Montaldi nei tardi anni Quaranta comprendevano autori francesi come Charles Baudelaire, André Gide, Louis-Ferdinand Céline, Andrè Malraux., Albert Camus, la filosofia e letteratura tedesca da J.W. Goethe, Friedrich Hölderlin a Ernst Toller, come pure Federico Garcia Lorca, Hermann Melville, Henry James, Edgard Lee-Mastwers, Sherwood Anderson e Upton Sinclair. Certamente Montaldi trovava in questi scrittori una dimensione sociale che mancava nella cultura italiana dell'immediato Dopoguerra e nella vita cremonese in particolare. La sua immersione nella letteratura straniera di questo tipo era anche espressione di rivolta contro lo spirito cultural-politico di quel periodo”. (N. Montaldi, cit., p.13)

Oltre che la Biblioteca Danilo è un assiduo frequentatore delle osterie, allora numerosissime a Cremona come in ogni altro centro d'Italia. Una vera e propria «Accademia» di vita, come gli ripete costantemente Orlando Panizzi, uno delle «leggere» di cui poi raccoglierà l'autobiografia nel suo libro più bello. Lì fa la conoscenza di una umanità fatta di marginali e proletari spesso delusi dal riformismo inconcludente della sinistra. Uomini che, pur nella sconfitta e nella deriva esistenziale, mantengono intatto il loro orgoglio sia esso di classe o di aver appartenuto alla vecchia malavita, quei «cavalieri della luna» razziatori di polli e ladri di cavalli, terrore della campagna cremonese. Un' abitudine che non abbandonerà mai, tanto da scriverne con accenti quasi poetici ancora nel 1970 all'amico Guerreschi:

«Qui, dopo qualche giorno triste e nero di pioggia è ripreso un dolce autunno. Di sera si va in qualche osteria di campagna, calda e isolata, in mezzo alla nebbia , dove non imperversi “Canzonissima”» (Lettera a Guerreschi del 12 ottobre 1970. In Montaldi-Guerreschi, cit., p. 312)]

Proprio dalle frequentazioni delle osterie il giovane Danilo acquista a partire dal 1947 una vivissima consapevolezza dell'arretramento che il Paese sta vivendo, della caduta di coscienza politica negli strati popolari conseguente agli esiti totalmente fallimentari della politica di unità nazionale togliattiana di cui la cacciata delle sinistre dal governo è solo l'inevitabile coronamento a livello istituzionale. Il contatto diretto con i proletari proprio nei luoghi, come l'osteria, dove, complice qualche bicchiere di vino, si sentono più liberi di esprimersi, offre a Montaldi un punto di osservazione privilegiato sulle contraddizioni profonde che il proletariato manifesta. In quella sorta di lento apprendistato alla politica che va dal 1946 al 1953, l'ambiente delle osterie gioca per Montaldi un ruolo importantissimo, finora largamente sottovalutato. È nelle osterie che egli incontra i suoi amici e si mescola agli ultimi esponenti di quella leggera di cui ascolta i racconti. È nel tono dei discorsi, in quelle voci accese dal vino, che gli si manifesta con la massima chiarezza il processo di restaurazione in atto non solo a livello della politica “alta”, ma soprattutto nel modo di pensare dei proletari. Insomma, è nei discorsi sentiti all'osteria che Montaldi coglie,per usare una celebre espressione marxiana, il ritorno trionfante di “tutta la vecchia merda” che la lotta partigiana prima e l'insurrezione poi sembravano avere definitivamente cancellato. Ancora una volta è la moglie a offrirci una preziosa testimonianza in merito:

« Un esempio significativo che qualcosa si stava chiudendo […] sono i discorsi degli uomini nelle osterie, discorsi che di nuovo diventano, per citarne un esempio, ostili nei confronti delle donne e della possibilità di una loro minima emancipazione, sia in forma di un lavoro retribuito autonomo fuori di casa, sia tramite la loro recentissima conquista del diritto al voto con le elezioni del 1946. Un'ostilità che culmina nella diffusa richiesta di togliere alle donne di nuovo quel diritto al voto.Era in corso una restaurazione di mentalità e di idee vecchie – anche a sinistra – che sembrava già superata. Danilo sente questi ragionamenti nelle osterie non solo come un passo indietro, ma come un altro fallimento, che si aggiunge a quello della politica “alta”. Ed è proprio lì, nelle osterie dei rioni bassi che doveva rendersi conto definitivamente che le grandi speranze e i sogni, la sensazione di libertà che si era sentita nell'aria, erano scomparsi, almeno per il momento. Improvvisamente lo spazio delle grandi possibilità tornava a restringersi per il giovane Danilo, anzi, a chiudersi, e la grande solidarietà degli ultimi anni risultava essere stata soltanto una Fata Morgana». (Gabriella Montaldi Seelhorst, La formazione. «Lasciare un segno nella vita», cit., pp. 25-6)

Davvero di un brutto periodo si tratta. sono gli anni delle “Madonne pellegrine”, del clericalismo trionfante, dei preti che dal pulpito delle chiese additano all'esecrazione dei fedeli come “pubblici concubini” chi rifiuta il matrimonio religioso e si limita al rito civile. Sono anche gli anni della amnistia togliattiana con i torturatori repubblichini di nuovo in giro, mentre si arrestano i partigiani e nelle fabbriche si licenziano gli operai più combattivi. Per Montaldi si tratta una sorta di traversata del deserto, un “inverno buio” dopo una primavera luminosa. È dentro di sé che occorre trovare la forza di resistere. Il rifiuto politico di quel presente oscuro assume per il giovane il senso della ricerca di una vita etica.

«Rigettati ormai in quelli che non ci sentivamo di considerare “i nostri limiti”, reagimmo come sapevamo. Fu insomma un ritorno agli anni “fascisti”. Ricordo l'inverno buio del millenovecento quarantasette. Diventava chiaro infine perché eravamo così, capimmo che la nostra presenza nel mondo aveva delle ragioni, Conoscere queste ragioni, e noi in esse, rimaneva più difficile. Di quel tempo mantengo il ricordo di un'intimità feroce e pura con me stesso. Ero animato da una permanente metamorfosi che proponeva continuamente la mia vita, senza mai alterarne i dati iniziali, sviluppandosi piuttosto, di situazione in situazione. E pertanto ero disposto continuare con gioia, ad aderire a quello che c'era di completamente umano e dunque di morale nella vita. E a quello soltanto. Sapere, sentire di vivere in un senso irrevocabile una vita mortale, mi rendeva felice.Farla vibrare sulle corde di desideri forti. Portarla ai limiti veri che l'esistenza mantiene. Un'altra nascita, era un'altra nascita».