TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 3 dicembre 2020

Italo Calvino, studioso di fiabe 1

 


Giorgio Amico

Italo Calvino, studioso di fiabe 1


Tutto inizia con i fratelli Grimm all'inizio dell'Ottocento e, per quanto sembri strano trattandosi di fiabe, sotto il segno della politica. Se la rivoluzione francese aveva fatto diventare quello che ancora si chiamava il popolo minuto protagonista della storia, trasformando una plebe informe in citoyens, e con questo aveva infiammato la gioventù d'Europa, il dominio napoleonico aveva stimolato la rinascita del senso nazionale in paesi frammentati come l'Italia e la Germania. Molti intellettuali andarono verso il popolo, cercando soprattutto nelle campagne l'anima profonda e vera di una tradizione che desse senso di appartenenza ad una storia comune, ad una lingua comune, ad una collettività comune. Cercavano la tradizione, trovarono le favole, traduzione in racconti di quanto per secoli aveva sedimentato nell'inconscio di quella collettività. La scoperta letteraria della favola dunque è il frutto del romanticismo e della sua ricerca della cultura popolare come fattore di ricomposizione e fondamento del senso di appartenenza ad una nazione. Un secolo e mezzo dopo, con la sua teoria dell'etnismo François Fontan fonderà proprio sulla lingua e sulla cultura gli elementi costitutivi di una nazione e su questi presupposti baserà il programma del Partito Nazionalista Occitano, fondamento dell'occitanismo politico contemporaneo.

Tornando alla favola, all'inizio dell'Ottocento i fratelli Grimm compiono per primi questa operazione di riscoperta dell'autentico animo popolare tedesco. La prima raccolta di fiabe europee nacque in Germania sotto il nome di Kinder und Hausmärchen (Fiabe per bambini e famiglie) (1812-1815) a cura dei fratelli Jacob Ludwig Grimm (1785–1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786–1859). Lo scopo non era semplicemente letterario né antropologico. La principale motivazione che spinse i Grimm prima a ricercare e poi a trascrivere le fiabe, viste come la tradizione culturale comune dei popoli di lingua tedesca, fu il desiderio di contribuire alla nascita di una identità germanica e dunque alla nascita di una nazione.

Una cosa va chiarita subito: le loro storie non erano pensate per i bambini, ma riflettevano l'asprezza del mondo contadino, unite a temi che oggi, dopo la nascita della psicoanalisi ed in particolare di quella junghiana, definiremmo archetipali e dunque profondamente legati all'inconscio collettivo.

La prima edizione del 1812 colpisce per i molti dettagli realistici e cruenti e per la ricchezza di simbologia precristiana. È difficile oggi leggere le fiabe che raccolsero nella loro versione originale. Le loro fiabe sono pubblicate soprattutto nella forma edulcorata e depurata dei particolari più cruenti e dei riferimenti espliciti alla sessualità, della traduzione inglese della settima edizione della loro raccolta, uscita nel 1857. Quelle che leggiamo oggi sono dunque fiabe censurate. Non mancò il dibattito su questo adattamento: nel volume Principessa Pel di Topo e altri 41 racconti da scoprire (Donzelli Editore, Roma 2012) si cita una lettera di Jacob Grimm in cui egli manifesta la propria contrarietà a edulcorare le storie:


“La differenza tra le fiabe per bambini e quelle del focolare e il rimprovero che ci viene mosso di avere utilizzato questa combinazione nel nostro titolo è più una questione di lana caprina che di sostanza. Altrimenti bisognerebbe letteralmente allontanare i bambini dal focolare dove sono sempre stati e confinarli in una stanza. Le fiabe per bambini sono mai state concepite e inventate per bambini? Io non lo credo affatto e non sottoscrivo il principio generale che si debba creare qualcosa di specifico appositamente per loro. Ciò che fa parte delle cognizioni e dei precetti tradizionali da tutti condivisi viene accettato da grandi e piccoli, e quello che i bambini non afferrano e che scivola via dalla loro mente, lo capiranno in seguito quando saranno pronti ad apprenderlo”.

Lo stesso problema si pone anche a Italo Calvino nell'intraprendere la ricerca e poi la pubblicazione di una raccolta fatta con criteri scientifici di fiabe italiane:

“Nelle mie stesure, per le quali ho dovuto tener conto dei bambini che le leggeranno o a cui saranno lette, ho naturalmente smorzato ogni carica di questo genere. Una tale necessità già basta a sottolineare la diversa destinazione della fiaba nei vari livelli culturali. Questa che noi siamo abituati a considerare "letteratura per l'infanzia", ancora nell'Ottocento (e forse anche oggi), dove viveva come costume di tradizione orale, non aveva una destinazione d'età: era un racconto di meraviglie, piena espressione dei bisogni poetici di quello stadio culturale”

L'altro grande problema è la fedeltà dei testi all'originale, la loro scientificità. Calvino nell'introduzione alla sua raccolta di fiabe italiane da il seguente giudizio sui Grimm:

“Il metodo di trascrizione delle fiabe "dalla bocca del popolo", prese le mosse dall'opera dei fratelli Grimm e s'andò codificando nella seconda metà del secolo in canoni "scientifici", di scrupolosa fedeltà stenografica al dettato dialettale del narratore orale. Proprio "scientifici" come oggi s'intende i Grimm non furono, ossia lo furono a metà (...) solo una parte delle fiabe dei Grimm furono raccolte dalla bocca del popolo (essi ricordano soprattutto una contadina d'un villaggio presso Cassel); molte furono riferite da persone colte, come ricordavano d'averle sentite narrare nell'infanzia dalle loro nutrici.) i Grimm (particolarmente Wilhelm) lavorarono molto di testa loro, non solo traducendo gran parte delle fiabe dai dialetti tedeschi, ma integrando una variante con l'altra, rinarrando dove il dettato era troppo rozzo, ritoccando espressioni e immagini, dando unità di stile alle voci discordanti”.

E la definisce un tipo di fiaba “cupa e truculenta”

L'esempio dei Grimm fu presto seguito altrove. Nella Russia zarista Alexander Nikolajevič Afanasjev pubblica otto volumi di fiabe fra il 1855 e il 1864. Lo scopo è lo stesso riscoprire la tradizione e risvegliare l'autentico animo russo. L’opera è importante non solo per lo studio delle fiabe russe ma della fiaba in generale. Afanasiev fu il primo a menzionare il nome e la provenienza del narratore di ogni singola fiaba mantenendo le specificità dialettali del testo narrato. Il suo fu un lavoro scientifico. La sua raccolta di narrativa popolare orale risulta molto più fedele all'origine dell'opera dei Grimm.

Nella seconda metà del secolo, considerato anche il successo in un pubblico prevalentemente infantile dei libri di fiabe, la raccolta di favole diventa un genere letterario vero e proprio che da un lato perde, o attenua di molto, l'originaria spinta nazionalistica, dall'altra da impulso ai primi studi sul folklore. In Italia questo tipo di ricerca e di pubblicazione prende piede negli ultimi decenni dell'Ottocento, subito dopo l'unità d'Italia. Lo scopo è quello che aveva portato Pellegrino Artusi a compilare il suo bellissimo libro di cucina, che, va ricordato, per la qualità della scrittura, deve essere annoverato fra i classici della letteratura italiana dell'Ottocento. Il problema era lo stesso che agitava la classe politica postunitaria: come fare di un popolo disperso una nazione. Insomma: fare gli italiani. Come in Germania e in Russia nella cultura popolare, e dunque nella fiaba – e per Artusi nella cucina - si cercò quello che divideva ma anche univa le varie subculture regionali. Calvino riconosce l'importanza dei ricercatori toscani e siciliani:

“Ed è dalla Toscana e dalla Sicilia che ci vengono le due raccolte più belle che l'Italia possieda. Sono le Sessanta novelle popolari montalesi di Gherardo Nerucci [1880] e le Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè [1875]. L'uno è un libro in un bizzarro vernacolo del contado pistoiese, presentato come testo di lingua e bella lettura; è il libro d'uno scrittore. L'altro consiste in quattro volumi che contengono, ordinati per genere, testi in tutti i dialetti della Sicilia, con gran cura di darne la documentazione più precisa possibile, zeppi di postille con "varianti e riscontri", note lessicali e comparatistiche; è il libro d'uno scienziato”.

(Prima parte di una lezione tenuta a Quiliano nel gennaio 2018 nell'ambito dei corsi dell'UniSabazia. Le citazioni di Calvino sono tratte dalla introduzione alla sua raccolta di fiabe italiana pubblicata da Einaudi.)

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