TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 24 agosto 2016

Occitania, la sfida del popolo senza Stato né confini



La rinascita della coscienza occitana nelle valli piemontesi. Quanto ha contato la musica? Riproponiamo una vecchia intervista a Sergio Berardo, leader dei Lou Dalfin.


Marcello Parilli

Occitania, la sfida del popolo senza Stato né confini

L’Occitania è la nazione che non c’è, quell’area di pensiero, parola e cultura ben piantata nella Francia meridionale che va dall’Atlantico ai Pirenei fino al Massiccio Centrale, sconfinando a Sud nella catalana Val d’Aran e a Est in quattordici valli alpine tra le provincie di Torino, Cuneo e Imperia, lembo estremo di questa specie di arco latino. Un territorio con 13 milioni di abitanti che sulla carta hanno in comune l’occitano (la mitica lingua d’oc conosciuta da 7 milioni di persone ma parlata solo da due) e un’identità in filigrana difficile da far riemergere, tanto che la parola «Occitania» evoca più un arcipelago di particolarismi e diversità che un’unica nazione, per quanto senza Stato.

Nelle valli occitane del Piemonte, per esempio, c’è sempre stato un forte legame di sangue, di lingua e di lavoro con la Provenza francese che le Alpi non hanno mai impedito, perché i montanari di queste parti non sono mai stati attaccati alle loro rocce come i licheni. Erano commercianti di stoffe, di capelli o di acciughe (ancora oggi base della bagna cauda, regina delle tavole piemontesi), venditori ambulanti di bibbie o suonatori di ghironda (veri e propri professionisti) che attraversavano continuamente il confine lungo sentieri oggi ripercorsi dagli appassionati, e tatuati nell’anima avevano il nomadismo, il rischio del sogno, l’avventura almeno quanto i contadini di pianura erano tutt’uno con i campi, i cicli stagionali e la stanzialità. Due filosofie di vita agli antipodi.



«Qualcuno dice che la montagna divide le acque ma unisce gli uomini, e personalmente io mi sento più a casa a Marsiglia che a Milano — dice Sergio Berardo, leader della band Lou Dalfin, che da 27 anni si è messa al servizio della rinascita dell’orgoglio e della consapevolezza occitana in territorio italiano —. Solo che fino a trent’anni fa qui, dell’Occitania, non fregava niente a nessuno. I primi attivisti che si ispiravano agli occitanisti francesi del movimento Félibrige erano considerati personaggi eccentrici e innocui, erano "lhi ucitàn", come fossero qualcosa di altro da sé. Intellettuali, specialisti, volontari e idealisti che hanno fallito perché distanti dalla realtà del territorio. Non hanno saputo sintonizzarsi con un sentimento popolare che pure era presente. Davano l’impressione che l’Occitania fosse un’idea bizzarra che stava solo nella loro testa».

Poi, appunto, è accaduto un piccolo miracolo: è arrivata la musica (e, a ruota, la riscoperta delle danze tradizionali) che è riuscita là dove la politica aveva fallito. A ogni concerto dei Lou Dalfin (cioè «il delfino», simbolo presente ovunque, su fontane, archivolti, pietre scolpite, decorazioni di mobili), il pubblico aumentava e, al suono di ghironda, organetto e cornamusa (il solo Berardo suona 24 strumenti diversi), ha cominciato a prendere coscienza di essere un popolo con una storia alle spalle, una lingua da parlare e tradizioni proprie.

E tutto senza barriere culturali o generazionali: «Ai nostri concerti ci sono anziani che ballano in maniera ortodossa , alpini, famiglie che fanno immensi girotondi, ma anche ragazzini che fanno la break dance o pogano sotto il palco (il ballo punk a base di spintoni e spallate, ndr). E convivono tutti nello stesso spazio — dice Berardo —: la musica e il ballo hanno scardinato come un grimaldello l’indifferenza per la propria identità e il proprio territorio. Noi non abbiamo diamanti né petrolio, ma note e passi di danza che creano scambio e comunicazione. Queste sono le ricchezze della nostra terra. E la musica popolare deve divertire la gente, non chiudersi in circoli per pochi appassionati col mito del "buon selvaggio". Deve aprirsi al mondo, anche contaminarsi con basso, batteria e chitarra elettrica, se è il caso, altrimenti la uccidiamo».



Molto hanno fatto anche organizzazioni e gruppi innamorati, ognuno a suo modo (perché la piccola «guerra di religione » è sempre dietro l’angolo), dell’idea di Occitania, dalla Chambra d’oc a Espaci Ocitan, dal Félibrige al giornale Ousitanio Vivo, dall’Istituto di Studi Occitani all’associazione culturale La Valaddo fino al Centre Prouvençal Coumboscuro, che non chiedono l’indipendenza, ma il rispetto, sancito dalla Costituzione, delle norme per la tutela delle minoranze linguistiche. Ma per una vera «reconquista» di radici e identità servirebbe anche una classe politica più coraggiosa e lucida nel comprendere le vere caratteristiche del proprio territorio. Sono state finanziate locande occitane che proponevano serate a base di pizza, organizzati raduni di Ferrari su strade dove si mette a stento la terza, intitolate strade a illustri occitani d’oltralpe come la poetessa Marcela Delpastre o l’autore della grammatica occitana Louis Alibert, ma ignoti ai locali, ipotizzati impianti di risalita in valli adatte soprattutto al trekking e allo sci di fondo, col solo risultato di arricchire qualche speculatore immobiliare.

«La montagna è stata abbandonata dalla politica — conclude Sergio Berardo —. Ci stanno togliendo i pochi soldi che ci davano e qui non vengono neanche più a fare i comizi. Siamo considerati solo aree di passaggio per strade e ferrovie, o al massimo un parco- giochi della pianura. Mentre per vivere meglio dovremmo smettere di essere provincia e capire che siamo da sempre una frontiera. E che se perdiamo il rapporto con la nostra terra e con le nostre tradizioni, non siamo più niente».


il Corriere della sera - 10 novembre 2009