TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 7 maggio 2021

Dego negli scritti di Giuseppe Cesare Abba

 


Nel 1875 a Milano per l'editore Civelli esce “Le rive della Bormida nel 1794”, romanzo storico di Giuseppe Cesare Abba. Ne riprendiamo le prime pagine contenenti una bella descrizione di Dego.


Chi si parte dalla marina del Finale, e su pel fianco dell'Appennino va verso le Langhe, si arresta trafelando ogni tratto a ripigliar lena, e a vedere quanta sarà ancora la salita, e quanto s'è scostato da quella spiaggia, diversa giù giù per foci di torrenti, per iscogliere tagliate a filo, per promontori neri, dirupati, somiglianti a mostri, che si inoltrano cimentosi nei flutti. Ma guadagnata che abbia la vetta del Settepani, sente l'affanno della via ripida e lunga, quetarsi in una vista maravigliosa. La catena dell'Alpi è di lassù un'occhiata infinita; e se vi si arriva all'apparire del sole, tutta la distesa di picchi, di coni, di aguglie, gli pare un mondo di cose vive e moventi. Si vorrebbe aver l'ali per lanciarsi su qualcuno di quei culmini, così alti nel cielo; e si abbassa di malavoglia lo sguardo, a cercare la via, giù per i gioghi avvolti ancora nell'ombra, lì sotto: dove per un lungo digradarsi di monti, si confondono villaggi, selve, burroni spaventosi; qua Montenotte, là Cosseria, castella e torri feudali per tutto; più lontana e più bella d'ogni altra quella di Vengore, che nera e solitaria si spicca su un altipiano, oltre il quale la nebulosa pianura.

Giù per le selve fumano le carboniere da mille siti. Le donne, colle ceste del mangiare in capo, s'affrettano verso quelle, pei dirotti sentieri; e ti guardano fantasticando sull'esser tuo: gli uomini, a mo' di brusco saluto, ti dicono «animo,» o «allegri!» quasi lassù non potesse passare chi non è lieto o animoso. Non ti paia d'essere capitato fra gente mezza barbara; chè se tu chiederai loro qualche servigio ti saranno cortesi, e interrogati ti additteranno i ripari di pietre ferrigne, fatti dagli Alemanni, superati dai Francesi; e i tumuli erbosi sotto i quali giacciono i morti di quelle genti; gloriandosi di non averli turbati mai. Se l'ora sarà del riposo, e sederai con loro, ti narreranno leggende antiche come quella di Adelasia ed Aleramo; o forse qualche storia della sorta di questa mia, seguita in luoghi che si vedono di lassù; quando i repubblicani Francesi, calarono in Val di Bormida, a piantar alberi di libertà, e a ballare la carmagnola pei sagrati e sin nelle chiese.


Uno dei borghi di quella vallata, in cui per amenità di postura e pel genio allegro degli abitanti, facesse di quei tempi più bello stare, era quello di D...., bagnato dalle acque della Bormida, che ivi scorre con curve leggiadre, all'ombra d'alti pioppi e passa sotto le volte d'un ponte angusto, gettato sopra di esse a guisa d'un patto, stretto cautamente fra quel popolo, in età di poca concordia. Dico così perchè D.... se ne sta diviso in tre vichi; dei quali due giacciono in riva all'acque, di maniera che uno d'essi pare lì per tuffarsi; mentre il terzo li soggioga dalla vetta d'un colle ronchioso e popolato di cerri. La via onde si arriva su questo, serpeggia con repentine svolte per l'erta; e sebbene non tutta a petto, è di molta fatica a salirla. Ma come uno è sulla cima si sente rinato. Piace il sito della chiesa e il campanile che si leva più alto parecchie braccia, con una cupoletta, che miracolo se il vento non se la porta via: piacciono il presbiterio e l'orto; e invoglierebbero ogni uomo d'essere prete, per vivere lassù da curato. Alcune case che fanno corona alla chiesa, quantunque belle pongono anch'esse in cuore un funebre senso. Le ragnatele pendono dai balconi le cui imposte cascano sfasciate; e mentre si direbbe che questa o quella delle tante porte sia lì per aprirsi, dura sempre una quiete altissima, interrotta solo dalle ventate che empiono di suoni cupi le sale deserte. Lassù, nè la state nè il verno, mai che si vegga un comignolo a fumare, e se i nostri fossero altri tempi, a udire l'ore battute dall'orologio di quel campanile, si farebbe credere chi sa quale storia maravigliosa alla gente semplice del contado. Ma ognuno sa che il sagrestano della nuova chiesa parrocchiale, sorta da pochi anni in luogo più basso e più comodo agli abitanti del piano; sale ogni giorno il colle a caricare quel vecchio arnese; e il suo è il solo passo che rompa il silenzio dell'antica parrocchia, sempre vuota come le case che ha intorno. Non più messe grandi nè vespri cantati; non più conviti nè festini; l'ultimo dei pievani dorme da oltre mezzo secolo nel sepolcro dietro l'altare; e delle allegre donne e degli uomini buontemponi vissuti lassù, rimane appena il ricordo nella mente vagellante di qualche vecchio ottuagenario.

Questo gruppo di case per essere stato sede dei feudatari della terra si chiamava il castello; e gli abitanti venuti dopo costoro, padroni della parte più vasta e ubertosa del paese, erano tutti signori. Nei vichi a piè del colle, le famiglie agiate e le case di bell'aspetto erano poche; ma in quello della riva sinistra del torrente se ne vedeva una, notevole per la grandezza, e più alta di tutto un piano sul vicinato, quasi tutto catapecchie. Mostravano di qual sorta di gente fosse, il piazzale, l'atrio, il giardino che le fioriva da un lato; e più di tutto le finestre ampie e chiuse di vetriate, le quali sebbene fatte a riquadri strettissimi, costavano di quei tempi molto danaro.