TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 23 marzo 2016

I fuochi di San Giovanni fra mito e poesia



I fuochi di San Giovanni rappresentano da sempre la manifestazione di una dimensione magica dell'esistenza. Riprendiamo l'introduzione di una ricerca in via di pubblicazione.

Giorgio Amico

Una notte cara ai poeti



“Tersa per chiari fuochi
festosi, la notte odora
acre, di sugheri arsi
e di fumo”. (1)

Sono versi di Giorgio Caproni. Festa del fuoco e dell'acqua, la notte di San Giovanni è da sempre cara ai poeti che ne hanno cantato il prepotente simbolismo luminoso:

“Son Juon nou tup i quiar e pohuen sierne:
Beliere, arlusi, fiour di quiar, luzerne“.

[San Giovanni ci spegne la luce e possiamo scegliere: fuochi notturni, lampi, fiori di luce, lucciole](2)

Così Antonio Bodrero, poeta occitano delle valli cuneesi, esalta il carattere solstiziale della festa collocata nel momento in cui il sole [la luce] lentamente inizia a declinare sulla linea dell'orizzonte.

“Questo lungo giorno,
al sol che gioca tra i Gemelli e il Granchio” (3)

scrive ancora Bodrero in un'altra poesia, questa volta in italiano, sempre dedicata a San Giovanni Battista, in cui con poetica precisione individua le caratteristiche astronomiche e astrologiche della festa.



Un lungo giorno, seguito dalla notte più corta dell'anno, quella in cui «ci sono più falò che stelle» (4), la più magica delle notti, in cui il tempo è sospeso e davvero tutto può accadere. Lo sapeva bene Shakespeare, attivo partecipante dei circoli esoterici e rosacruciani dell'Inghilterra elisabettiana, che vi ambientò Sogno di una notte di mezza estate, una delle sue commedie più belle e più complesse quanto a riferimenti simbolici. (5)

Festa dai mille volti, solare e lunare, della luce e delle tenebre, nata con l'agricoltura ai primordi della società umana, da tempo immemorabile la festa di San Giovanni si inserisce nel ciclo delle stagioni e dei lavori dei campi. Piena ancora di echi pagani, la celebrazione cristiana dei due San Giovanni riprende il mito antichissimo del Dio che nasce al Solstizio d'inverno per morire una volta raccolte le messi al Solstizio d'estate. Da queste antichissime credenze deriva l’abitudine, ancora oggi praticata in tante parti d'Europa, di bruciare le sterpaglie e i resti del raccolto per garantire nuova fertilità alla terra.

Inizio di un ciclo cosmico, momento magico in cui il tempo è sospeso, in quella notte gli elementi della natura acquistano poteri del tutto straordinari e prodigiosi. L’acqua, il fuoco, le erbe diventano veicolo di operazioni magiche. Il fuoco dei falò rende puri i campi e i vigneti, feconda gli animali domestici e le giovani coppie che ne attraversano le braci o ne saltano le fiamme. Certe erbe, intrise della magica rugiada di quella notte, acquisiscono il potere di proteggere la casa da ogni influenza negativa e dai malefici delle streghe, oltre che arrecare prosperità e gioia a chi la abita. In quella notte fatata tutto è davvero possibile. Ce lo ricorda la gioiosa canzone di Oberon, il Re della Fate, che chiude la commedia scespiriana:

“E così di stanza in stanza
ogni spirito si aggiri
fino allo spuntar dell'alba.
A ogni talamo nuziale
recheremo buoni auspici,
che la prole generata
sia felice e fortunata,
e le tre coppie di amanti
sempre ai voti sian costanti.
Nessun scherzo di natura
tocchi i figli di costoro:
siano immuni da ogni neo,
labbro leporino, sfregio,
da ogni voglia mostruosa
aborrita dalla nascita.
Ogni spirito rechi con sé
la rugiada consacrata
che diffonda dolce pace
del palazzo in ogni stanza:
e sicuro sia il riposo
del signore della casa.
Presto, su, non indugiate,
ed all'alba a me tornate”. (6)



Una notte incentrata sugli elementi primordiali del fuoco e dell'acqua, che esalta la forza generativa della natura e una sessualità libera e gioiosa vista come manifestazione diretta del sacro. Abituati come siamo a relegare il dato religioso in un ambito asettico estraneo alla vita quotidiana, questa libertà assoluta che assume spontaneamente la forma del rito ci sconcerta. Ci pare una mescolanza innaturale di sacro e profano, una mancanza di misura se non di rispetto verso realtà che esigono il silenzio e l'ordine del luogo consacrato.

Preoccupazioni che sarebbero risultate incomprensibili per gli uomini e le donne del Medioevo, abituati ad attribuire valenza religiosa ai più ordinari gesti quotidiani (lavorare, cibarsi, riposare) e a convivere con il sacro. E' il motivo per cui facciamo fatica a comprendere il senso profondo delle rappresentazioni erotiche scolpite sui capitelli delle chiese romaniche.

C'è chi addirittura si ritrae infastidito davanti a quegli accoppiamenti esibiti senza timore o a quegli organi sessuali ipertrofici posti orgogliosamente in bella vista in luoghi dedicati alla preghiera, ritenendoli mera pornografia che contamina uno spazio sacro. In realtà si tratta di ben altro.



Quelle coppie avvinghiate e quei falli non rappresentano, come qualcuno sempre prova a dire, la condanna severa dei peccati e della carne, ma esattamente il contrario. Contro i divieti e i tabù che la Chiesa tenta di introdurre in un mondo fisicamente molto libero e che non ha (ancora) il senso del peccato, quelle pietre scolpite, espressione di una religiosità popolare primordiale, esaltano la sessualità naturale e non peccaminosa delle piante, degli animali, degli uomini, manifestazione prima della forza generatrice che muove il cosmo. C'è gioia e non vergogna alla base di quelle figure. Ce lo racconta Risus paschalis, piccolo grande libro della teologa e antropologa Maria Caterina Jacobelli:

“Quando l'ombra collettiva della chiesa ufficiale respinge la bontà, la sacralità della sessualità e del piacere, ecco la prassi popolare mantenere accesa questa verità attraverso i secoli, a modo suo, cioè spesso in modo impertinente. (…) Il piacere sessuale che non trova spazio nella dottrina ufficiale della chiesa, persiste tenacemente nell'ambito del sacro, osteggiato e protetto, condannato e portato in auge, adombrato da fragorose risate o scolpito nei capitelli o dipinto negli affreschi”. (7)

Tutti questi elementi li troviamo presenti nella festa di San Giovanni ad esaltare il fluire eterno e multiforme della vita di contro alla vittoria apparente della morte. Tra i moderni un giovanissimo Giorgio Caproni alle sue prime prove poetiche ne ha saputo meglio di tutti trasmettere in una manciata di versi di grande freschezza la spontanea e innocente carica erotica:

“Voci e canzoni cancella
la brezza: fra poco il fuoco
si spenge. Ma io sento ancora
fresco sulla mia pelle il vento
d'una fanciulla passatami a fianco
di corsa”. (8)



Note

1. Giorgio Caproni, San Giovambattista, in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2004 (II ed.), p. 25.
2. Antonio Bodrero, Opera poetica occitana, Milano, Bompiani, 2011, p. 382.
3. ivi., p. 383.
4. Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Milano, Mondadori, 1966, p. 99.
5. Cfr. Frances Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare: un nuovo tentativo di approccio, Torino, Einaudi, 1979.
6. William Shakespeare, Sogno di una notte di mezz'estate, Milano, Mondadori, 1998, p.171.
7. Maria Caterina Jacobelli, Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia, Queriniana, 2004 (IV ed.), pp. 86-87.
8. Caproni, Tutte le poesie, cit., p. 25.