Saliceto, Chiesa di S. Agostino (1455 ca.)
Giorgio Amico
Lungo le vie del sale fra Liguria e Piemonte a dorso di mulo
La rete viaria romana e le vie di valico
A metà del secondo secolo a.C. i Liguri sono definitivamente sottomessi dai romani che si dedicano alla costruzione di una vasta rete stradale (Via Postumia, Via Aemilia Scauri, Via Julia Augusta) e alla fondazione di città (Vada Sabatia-Vado, Albingaunum-Albenga, Albintimilium-Ventimiglia, Alba Pompeia-Alba, Augusta Bagiennorum-Benevagienna, Augusta Taurinorum-Torino, Pedona-Borgo San Dalmazzo, solo per citare le più importanti) collocate in snodi fondamentali della rete viaria.
Gli studi archeologici hanno evidenziato una popolazione sparsa sul territorio con insediamenti diffusi sia lungo la costa sia nell’entroterra (attuale Valle Bormida e Basso Piemonte, si è ipotizzata l’esistenza già in epoca romana di una fitta rete stradale secondaria, soprattutto in direzione trans-apenninica, lungo percorsi di valico che dalla costa conducevano alla Pianura Padana.
Le più importanti per restare alla Liguria occidentale di queste vie di valico sono la Ventimiglia-Pedona (l’attuale Borgo San Dalmazzo) che passava per Tenda, la cosiddetta Via Marenca (dalla zona di Imperia al passo Garlenda, al monte Bertrand, a Limone, con sbocco a Pedona), la via che da Alberga valicava il passo di San Bernardo per scendere in Valle Tanaro, il percorso che da Finale giungeva in Val Bormida attraverso sia il colle del Melogno che quello di San Giacomo. Questa rete stradale, ampi tratti della quale sono giunti fino a noi, sopravvive alle invasioni barbariche e riacquista nuova vitalità a partire dall’epoca carolingia.
E’ una rete viaria fortemente condizionata dall’ambiente geografico e dalla vocazione del territorio a fungere da ponte fra nord e sud, funzionale al trasporto delle merci dall’interno verso il mare e viceversa. Ad ogni valico che permette il superamento delle montagne corrisponde una valle allo sbocco della quale troviamo sempre un porto.
La particolare configurazione del territorio ligure, caratterizzato da una ridottissima fascia pianeggiante litoranea e dall’esistenza di una catena ininterrotta di monti (Alpi Marittime, Apennino ligure) a ridosso immediato del mare, ha da sempre determinato le modalità concrete dello spostamento di merci e persone.
Le vie di valico si caratterizzano soprattutto sul versante costiero per l’asperità delle salite (spesso con pendenze superiori al 15%) e dei fondovalle, generalmente tortuosi, stretti e franosi. Ciò determina la necessità di opere viarie (ponti, muraglioni di sostegno) imponenti e costose , necessitanti di una continua manutenzione.
Anche i percorsi di crinale non sono agevoli per l’esistenza di frequenti asperità dovute alla presenza di valli trasversali che dalla montagna scendono verso il mare in presenza di corsi d’acqua a carattere torrentizio.
Queste caratteristiche sfavorevoli rendono economicamente svantaggioso quando non materialmente impossibile l’uso di mezzi di trasporto a ruota, per cui, a parte le grandi strade consolari romane, la tipica via di comunicazione ligure è la mulattiera.
Un fenomeno duraturo, se si pensa che le prime strade carreggiabili anticipano solo di trenta anni la costruzione delle ferrovie Savona-Torino e Genova-Ventimiglia. Fino agli anni Sessanta del XIX secolo le vie di comunicazione restano come nel Medioevo le mulattiere, cioè le antiche vie del sale.
Le vie del sale
Fino alla costruzione delle strade moderne caratterizzate da trafori e viadotti che permettono di superare gli ostacoli naturali in linea retta, le asperità naturali venivano aggirate, da qui la tortuosità e la lunghezza dei percorsi che mettevano in comunicazione località anche vicine. Solo fondovalle larghi e limitati tratti di pianura costiera permettevano il transito dei carri, per cui l’impiego dei veicoli era limitato ai traffici locali intorno ai principali centri abitati.
Le persone si spostavano a piedi, le merci a dorso di mulo. E’ stato calcolato che un mulo a pieno carico non poteva percorrere in una giornata più di sei/sette ore di cammino ad una velocità non superiore, proprio per l’asperità dei percorsi, ai due chilometri l’ora. Ne consegue l’esistenza di una fitta rete di punti di tappa (laici e religiosi-taverne ed ospizi), corrispondenti ad una giornata di cammino e distanti fra loro di 10-15 Km.
Di queste merci il sale ha rappresentato per oltre un millennio l’elemento centrale e più prezioso. Le vie di comunicazione fra costa e entroterra, luoghi di questi traffici, diventano dunque fin dal primo medioevo le vie del sale.
Fino all’Ottocento (e allo sviluppo conseguente all’urbanizzazione massiccia di una moderna industria alimentare e di tecniche avanzate di conservazione degli alimenti) il sale rappresenta l’elemento fondamentale dell’alimentazione in quanto permette la conservazione dei cibi. Non va inoltre trascurata l’importanza del sale nella conciatura delle pelli.
Le vie del sale riprendevano ampliandoli i vecchi percorsi di valico di epoca romana se non addirittura pre-romana (si veda l’esempio della Val Roja). Da Ventimiglia lungo la Val Roja o la Val Nervia si raggiungeva il Colle di Tenda (Borgo SD), il Colle del Sabbione (Entracque), la Madonna del Colletto (Demonte), il Colle dell’Otica (Val Grana), il Colle d’Esischie (Val Maira), Elva (Val Varaita), Chianale-Colle dell’Agnello-Col de Vieux (Valle Pellice), Balboutet (Val Chisone), Susa e Novalesa, Moncenisio (Val d’Isere), La Thuile (Alta Savoia), Ginevra.
Da Oneglia-Porto Maurizio attraverso la valle dell’Impero si saliva a Pieve di Teco, poi al Col di Nava (Ospedale di S. Lazzaro). Da Albenga si raggiungeva Nizza con una strada alternativa alla via costiera che toccava via via Vessalico, Rezzo, Triora, Pigna, Sospello.
Sempre da Albenga, tramite la Valle Arroscia, il Colle di Nava, Val Tanarello, Monesi, Carnino, Passo delle Saline, si scendeva in Val Ellero a Rastello. Un percorso considerato il più diretto fra la costa e il monregalese, preferito a quello transitante per il colle di San Bernardo. Da Finale via Calice-Carbuta si svalicava alla Madonna della Neve, qui la via si biforcava verso Osiglia (sede a S. Giacomo dei Ronchi di una casa templare), Mallare e Pallare (Abbazia di Fornelli) e verso il colle di San Giacomo (Ospizio). Da Savona tramite la Rocca di Legino si saliva a Montemoro (Ospedale di san Giacomo) e poi a Cadibona o con un percorso secondario via Lavagnola (Ospizio di san Martino), si saliva al Priocco e poi via Naso di Gatto si scendeva all’Abbazia di Ferrania attraverso la zona del Parco dell’Adelasia (Bosco di Savona).
La presenza costante di toponimi riferentesi a San Giacomo ci rivela che le vie del sale erano anche le vie dei pellegrini diretti in Terra Santa o a San Giacomo di Compostella.
Vie di traffico intenso. Basti pensare che dal solo Marchesato del Finale (dal 1602 possesso della corona di Spagna in quanto via strategica per il Granducato di Milano) nel biennio 1641-43 transitano 13.500 quintali di sale.
Il sale veniva prodotto alle foci del Rodano nelle grandi saline della Camargue ( a cui a partire dal XVII Secolo si aggiungeranno la Sardegna, le Baleari e l’Africa del nord), da lì trasportato per nave ai porti della costa (Nizza, Villefranche-sur-mer (“Porto reale” dei Savoia, Ventimiglia, Porto Maurizio, Albenga, Finale, Savona, Genova), dove iniziavano i percorsi di valico.
Un traffico intenso, fonte di intensi guadagni per privati e Stati (fortissimi dazi che determinano spesso i percorsi e un esteso contrabbando), che vede già intorno ai primi secoli dopo il Mille (i più antichi documenti rimasti risalgono al 1212) “Compagnie” (come quella di Tenda) che raggruppano centinaia di mulattieri e migliaia di muli.
Un traffico tanto intenso e ricco da determinare addirittura l’apertura del primo tunnel nelle Alpi, quando nel 1480 Lodovico II, marchese di Saluzzo, apre il cosiddetto Buco del Viso, una galleria di ottanta metri, per tre di altezza e largo quanto basta per il passaggio di un mulo carico, che sotto il Colle delle Traversette mette in collegamento il Marchesato con il Delfinato.
Ogni mulo trasportava circa 120 chili di mercanzia, o due “brente” (antica unità di misura piemontese pari a 50 litri) di vino o d’olio. Si trattava di carovane di una cinquantina di muli, condotti a gruppi di tre da un conduttore, in grado di trasportare ad ogni viaggio circa 6000 chilogrammi di carico.
Un traffico destinato a durare intensissimo fino all’apertura delle prime strade moderne nel XIX secolo, anzi ad accrescersi con lo sviluppo delle città e delle industrie. Per inciso ricordiamo che al trasporto del sale si erano via via affiancati quello dell’olio e del vino e poi, a partire dalle prime ferriere impiantate ad Osiglia dai monaci benedettini nel XII secolo, quello del ferro (come minerale dall’Elba e come semilavorato dalle ferriere d’oltregiogo) e del carbone. Ancora nel 1812, in piena epoca napoleonica, una relazione, dopo aver definito il percorso tra Alba e Savona “un orribile sentiero, ma frequentatissimo”, stimava un passaggio di 52mila carichi di mulo all’anno.
(Testo di una lezione tenuta all'Unisabazia il 5 novembre 2008)