TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 18 agosto 2012

Nel ventre di Napoli dove i teschi sono sacri




Napoli, città bellissima e misteriosa, sospesa fra modernità invadente e riti senza tempo. Ci arrivammo di sera che il sole tramontava dietro Capo Miseno tingendo di sangue le case e la baia.

Marino Niola

Nel ventre di Napoli dove i teschi sono sacri

Migliaia di crani allineati sopra interminabili file d’ossa. Come i volumi di una biblioteca surreale che si snoda lungo cunicoli misteriosi. Un labirinto sotterraneo che sembra disegnato dalla mano di un naturalista barocco di casa nella tenebra. Sono le anime abbandonate di Napoli. Le chiamano le pezzentelle, le piccole mendicanti. O, semplicemente, le capuzzelle, cioè le testoline. Protagoniste di un culto che sembra irrompere da lontanissime regioni del tempo, come se le porte dell’Ade si spalancassero improvvisamente sulla contemporaneità.

Una scheggia di passato che arriva dritta al cuore del presente. È quel paganesimo sottotraccia che attraversa l’Italia come una corrente segreta, un’energia del passato che sopravvive alla tecnologia, alla ragione, alla secolarizzazione.

Questi corpi senza nome, usciti dalle fosse comuni degli appestati, affollano il cimitero delle Fontanelle, un ossario che insinua i suoi meandri sotto la collina di Capodimonte. Siamo nel popolarissimo quartiere della Sanità. Ma ci sono capuzzelle anche in altri sotterranei della città. La chiesa seicentesca del Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali, le catacombe paleocristiane di San Gaudioso alla Sanità e la basilica di San Pietro ad Aram, una porta degli inferi a due passi dalla stazione centrale. In realtà il sottosuolo di Napoli è una città sotto la città, densa e brulicante come quella di sopra.

Da secoli la pietà popolare ha fatto di questi sans papier dell’aldilà i suoi numi tutelari. Perché li identifica con le anime che soffrono in purgatorio. E continuerebbero a soffrire per l’eternità se non fosse per i devoti che accolgono nel loro pantheon familiare questi spiriti in pena. Mettendoli sugli altari domestici insieme ai propri cari. Risultato, migliaia di anni di purgatorio condonati. Così la concezione indulgenziale della vita, tipica della mentalità popolare napoletana, si proietta nell’altro mondo facendone un riflesso ultraterreno del vicolo. E della sua concitata communitas, fatta di un continuo scambio di favori, di beni, di servizi. Un do ut desche abbraccia vivi e morti in un cosmorama alla García Márquez. I riti che si celebrano in questo perturbante underground sono ciò che resta di cerimonie misteriche precristiane che simulavano la discesa agli inferi. E che avevano spesso come location ipogei e luoghi sotterranei. Non a caso la chiesa ha sempre combattuto queste forme di culto, ritenendole delle sopravvivenze pagane. E soprattutto ha condannato con forza la pratica dell’adozione, che di questa religione nella religione, rappresenta il vero mistero doloroso. I seguaci delle capuzzelle dicono di ricevere in sogno l’anima di un defunto che racconta la propria storia e rivela quale sia il suo cranio. Nome e collocazione. Un riconoscimento postumo insomma.

Così, come guidati da un navigatore soprannaturale, i devoti vanno a colpo sicuro e individuano tra mille la testa da accudire. È un caso paradossale di adozione a distanza. Perché quel che si fa per il teschio va a beneficio dell’anima. È esattamente quello che i Greci chiamavano chrematismos. L’apparizione notturna di un morto assetato in cerca di refrigerio. Non per nulla la cura tradizionale delle anime pezzentelle si chiama refrisco, che significa appunto refrigerio. E che consinatori. ste in una sequela di gesti molto materiali e al tempo stesso molto simbolici. Oltre alle preghiere e all’accensione di lumini, infatti, il cranio viene meticolosamente pulito e lustrato con alcol e ovatta. E messo in naftalina. Materialmente disinfettato e metaforicamente purificato. Azioni che sostituiscono le astrazioni della teologia. La pulizia progressiva delle ossa corrisponde ai tempi di purificazione dell’anima. È la dottrina del purgatorio a uso e consumo dei poveri. Lévi-Strauss avrebbe parlato di pensiero concreto, Henry James di munificenza del cuore. Una generosità sub condicione però. Perché alle anime viene chiesto di ricambiare. Concedendo grazie e favori, proprio come i santi. C’è chi chiede un lavoro, chi è in cerca di marito, chi vuole disperatamente un figlio, chi ha bisogno di trovar casa. E soprattutto malati che domandano di essere guariti. Ma c’è anche chi si aspetta che le anime ricambino il favore dando numeri da giocare al lotto. Proprio come nel mondo antico, dove gli spiriti dei morti senza nome venivano consultati a scopi divinatori.

Quando la grazia arriva il cranio riceve una sorta di beatificazione popolare. Da quel momento diventa una testa potente, una capa gloriosa, esce dalla schiera anonima e viene solennemente sistemato in un tempietto di marmo e vetro con i nomi dei miracolati. Così nel tempo è nato un vero gotha delle capuzzelle. Lucia, detta anche la sposa, che regna nella tenebra del Purgatorio ad Arco e protegge le donne giovani che le offrono il loro velo nuziale. La capa rossa, detta anche il postino delle anime, perché appare in sogno a portare buone notizie. Ma se gli spiriti abbandonati sono generosi con chi si prende cura di loro, a volte sanno essere molto vendicativi con chi li provoca. Lo dimostra la storia del Capitano, temutissimo convitato di pietra degli inferi partenopei. Di lui i devoti parlano facendosi il segno della croce. E raccontano che un giorno il suo cranio venne oltraggiato da un miscredente che gli diede un calcio ed ebbe addirittura la sfrontatezza di invitarlo a cena. La vendetta non si fece attendere. Il morto offeso arrivò puntualmente e per il padrone di casa non ci fu scampo. In realtà è la versione popolare del mito di Don Giovanni, l’uomo che invita a cena il morto. E forse è proprio la leggenda napoletana il nucleo sorgivo del Don Juan di Molière e poi dell’immortale creatura di Mozart.

Queste camere di compensazione del soprannaturale che cerca di risalire alla luce del sole sono fatte apposta per accendere fantasie artistiche e letterarie. Da Herman Melville a Walter Benjamin, da André Gide a Gustav Herling, da Roberto Rossellini fino ad artisti come Joseph Beuys, Rebecca Horn e Francesco Clemente hanno subito il fascino di questi baratri del senso. Oggi quelle che per generazioni di napoletani furono gli hotspot del regno delle ombre, aperti a schiere di devoti capaci di connettersi con le “voci di dentro”, accolgono folle di turisti in cerca di mistero. Da soglie dell’ombra a musei della pietà. Da luoghi cultuali a beni culturali. Discese agli inferi con audioguida.

(Da: la Repubblica del 17 Agosto 2012)