La fotografia, quando è
grande, esprime il ritratto di un’epoca. Non evoca nulla. Mostra
una parte per il tutto. In ogni forma d’arte ciò che è importante
è fare una scelta, elaborare una sintesi, escludere l’inutile e il
troppo facile. Si tratta di tagliare le fronde dell’opulenza
descrittiva per lavorare nel rizoma del segno rovesciato. Dietro ogni
grande fotografia c’è un criminale o un poeta dell’anima bella,
sempre.
La ritrattistica degli
esclusi è legata al pudore, al rispetto, alla dignità dei volti,
dei corpi, delle situazioni che fuoriescono nell’istante preso ai
fotografati e, secondo una visione antropologica dell’immagine,
dove la persona è interprete di una memoria storica/politica di
antica forza e profonda importanza per un intero Paese. Il
fare-fotografia degli ultimi è consacrato a precisare, affinare,
aggiungere, dire ciò che i mutamenti della società esigono... “non
c’è mai disperazione senza un po’ di speranza” (Pier Paolo
Pasolini) e i fotoracconti, i ritratti ambientati, i tagli figurativi
(anche quelli un po’ sgrammaticati) degli esclusi figurano l’odore
del vero di uomini, donne, ragazzi deposti in un sudario amorevole
verso la comunità che viene.
La fotografia degli
esclusi coniuga l’uomo e il mondo in punta di fotocamera e
ricostruisce la vita quotidiana del proprio tempo. Il fotografo può
essere innocente, la fotografia mai! La fotografia così fatta mette
a nudo il cuore suo e quello dei ritrattati e riporta la loro
presenza all’innocenza di un esistere sovente faticoso o ingiusto,
tuttavia è un frammento di realtà che si fa storia. È là dove
avviene la nascita della fotografia autentica che nascono i desideri
di una vita migliore (Pino Bertelli).
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