TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 22 agosto 2018

La metafora del ponte, sinonimo di inferno dalla notte dei secoli


    Particolare del «Ponte del capello». Santa Maria in Piano, Loreto Aprutino


È l’hybris, la sfida arrogante ai limiti imposti dalla natura e l’ottusità che sempre l’accompagna ciò che ha sempre causato i disastri più grandi.

Raffaele K. Salinari

La metafora del ponte, sinonimo di inferno dalla notte dei secoli

Il termine pontos, da cui deriva la parola «ponte», designava, per la Grecia classica, al contrario di thalassa o pélagos, l’alto mare, l’ignoto del largo, lo spazio marino nel quale non si vedono le coste e che sembra confondersi, nelle notti senza luna né stelle, con il cielo scuro; il termine descrive anche il fondo marino, nel senso di un incommensurabile baratro.

Per questo pontos veniva usato come una delle denominazioni del mondo infero, del Tartaro, con il quale confinava attraverso comuni «radici», poiché in entrambi nessuna direzione è stabilita e possibile e un’incudine di bronzo può cadere senza arrivare mai da nessuna parte: «Voragine immensa, né in tutto il corso di un intero anno uno giungerebbe a terra, se prima si trovasse dentro alle porte, ma qua e là lo trascinerebbe tempesta sopra tempesta dolorosa». dice Esiodo nella sua Teogonia.

Nel Mazdeismo il «battesimo nelle piscine di Persepoli» serve per incontrare «qui ed ora» la propria Daena, lo spirito guida di ogni essere umano, sul Ponte Chinvat: «Alla domanda dell’anima stupefatta, che chiede ma chi sei? alla fanciulla che avanza all’ingresso del Ponte Chinvat e la cui bellezza risplende più di ogni altra bellezza mai intravista nel mondo terrestre, essa risponde: sono la tua propria Daena – ciò che vuol dire: io sono in persona la fede che hai professato e quella che te l’ha ispirata, quella per cui hai garantito e quella che ti ha guidato, quella che ti ha riconfortato e quella che ora ti giudica, poiché io sono in persona l’Immagine voluta infine da te stesso. Non è nel potere di un essere umano distruggere la propria idea celeste, ma è in suo potere tradirla, separarsene, non avere di fronte a sé, all’ingresso del Ponte Chinvat, che la caricatura abominevole e demoniaca del suo io abbandonato a se stesso».   

Chinvat, allora, è il nome che porta ogni ponte: ogni passaggio necessario e pericoloso: opus periculosum maxime dicevano i Romani, per i quali alla gestione del sacro Pons Sublicius, il più antico di Roma, era preposto il pontifex maximus, cioè la più alta carica sacerdotale. In queste ascendenze antiche riconosciamo, allora, al tempo stesso, sia la consapevolezza della sua necessità, sia della sua fragilità come ogni opera umana corrosa dal tempo.

    Ponte Chinvat

Ce lo ricorda anche Ernst Jünger quando, nelle Scogliere di marmo dice: «Non una casa vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento».

Anche Kipling, che pure era un Libero Muratore, anzi proprio per questo, nel suo racconto The Bridge-Builders mette in contrapposizione lo spirito della tradizione Indù, ancora legata al rispetto dei limiti imposti all’uomo dalla natura, alla presunzione tecnicista dell’ingegnere britannico che, nel caso, darà la colpa del crollo ad un problema legato ai materiali, non alla insipienza umana.

Sempre Kipling, Nell’Uomo che volle farsi Re, fa emblematicamente condannare a morte il supponente protagonista facendolo precipitare in un baratro dopo che gli indigeni hanno tagliato le corde del ponte sospeso. Il ponte è allora una metafora, non solo un’opera dell’ingegno umano; esso è sì sospeso tra ciò che ci trasporta al di là della nostra individualità, ma la sua caducità è anche la nostra; è questo il binomio imprescindibile e necessario del quale dobbiamo essere consapevoli per non incorrere nel peccato massimo che i Greci attribuiscono all’umanità: l’hybris, la sfida arrogante ai limiti imposti dalla natura e l’ottusità che la accompagna, ciò che ha sempre causato i disastri più grandi.

Ecco che il crollo del Ponte Morandi dovrebbe insegnarci molte cose, non solo sulla eventuale carenza di manutenzione, sull’aumento esponenziale del traffico o altre cause «tecniche» che verranno evidenziata dall’inchiesta, ma una riflessione ben più profonda sul modello di sviluppo che vogliamo perseguire, sul ritorno necessario ed impellente al dialogo con le forze di un pianeta per il quale siamo evidentemente un ospite sgradito, un hostis più che un hospis.

Forse, per concludere, bastano a questo punto le parole che Leopardi scrive nell’ottobre del 1821 nel suo Zibaldone: «L’uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai né indebolisce il disgusto e la fatica che l’uomo prova nel non far nulla».

E allora su questo tratto dell’antropologia umana che bisogna riflettere prima di continuare ad aggredire il Mondo: l’opera che stiamo per realizzare, il ponte, la strada, l’ennesimo stadio o centro commerciale, è sostenibile non solo dall’ambiente ma dalla nostra stessa coscienza? Possiamo rispondere a questo interrogativo non più da soli, come già ci dicevano gli antichi, ma tornando all’ascolto di quelle forze naturali che oggi, drammaticamente, come il Grande dio Pan, si svelano tremende quando, pur avendoci avvertito per anni, sono rimante inascoltate.

Il Manifesto – 22 agosto 2018