TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 25 gennaio 2023

Giornata della Memoria. Quattro riflessioni

 

Scritta sul muro della sala delle docce di Mauthausen










27 febbraio 2023 – Giornata della Memoria

Giorgio Amico 

Quattro riflessioni su Memoria, storia e guerra


Prima riflessione: Memoria o ricordo?

Memoria e ricordo sono in genere considerati termini indicanti la stessa cosa. In realtà, ad una riflessione più attenta, i due vocaboli esprimono concetti profondamente diversi. Mentre il ricordo è fenomeno individuale, carico di emotività e filtrato dall'esperienza concreta del singolo individuo, la Memoria, e il maiuscolo è voluto, è realtà collettiva, fattore identitario e base del tessuto connettivo di una comunità.

Lo capirono per primi i Greci che della Memoria (Mnemosine) fecero una dea, figlia di Urano il Cielo) e di Gea (la Terra), che unendosi con Zeus generò le nove muse, cioè diede vita alla cultura e alle arti.

Secondo Diodoro Siculo è grazie a essa che gli uomini sono in grado di elaborare concetti e dunque di poter comunicare fra loro. Solo grazie alla Memoria, infatti, esiste un passato e dunque le premesse di un futuro e l'uomo non è costretto a vivere in un eterno presente, ripetendo sempre gli stessi errori. È la Memoria, dunque a rendere gli uomini pienamente uomini, capaci di scelte e in questo simili agli Dei.

È la Memoria a distinguere i viventi dai morti. Ce lo dice Omero nel decimo canto dell'Odissea. I defunti hanno perso ogni consapevolezza del passato, “sono ombre che vagano” nell'oscurità dell'Ade.

E su questo concetto che i Greci inventarono la Tragedia, non semplice spettacolo, ma rito collettivo, cerimonia sacra destinata a mantenere vivi i miti alla base della fondazione della polis e in questo modo a rinsaldare periodicamente i legami che tenevano uniti i cittadini e che li facevano sentire membri di una comunità coesa e vivente.

Oggi che la polis ha dimensioni globali e che il pensiero dominante è totalmente concentrato sul presente e sullo spettacolo del consumo, solo la Memoria può renderci uomini e non ombre vaganti nell'oscurità, esseri pensanti, capaci di scelte e dunque “simili agli Dei”.

La Memoria oggi è rappresentata dal ricordo delle vittime della Shoah nella speranza che questo eviti che nuovamente l'umanità precipiti in un tale abisso di orrori. Il confrontarsi con la Shoah e in particolare sull'atteggiamento tenuto verso di essa e non solo dai Tedeschi, con la sua incidenza nella storia del Novecento e su come essa cambiò in profondità il modo di guardare alla storia, ci pone però di fronte a due interrogativi: esistono spettatori innocenti delle atrocità della storia? Si può ancora parlare di un senso della storia?

Seconda riflessione: esistono spettatori innocenti delle atrocità della storia?

“Se non ora, quando?”, così Primo Levi titola nel 1982 un suo fortunato romanzo, vincitore fra l'altro del Premio Campiello, in cui ricostruisce la lotta partigiana degli ebrei polacchi e russi contro l'invasore nazista.

Un titolo suggestivo, una frase di grande impatto, che Levi non crea dal nulla, ma riprende da uno dei principali esponenti della mistica ebraica, quel rabbino Hillel, vissuto qualche decennio prima di Cristo, che, interrogato sul significato profondo della Torah (i primi cinque libri della Bibbia e in senso più generale la Legge ebraica), rispose:

“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Se non noi, chi? Se non ora, quando? Tutto il resto è commento”.

Dunque, ci ricorda Levi, è sempre di noi e di ora che si scrive e si parla. La storia non è uno spettacolo a cui comodamente assistere. Non ci sono semplici spettatori e non è possibile tirarsene fuori a volontà. Ogni avvenimento, passato o presente, ci interpella tutti. Anche chi si ritiene estraneo a ciò che accade e che conseguentemente sceglie di non agire, è direttamente responsabile. Non esiste neutralità possibile. Come nell'invettiva rivolta agli indifferenti nella Canzone del Maggio di Fabrizio De Andrè, la storia è una continua chiamata in causa che non prevede l'esistenza di innocenti.

Terza riflessione: esiste un senso della storia?

L'idea che la storia abbia un senso, una direzione precisa sostanzia l'intero percorso della cultura occidentale. E' una visione tutta interna all'idea della storia come progresso. È il grande mito giudaico-cristiano della Provvidenza divina che opera nella e tramite la storia degli uomini che con l'illuminismo si fa laico e diventa religione civile incentrata sull'idea di Progresso. Quelle “magnifiche sorti e progressive” su cui già nel 1836 Giacomo Leopardi esprimeva profeticamente il suo scetticismo.

Una visione ottimistica che il Novecento, il secolo di Auschwitz e Hiroshima, ha fatto a pezzi. Il Dio che è morto della canzone di Francesco Guccini. Più lucido di tutti, un filosofo ebreo tedesco, morto suicida in Francia nel 1940 per non cadere nelle mani della Gestapo, Walter Benjamin, nelle sue tesi sul concetto di storia, scritte negli ultimi mesi di vita, annota:

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

E' un'immagine terribile. Bellissima e folgorante. Impossibile da dimenticare. Ed in effetti, anche ad una veloce lettura il secolo scorso ci appare come un enorme accumulo di rovine che rimandano alle tante macerie di oggi. Un gioco di specchi che conferma l'intuizione di Benjamin e la sua ferma convinzione che ogni accumulo di civiltà nasconda un parallelo ed eguale accumulo di barbarie.

Lo aveva già intuito alcuni decenni prima Joseph Conrad con il suo romanzo Cuore di tenebra, denuncia delle pulsioni di morte di un Occidente che, giusto un anno dopo, nel 1900, avrebbe celebrato a Parigi con una grande Esposizione Universale e un'Olimpiade l'inizio del secolo del progresso e della luce.

Lo aveva dichiarato con coraggio nel 1916 Rosa Luxemburg, opponendosi con tutte le sue forze di donna e di socialista alla guerra che stava travolgendo l'Europa e che incubava i germi del totalitarismo

: “se il periodo, ora appena iniziato delle guerre mondiali, dovesse continuare il suo corso fino alle estreme conseguenze, sarà il regresso nelle barbarie, la fine della civiltà”

15 milioni di morti, un terzo civili - a cui va aggiunto il numero incalcolabile delle vittime dell'epidemia di spagnola, della guerra civile e della carestia in Russia, del genocidio degli armeni in Turchia – è il prezzo della prima guerra mondiale.

Nulla in confronto ai 55 milioni di morti, due terzi dei quali civili, della seconda guerra mondiale. Per non parlare poi delle cento e più guerre che da allora hanno continuato a insanguinare il mondo fino ad arrivare alla tragedia dell'Ucraina.

“Il XX secolo – citiamo Enzo Traverso, fra i più importanti storici contemporanei – tuttavia, non ha soltanto rivelato le illusioni dello storicismo e illustrato il naufragio dell'idea di Progresso; ha anche generato l'eclissi delle utopie inscritte nelle esperienze rivoluzionarie. Come l'Angelo della nona tesi di Benjamin, Auschwitz ci costringe a guardare la storia come un campo di rovine, mentre il gulag ci impedisce ogni illusione e ingenuità di fronte alle interruzioni messianiche del tempo storico”.

Quarta riflessione a modo di conclusione: la guerra come guerra civile

In un'epoca di grandi sconvolgimenti e di sanguinosi conflitti religiosi, un poeta inglese contemporaneo di Shakespeare seppe in un pugno di versi descrivere bene la tragedia interiore dell'uomo moderno in un mondo squassato da un vento tempestoso di cui non si conosce la direzione.

Scrive John Donne:

Nessun uomo è un'Isola,

intero in se stesso.
Ogni morte d'uomo mi diminuisce,
perché io partecipo dell'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.

Versi, ripresi nel 1940 da un altro grande scrittore, Ernest Hemingway, alla ricerca di un titolo che sintetizzasse bene il significato profondo del suo grande romanzo sulla guerra civile spagnola.

Nel 1947, in un'Italia ancora profondamente segnata dalla guerra civile e da odi tanto profondi da durare fino ad oggi, Cesare Pavese riflette su quei fatti nel libro La casa in collina e scrive:

“Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.

Proprio in questo rendere ragione consiste il senso non politico, ma morale della Memoria.

Ma la Memoria da sola basta o è solo un primo passo? E qui entra in campo la politica, intesa, sia ben chiaro, come la intendevano gli antichi Greci che ne furono gli inventori, scelta non egoista di cittadinanza, partecipazione consapevole e attiva alla vita collettiva avente come scopo il bene comune.

Nel Talmud è scritto, lo ricorda la chiusura del film Schindler's List, il capolavoro di Steven Spielberg, “chi salva una vita, salva il mondo intero”. Parole che ci ricordano che l'impegno personale, il coraggio di prendere posizione, qui e ora, rappresentano l'unica risposta possibile agli orrori di un mondo che non permette evasioni. “Basta che esista un solo giusto, perché il mondo meriti di essere stato creato” ci dice ancora il Talmud. E di più in effetti non è possibile dire.

25 gennaio 2023