TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 28 gennaio 2014

Asger Jorn in Italia


mercoledì 15 gennaio 2014

Batte a Savona il cuore del reggae italiano




Raphael. Il cantante e autore ligure, di origini nigeriane, ha da poco pubblicato, per l'etichetta austriaca Irievibrations, un nuovo album solista, "Mind vs Heart". Sonorità roots e un gusto internazionale

Grazia Rita Di Florio

Savona in reggae, ecco il discepolo del Jah sound




Ven­ti­sette anni, tipica capi­glia­tura dread­locks, voce dalla colo­ri­tura cri­stal­lina, Raphael incarna l’ultima gene­ra­zione del reg­gae ita­liano. Per l’esordio soli­sta, il can­tante italo-nigeriano (già lea­der e fon­da­tore della reg­gae band savo­nese Eazy Skan­kerz) ha tro­vato ospi­ta­lità Oltralpe, presso la vien­nese Irie­vi­bra­tions Records, su cui ha rila­sciato il suo Mind­v­sHeart, un disco che si col­loca fon­da­men­tal­mente nel filone roots reg­gae, dal sound deci­sa­mente “euro­peo”, pen­sato e con­fe­zio­nato per un mer­cato inter­na­zio­nale.

“La col­la­bo­ra­zione con l’etichetta è nata dopo che loro ave­vano ascol­tato su You­tube, alcuni pezzi che avevo rea­liz­zato da soli­sta con l’italiana Biz­zarri Records, mi hanno chia­mato per­ché cer­ca­vano una voce che fosse adatta per il mer­cato inter­na­zio­nale, io cer­cavo una pro­du­zione inter­na­zio­nale, e così sono nate le prime col­la­bo­ra­zioni, fino ad arri­vare al con­tratto per que­sto disco, che ho accet­tato molto volentieri.”.

Raphael, si é detto, non é un novi­zio della musica reg­gae ma ha alle spalle undici anni di gavetta nella band fon­data assieme al suo amico d’infanzia, il bas­si­sta Andrea Bot­taro.

“Ho comin­ciato a fare musica a sedici anni, quando alle scuole supe­riori ho rin­con­trato Andrea Bot­taro, un mio amico dell’asilo e insieme abbiamo deciso di for­mare la nostra reg­gae band, Eazy Skan­kers, fac­ciamo parte della seconda ondata del reg­gae ita­liano.”

E aggiunge: ”A Savona, la città dove io sono nato e cre­sciuto, c’erano delle situa­zioni reg­gae nate nel con­te­sto del movi­mento delle Posse degli anni ’90, c’era Briggi Bron­son, che era uno che stava molto avanti, poi c’erano i Sana Pianta, un gruppo reg­gae di punta del savo­nese e quindi siamo cre­sciuti in que­sto ambiente qua, e ne siamo stati influen­zati. Per­ciò abbiamo comin­ciato a fare reg­gae sin da molto pic­coli, ma non abbiamo mai tro­vato un’etichetta dispo­sta a sostenerci..tutto quello che abbiamo fatto con Eazy Skan­kers é mate­riale auto­pro­dotto, anche se abbiamo col­la­bo­ra­zioni pre­sti­giose sia in ambito nazio­nale che inter­na­zio­nale”. 

In realtà, il gusto e la pas­sione per la musica, Raphael li ha ere­di­tati in fami­glia dato che suo padre “ascol­tava musica a 360° gradi”. 

“Mio padre ascol­tava qual­siasi tipo di musica, dall’afrobeat al reg­gae, ascol­tava anche Julio Igle­sias, per dire, e quindi io sono cre­sciuto ascol­tando molta musica in casa, e devo dire che sin da pic­colo il reg­gae era un beat che mi dava un bri­vido speciale..”

Il disco ha una strut­tura solida e fun­ziona deci­sa­mente meglio lad­dove il basso rive­ste la  cen­tra­lità che gli com­pete (ad esem­pio She Cry, Step Out), oppure quando la voce di Raphael si uni­sce a quella del gia­mai­cano Skar­ra­mucci, in una effer­ve­scente trac­cia in bilico tra reg­gae e rag­ga­muf­fin e con un arran­gia­mento irri­spet­toso delle bar­riere tra i generi, o in Step Out con Tiwony com­po­sta e arran­giata con que­sti mede­simi cri­smi; si com­pone di 15 tracce (più tre bonus tracks remi­xate da Mada­ski, dispo­ni­bili in ver­sione digi­tale, estratti dal primo album degli Eazy Skan­kers, To The Foun­da­tion), can­tate in inglese e in patois gia­mai­cano

“l’inglese fa parte del mio back­ground, mi viene più facile scri­vere in inglese che in ita­liano. Poi adesso, con l’introduzione del digi­tale, il mer­cato è più aperto, gli arti­sti ita­liani can­tano in inglese per­ché vogliono essere distri­buiti all’estero, fare con­certi all’estero, è più facile così farsi ascol­tare anche all’estero, nella situa­zione odierna in cui i dischi non si ven­dono più, se dovessi can­tare solo in ita­liano non ci man­ge­rei e non ci paghe­rei le bol­lette. Il mer­cato é cam­biato molto dagli anni’90 quando i gruppi reg­gae ita­liani erano riu­sciti a crearsi un bacino d’utenza, una nicchia,e cam­pa­vano con quello…”.



E poi: “sì, sono stato in Gia­maica, per appro­fon­dire la cono­scenza della musica reg­gae, del patois, e della cul­tura Rasta, per­ché sono inte­res­sato a tutte le reli­gioni. Ma mi inte­ressa la spi­ri­tua­lità, non le reli­gioni come sistemi di pen­siero, come strut­ture orga­niz­zate, per­ché nel momento in cui diven­tano strut­ture orga­niz­zate, diven­tano sistemi che mani­po­lano la mente delle per­sone, anche il Rasta­fa­ria­ne­simo non fa ecce­zione. Non mi inte­res­sano le reli­gioni da que­sto punto di vista qua, sono inu­tili, per­ché tutte hanno in comune l’idea del rispetto per il pros­simo ma poi nes­suna di esse lo mette in pratica…percio’ io sono con­tro tutte le reli­gioni. Però ho una mia spi­ri­tua­lità, penso di essere un buon cri­stiano, i miei geni­tori sono mor­moni e sono cre­sciuto immerso nella cul­tura cri­stiana.” 

Nell’album, l’ombra del rasta­fa­ria­ne­simo sem­bre­rebbe far capo­lino nella trac­cia dal titolo, If Jah Is With You, in cui Raphael in realtà, torna a riflet­tere sui dubbi e le incer­tezze che le gio­vani gene­ra­zioni si tro­vano ad affron­tare nel mondo odierno.

Que­sti 15 testi, fir­mati da Raphael, sono densi, e si con­cen­trano sul deli­cato tema dell’equilibrio inte­riore, e della lotta tra il bene e il male, a parte qual­che diva­ga­zione più leg­gera come ad esem­pio Wine With Me:

“L’ho chia­mato Mind­ v­s Heart, per­ché è una trac­cia che mi rap­pre­senta molto, c’è una forte com­po­nente emo­tiva e intro­spet­tiva, per­ché l’ho scritta men­tre aspet­tavo la nascita di mio figlio, poi ripen­savo alla situa­zione glo­bale, a come vanno le cose. In gene­rale penso che il mes­sag­gio di que­sto disco sia molto con i piedi per terra, Ben Har­per diceva io posso cam­biare il mondo con le mie mani, io no, io penso il con­tra­rio e lo dico sin dall’incipit, non posso cam­biare il mondo con le mie sole mani, per­ché il mondo lo si cam­bia solo se ognuno è dispo­sto a met­tere in discus­sione se stesso. Penso di espri­mere i dubbi e le paure, che qual­siasi ragazzo di 30 anni si trova ad affron­tare oggi. In Sound­bla­ster, per esem­pio, affronto il tema della musica, dell’arte, e dico che se dovessi ragio­nare solo con la testa farei delle scelte di pro­fitto, ma se ascolto il cuore, seguo la pas­sione e fac­cio musica per pas­sione.”

Il disco pre­vede un lungo tour pro­mo­zio­nale, che si sno­derà in giro per l’Italia e per l’anno che verrà anche date all’estero.


Il Manifesto – 3 gennaio 2014

martedì 14 gennaio 2014

Mauro Baracco, Omaggio ad Asgar Elde



E' in corso a Albisola Mare una mostra dedicata ad Asgar Elde, ultimo dei grandi artisti che vissero e lavorarono nella cittadina ligure. Abbiamo chiesto di parlarne a Mauro Baracco, osservatore attento e autorevole di quella storia,che di Elde fu amico e compagno di avventure artistiche.

Mauro Baracco

Omaggio ad Ansgar Elde

Il grazioso epiteto del visconte di Cambronne declinato nella musicale lingua del Cervantes, accoglie i visitatori di “Omaggio ad Ansgar Elde”, la piccola esposizione in corso alla “Signori Arte” di Albissola Marina, saltando fuori da un olio del 1968 con il quale il Maestro svedese/savonese prendeva inequivocabile posizione sulla situazione politica cilena di quel tempo, ignaro come tutti che tempi ben più duri si stavano preparando per quello sfortunato popolo.

Ansgar “ha fatto le valigie” (come recitava il tema di una sua mostra) in quell'orribile 2000 impedendo ai suoi amici ed estimatori di vederlo invecchiare insieme a loro, magari festeggiando insieme i suoi ottanta anni appena trascorsi; se ne è andato con unica compagna di viaggio la sua inseparabile bottiglia di “pessssimo vino” com'egli con buona dose di autoironia sentenziava, lasciando a noi rimasti un ampio bagaglio di stimoli intellettuali ed umani.

Leggiadro ballerino della gioventù, era sceso qui da noi, in quella Albissola nella quale i “furesti” sono di norma considerati con l'antipatica diffidenza del ligure stundaio ma che al contrario presto imparò ad amarlo: le mostre certo erano “strane” ma quest'uomo indubbiamente affascinante era un essere umano tra gli esseri umani, conosciuto in tutte le società operaie laiche e cattoliche della zona, nelle quali si potesse scambiare qualche parola e molti silenzi con uomini proletariamente “perbene”.

Si narra fosse giunto ai nostri lidi invitato da Sassu, ospitato da Jorn e poi si dice che fu' l'erede spirituale del gruppo CO.BR.A.e poi si dice che opere sue siano esposte in spazi d'arte di mezzo mondo e poi si dice e poi si dice e poi si dice .....a chi scrive queste poche righe senza alcuna pretesa di tracciarne un ritratto ed un giudizio artistico, resta il ricordo di una persona gradevole, dalle eterne pause telefoniche, con la quale si poteva girare mezza Italia per andare alla ricerca di un “quadro importante” (..magari una piccola tela..) che andava per forza di cose inserito in una mostra; resta la memoria della sua ricerca di luoghi incontaminati, preferibilmente edifici fatiscenti (..e quindi “bellissssimi”) nei quali esporre opere alla luce di stente candele “...prima che gli architetti le rovinino..” (...mi perdoni la benemerita categoria: mi limito a riferire il suo pensiero...); mi resta il ricordo di un uomo la cui umanità e grandezza dell'operato artistico erano riconosciute ed ampiamente apprezzate, potenza delle “grandezze” che si incontrano...da artisti come Guglielmo Bozzano che da lui “avrebbe dovuto” essere mille miglia lontano.

Simpaticamente, ancora, mi resta il ricordo delle sue mostre dal messaggio fulminante: “Elde fa' le valige” certo e poi “Mostra funerea”, “Circo Elde”,“Barattolata”; il tutto a volte accompagnato da utilissime e tranquillizzanti indicazioni:”...orario precario...”.



Mi resta la sincerità di un'artista rigido con se stesso così come con altri, uso a stroncare senza ipocrisie le esibizioni spudorate di imbrattatele e parvenu della nobile arte: “...questa mostra è una mmmerrrda!”...quanta fatica si è risparmiato il furbone...così come pronto a segnalare giovani seri che ben meritavano e che era doveroso supportare.

Mmmmerrrda...quante volte lo avrebbe scagliato contro tutti coloro che ben potendo e dovendo, siano essi imprenditori sazi o enti pubblici distratti, si dimenticano dei migliori.

Pronti a parlar d'arte quando si tratta di far salotto, si presume di poter fare oculato investimento personale, di fare cosa valida “politicamente” ma del tutto incapaci, in un territorio che molto da loro ha ricevuto, di coltivare la memoria e valorizzare l'opera, due per tutti, di Maestri come Gianni Ferro e Giorgio Bonelli....

...bando ai pensieri cupi...andiamo a vedere la mostra di Ansgar Elde; soffre certo i limiti di una iniziativa di tipo commerciale messa su in poco tempo, poche risorse e non amplia selezione; non possiamo però perderci quel feroce e dolcissimo grido che Ansgar Elde ci offre, prima che...gli dei non vogliano!...possa finire in qualche salotto “perbene” a coltivare il fascino di una trasgressione verbale per nulla compresa.


Omaggio ad Ansgar Elde
Galleria Signori Arte -C.so Bigliati 26
14 dicembre 2013-20 gennaio 2014





mercoledì 8 gennaio 2014

La ragazza col fucile che sorride al mondo



Ci sono foto che colgono un momento storico nella sua essenza è diventano simboli di un'epoca. E' il caso della miliziana di Barcellona fotografata nel 1936 da Hans Gutmann.

Giorgio Amico

La ragazza col fucile che sorride al mondo


Giovanissima e bella, guarda fiduciosa verso il fotografo mentre fucile in spalla monta la guardia sul tetto dell'Hotel Colon di Barcellona, sede della Juventudes Socialistas Unificadas.

E' il 21 luglio 1936. La guerra civile è appena iniziata. Da tutto il mondo arrivano uomini e donne a unirsi alla lotta del popolo spagnolo contro il fascismo, per la libertà, la repubblica, il socialismo.

La ragazza nella foto, diventata con il miliziano morente di Capa un'icona della rivoluzione spagnola, ha 17 anni e si chiama Marina Ginestà. Figlia di spagnoli emigrati in Francia, è partita fra i primi per combattere a fianco del suo popolo e per le sue idee.

La vittoria di Franco la costringe a tornare in Francia assieme a migliaia di combattenti repubblicani. Mentre attraversa i Pirenei vede morire il suo compagno, commissario politico comunista. Una tragedia nella tragedia più grande del popolo spagnolo.

Pochi mesi dopo lo scoppio della guerra e l'arrivo dei nazisti la costringe a una nuova fuga. Assieme a centinaia di esuli antifascisti ed ebrei si imbarca a Marsiglia per l'America latina, prima la Repubblica Dominicana e poi il Venezuela.

Tornerà in Francia dopo la fine della guerra e riprenderà la sua vita di donna.



Solo dopo molti anni scoprirà che quella foto era diventata un simbolo dell'antifascismo. Un'altra foto la ritrae, ancora bella e fiera, tanto simile alla ragazza piena di vita e di orgoglio di quell'estate spagnola.


Marina Ginestà è morta il 6 gennaio 2014 a Parigi. Aveva 94 anni e non aveva mai smesso di credere nella possibilità di un mondo più giusto e migliore.


sabato 4 gennaio 2014

Raffaele K. Salinari, Nar­ciso: lo spec­chio d’acqua




Se davvero siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni allora per riprendere a sognare dobbiamo attraversare lo specchio e tuffarci in noi stessi.

Raffaele K. Salinari

Attraverso lo specchio come fosse acqua (seconda parte)



Nar­ciso: lo spec­chio d’acqua

Se lo spec­chio di Alice diventa una neb­bio­lina, e quello di Orfeo tra­smuta in acqua, nel mito di Nar­ciso è l’acqua stessa che si mate­ria­lizza in spec­chio per farsi riflesso dell’eroe.

Nar­ciso era figlio dell’azzurra ninfa Liríope, che un giorno il dio del fiume Cefiso aveva avvolto nella sua liquida pre­senza, fecon­dan­dola. Liríope, che signi­fica «dagli occhi sfac­ciati», aveva tra­smesso la carat­te­ri­stica del suo sguardo al figlio, che lo usò per ricon­giun­gersi a se stesso.

Il veg­gente Tire­sia aveva detto a Liríope, la prima per­sona che lo avesse mai con­sul­tato: «Nar­ciso vivrà sino a tarda età, pur­ché non cono­sca mai se stesso», curioso capo­vol­gi­mento spe­cu­lare del motto delfico.

E così, men­tre Nar­ciso è nel bosco, si imbatte in una pozza pro­fonda e si acco­sta presso di essa per bere. Non appena vede, per la prima volta nella vita, la sua imma­gine riflessa, si inna­mora per­du­ta­mente del gio­vane che stava fis­sando: è chiaro che il rispec­chia­mento acquo­reo è un ritorno alla sua essenza.

E dun­que Nar­ciso non si inna­mora della sua imma­gine, o non sem­pli­ce­mente almeno, ma della sua stessa acqua riflessa nell’immagine, in altre parole del riflesso imma­gi­nale della sua essenza acquorea.

«E ancora più pro­fondo è il signi­fi­cato della sto­ria di Nar­ciso, che non potendo affer­rare l’immagine dolce e tor­men­tosa che vedeva nella fonte, vi cadde den­tro e annegò. Ma quella stessa imma­gine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. È l’immagine dell’inafferrabile fan­ta­sma della vita, ed è que­sta la chiave di tutto». Così dice Ismaele, la voce nar­rante di Moby Dick.

Ma tutti siamo fatti d’acqua. E allora, per farsi affa­sci­nare dal nostro riflesso biso­gna tuf­far­cisi den­tro, attra­ver­sare lo spec­chio d’acqua, impe­gnarsi più a fondo per­ché l’immaginazione torni a sognare. Così la forza poe­tica, che era debole nel sem­plice gioco dei riflessi super­fi­ciali, si esalta; l’acqua, diven­tata più pesante, più scura, più pro­fonda, più avvol­gente, la «mate­ria­lizza» in noi e per noi all’improvviso.

Lo sguardo acquo­reo di Nar­ciso potrebbe essere quello di ognuno di noi davanti ad uno spec­chio d’acqua riflet­tente: una rêve­rie sulla bel­lezza di noi stessi come parte della bel­lezza del Mondo, della nostra capa­cità di par­te­ci­pare alla bel­lezza del Mondo con la nostra stessa bellezza.
L’immagine fran­tu­mata

Ma lo spec­chio può essere attra­ver­sato anche come decide di fare Lord Pat­chou­gue, pro­ta­go­ni­sta rac­conto del dandy dadai­sta Jac­ques Rigaut, distrug­gendo insieme allo spec­chio l’immagine della sua stessa vita.

«È seduto a un tavo­lino, con­cen­trato su un gioco di pazienza. Esi­ste? È fra due carte, poi è nel pas­sag­gio da una carta a un’altra: è in quell’istante a cui è ridotto l’universo — nove di cuori su dieci di fiori — Fatto. Lord Pat­cho­gue risol­leva il capo, l’universo si rianima.



Le com­parse, da un lato all’altro della stanza, fanno un gran bac­cano. Sul muro di fronte, in una grande spec­chiera, Lord Pat­cho­gue scorge la sua imma­gine, dice: vi rico­no­sco. Non vi ho scam­biato né per uno struzzo né per un river­bero, né per il mio amico Char­les. Siete l’immagine di Lord Pat­chouge, se non addi­rit­tura Lord Pat­chouge in per­sona. Ah! Chi di noi due ha fatto la prima mossa? Chi segue l’altro? Lord Pat­chouge si è alzato. In piedi si esa­mina davanti allo spec­chio: cin­que sensi non bastano ai suoi vicini occa­sio­nali; ancora una volta per­de­ranno lo spet­ta­colo, total­mente impre­pa­rati come sono a per­ce­pire la pros­si­mità di un mistero o pen­sare alla morte.

Lord Pat­chouge e la sua imma­gine si fanno len­ta­mente incon­tro l’una all’altra. Si stu­diano in silen­zio, si fer­mano, s’inchinano. Da quale ver­ti­gine è stato colto Lord Pat­chouge? Fu breve, facile e magico: Lord Pat­chouge si è lan­ciato a testa bassa. Lo spec­chio all’urto, al tra­passo, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall’altra parte. Sono tutti in piedi. Il mera­vi­glioso non è raro, l’incredulità è più forte dei mira­coli. I mira­coli fanno fatica a reclu­tare testi­moni, tanto è esi­guo il numero di coloro dispo­sti a dare la pro­pria ade­sione al sopran­na­tu­rale. Lord Pat­chouge per primo non era poi così sicuro di aver com­piuto il grande passo.

Nes­suno fra quanti gli si rac­co­glie­vano intorno si accorse della stu­pe­fa­cente spa­ri­zione dell’amico. Lo cir­con­da­vano come fosse stato ancora pre­sente, mostra­vano di rico­no­scerlo, di sen­tire la sua voce. Suben­trò tut­ta­via un certo disa­gio. Come mai Lord Pat­chouge non si era ferito più gra­ve­mente? Quel sot­tile, unico taglio di tra­verso sulla fronte non era suf­fi­ciente: non è cosa di tutti i giorni che uno attra­versi impu­ne­mente uno spec­chio; si sareb­bero sen­titi tutti alquanto più sol­le­vati se aves­sero avuto un gran numero di ferite da con­tare con tanto di per­dita di san­gue. Non c’era che una per­sona, la stessa che avrebbe offi­ciato per il resto della serata, a sospet­tare il carat­tere fatale del sot­tile filo rosso che scal­fiva la fronte del Lord. Un mira­colo non viene mai da solo; sa qual è il suo dovere e per­ciò si fa accom­pa­gnare da mani­fe­sta­zioni col­la­te­rali straor­di­na­rie… All’indomani due ope­rai ven­nero a sosti­tuire lo spec­chio. Una volta ter­mi­nato il lavoro, Lord Pat­chouge era scomparso».

Qui il per­so­nag­gio prima rompe lo spec­chio, poi fa in modo di farlo sosti­tuire per non tor­nare mai più, affin­ché la sua imma­gine sia per sem­pre altrove. L’attraversamento-scomparsa di Lord Pat­chouge è quella di un dandy che vive con­sa­pe­vol­mente la sua vita nell’opposizione totale al pro­cesso di svi­luppo bor­ghese e che, con gesto radi­cale, afferma com­piu­ta­mente la sua irriducibilità.



L’uomo di vetro

Seguendo le sug­ge­stioni sugli stati di tra­smu­ta­zione della mate­ria vitrea tro­viamo, all’opposto polare dell’acquoreo spec­chio di Nar­ciso, quello dell’Uomo di vetro di Paul Valéry: qui è una vita che diventa rifesso di se stessa.

In que­sto capi­tolo dal romanzo Una serata con il Signor Teste del 1903 assi­stiamo, per così dire, alla vetri­fi­ca­zione di un uomo, di un testi­mone (Teste), total­mente assor­bito dalla spe­cu­la­zione — dun­que dal rispec­chia­mento — sul suo stesso pen­siero: «Si droite est ma vision, si pure ma sen­sa­tion, si mala­droi­te­ment com­plète ma con­nais­sance, et si déliée, si nette ma repré­sen­ta­tion, et ma science si ache­vée que je me pénè­tre depuis l’extrémité du monde jusqu’à ma parole silen­cieuse; et de l’informe chose qu’on désire se levant, le long de fibres con­nues et de cen­tres ordon­nés, je me suis, je me réponds, je me reflète et me réper­cute, je fré­mis à l’infini des miroirs. Je suis de verre».

«Così retta è la mia visione, così pura la mia sen­sa­zione, così mal­de­stra­mente com­pleta la mia cono­scenza, così sot­tile e nitida la mia rap­pre­sen­ta­zione, e la mia scienza così com­piuta, che io pene­tro me stesso dall’estremità del mondo fino alla mia parola silen­ziosa; e muo­vendo dall’oggetto informe del desi­de­rio che nasce lungo le fibre cono­sciute e i cen­tri ordi­nati, io seguo me stesso, mi rispondo, mi rifletto e riper­cuoto, fremo dinanzi all’infinità degli spec­chi. Io sono di vetro» (tra­du­zione di pb).

«Io sono di vetro», ecco la meta­mor­fosi finale: l’uomo diviene lo spec­chio che egli stesso ha gene­rato con la sua rifles­sione per­spi­cua, con la sua spe­cu­la­zione. L’ultimo attra­ver­sa­mento sarà pene­trarsi dall’estremità del mondo intel­li­gi­bile per tra­smu­tarsi nella sua vitrea essenza, dive­nire la fonte lumi­nosa delle sue rifles­sioni, un puro e tra­spa­rente cri­stallo di lux per­pe­tua nel gioco infi­nito dell’emanazione.

Nel dio­ni­si­smo orfico il dio crea il Mondo osser­vando i suoi pen­sieri allo spec­chio, Tom­maso D’Aquino, nella Summa teo­lo­gica, parla di cla­ri­tas per defi­nire lo stato per­cet­tivo delle cose ultime. Già nella seconda metà del Sei­cento, Per­rault aveva rac­con­tato la sto­ria del signor Orante (dal greco «veg­gente», «mostrante»), tra­sfor­ma­tosi in uno spec­chio vene­ziano per troppa distac­cata obbiettività.



Chi è allora Teste? Un testi­mone, senza dub­bio, di un’epoca tra­scorsa, un indi­vi­duo, per dirla con Wal­ter Ben­ja­min «che, sul punto di attra­ver­sare la soglia della scom­parsa sto­rica, già ombra, risponde un’ultima volta al richiamo della sua iden­tità, prima di tuf­farsi là dove nes­suno più lo aspetta» ma anche l’avanguardia dispe­rata di un mondo del quale i suoi con­tem­po­ra­nei non distin­guono ancora i con­torni, le deter­mi­nanti sim­bo­li­che effettive.

L’uomo di vetro riprende dun­que il sogno eterno dell’ortho­the­ron ble­poi, la «retta visione» cui fa allu­sione Pla­tone ne La Repub­blica e sulla quale Car­te­sio fon­derà la sua axio­lo­gia nel Discorso sul metodo.

È qui che l’affermazione di Teste esprime tutta la sua valenza pro­fe­tica, per­ché l’idea di mas­sima tra­spa­renza, sim­bo­leg­giata dalla sua tra­sfor­ma­zione nel puro spec­chio riflet­tente dei pen­sieri, lungi dall’essere il deli­rio di un sin­golo, è invero l’anticipazione dell’oscuramento del sacro, cifra della moder­nità di matrice giudaico-cristiana.

Di tutte le idee legate alla visione stessa del divino, infatti, la tra­spa­renza è quella che ha subito una dege­ne­ra­zione asso­luta, pro­prio per­ché legata a que­sta sug­ge­stione di iden­ti­fi­ca­zione col Tutto, di ricon­giun­gi­mento tra noi e l’eternità.

Prima della Caduta vi era accesso diretto all’illuminazione divina, nulla ci divi­deva dal Creato. Poi, con l’invenzione del pec­cato ori­gi­nale, della colpa, la luce radiante che tra­sformò la pelle di Mosè in uno spec­chio mistico (Esodo, XXXIV, 29–30), si allon­tanò dall’umanità; San Paolo, il fon­da­tore della teo­lo­gia poli­tica, intro­dusse la meta­fora dello spec­chio affer­mando che si poteva con­tem­plare Dio solo per spe­cu­lum in aenig­mate.

Via via seco­la­riz­zata, ritro­viamo la tra­spa­renza come instru­me­tum regni fil­trata dalle grandi vetrate nell’architettura ascen­sio­nale delle cat­te­drali goti­che descritte da Panof­sky, in cui la mani­fe­sta­tio divina era ora­mai solo allusa, mediata dalle figure dei santi, per arri­vare poi, con la rivo­lu­zione indu­striale, alla mate­ria­lità cor­pu­sco­lare dell’illuminismo ed infine alla società dello Spet­ta­colo che l’ha pro­gres­si­va­mente cat­tu­rata nei neon dei cen­tri com­mer­ciali, ora­mai stru­mento con­sen­suale ed inap­pel­la­bile del domi­nio mediatico-politico libe­ri­sta di altri idoli total­mente seco­la­riz­zati e desacralizzati.

Per que­stoPaul Viri­lio parla di un acce­ca­mento del nostro psi­chi­smo, che si è ulte­rior­mente aggra­vato sino alla elu­sione ottica di cui parla il geo­grafo Franco Fari­nelli — com­men­tando l’assenza di foto­gra­fie auten­ti­che del cada­vere di Bin Laden — in cui «ogni rela­zione tra quel che vediamo e quel che accade è messa tal­mente in forse da essere due cose che non sol­tanto non hanno tra loro nes­sun neces­sa­rio rap­porto ma si oppon­gono al punto da ride­fi­nire pro­prio in tale oppo­si­zione la natura della realtà».

A dif­fe­renza dell’intimo e discreto fre­mito ema­nante dal vetro di Mon­sieur Teste, que­sta tra­spa­renza oscu­rante deve, nell’era mediatico-politica, essere mostrata ed esi­bita in pub­blico affin­ché il suo display possa garan­tire non più l’accesso all’epifania del divino, ma l’opacità asso­luta del domi­nio effettivo.

Ma, forse, senza sco­mo­dare i poeti e le anti­che Potenze, come forma essen­ziale della nostra re-esistenza per­so­nale e col­let­tiva, baste­rebbe che ognuno di noi tor­nasse con la memo­ria a quando, bam­bini, ci met­te­vamo in mezzo a due spec­chi e cer­ca­vamo di vedere dove finiva la nostra imma­gine riflessa verso l’infinito per rivi­vere l’incantesimo dell’attraversamento e ritro­vare un poco della nostra tra­spa­renza interiore.


Il Manifesto – 20 dicembre 2013


Ritorno ad Itaca (Le illusioni d'Itaca, 12)



Tutto finisce come era incominciato, senza alcuna logica.

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

11. Ritorno ad Itaca



Si ritrovò davanti al Solea che era pomeriggio inoltrato. La calura, sino ad allora tanto intensa da rendere semideserte le strade, stava lentamente scemando. Spinse la porta ed entrò. La donna dai capelli grigi era lì. Seduta ad un tavolo, annotava qualcosa su un registro. Come lo vide entrare ripose il quaderno, si alzò e gli si avvicinò.
  • L’ attendevo. Ero sicura che sarebbe tornato. Cosa posso fare per lei?
  • Mi aiuti a trovare Giulia. Non le chiedo altro.
  • Perché la cerca?
Non gli era mai piaciuto parlare di sé, né che gli altri si interessassero troppo da vicino delle sue cose, ma quella donna non più giovane seduta davanti a lui riusciva con la sola sua presenza a trasmettergli una sensazione di serenità, a rassicurarlo. La guardava e non trovava nel suo aspetto nulla che potesse più colpire l’attenzione di un uomo, ma qualcosa comunque emanava da lei che non lo lasciava indifferente. Sarà stata la voce roca, l’atteggiamento disincantato di chi ha molto vissuto o il modo particolare che aveva di guardare l’altro dritto negli occhi, ma quella donna esercitava su di lui un fascino sottile. Non avrebbe saputo spiegarne il perché, ma era così.
  • Assomiglia a Giulia. – pensò – Ha lo stesso sguardo.
Notò che la donna fissava con insistenza l‘orecchino che portava al lobo dell’orecchio sinistro. Un piccolo cerchietto d’oro, da marinaio.
  • È un regalo di Giulia, di tanti anni fa. – spiegò – Non me ne sono mai separato.
Ricordava perfettamente l’occasione di quel dono. Erano in campagna. Un pomeriggio d’estate di tanti anni prima. Il tempo all’improvviso era cambiato ed ora minacciava tempesta. Nuvole cariche di pioggia avanzavano dal mare. Guardavano il cielo e affrettavano il passo lungo il sentiero che tagliava per i campi. Poi venne la pioggia, Si erano riparati in un vecchio casolare in rovina. Un povero rifugio, ma bastante a dar loro ricovero dall’imperversare della temporale.
  • Mi ami? – aveva chiesto lei.
  • Perché me lo chiedi ?
Non aveva risposto. Poi, con un solo gesto si era sfilata uno degli orecchini che portava: un piccolo cerchietto dorato.
  • Tieni. Portalo sempre con te. Anche quando non mi amerai più.
L’aveva presa così, in piedi, contro la parete di pietra. Con le vesti ancora fradice di pioggia, lei si era abbandonata interamente alle sue carezze. Si erano amati con disperazione, travolti dal crepitio della pioggia, eccitati dal furore primordiale della natura attorno a loro. Ansanti, dall’ uscio avevano visto il cielo tornare azzurro, ma dentro di loro ancora albergava la tempesta. Avevano percorso il tragitto verso la città in silenzio, interamente presi dal mistero terribile di ciò che era loro accaduto.


  • Pensa di amare ancora Giulia? – La voce della donna lo riportò al presente.
Non si sentiva ancora pronto a scendere su quel terreno. A mettersi tanto a nudo. Rispose con poche frasi banali.
  • Non lo so. Come si fa a dire una cosa simile ? È passato tanto tempo da allora. Troppo tempo. Forse quello che voglio è solo il suo perdono. Sentirmi finalmente in pace.
  • Non è questo il problema. E lei lo sa benissimo. – La voce di lei era diventata dura – Se le cose stanno veramente così, se questo è ciò che lei veramente desidera, allora sta sprecando il suo tempo ed il mio.
Provò a dire qualcosa, ma lei non gliene lasciò il tempo.
  • Se è così, lasci perdere Giulia. Non la faccia ancora soffrire. Ha già sofferto abbastanza. Non crede?
Si sentì toccato nel profondo. Per mascherare il turbamento che lo aveva preso estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette e lentamente se ne accese una.
  • Si fa presto a dire amore.
Ma amore è una parola strana, dai molti significati. Può significare anche paura. Paura di perdere la propria libertà, di dover rinunciare ai propri sogni. Timore di restare prigionieri di una felicità illusoria, di un’ebbrezza passeggera. Provò a giustificarsi.
  • Ero molto giovane allora. A quell’età si crede di avere le idee chiare. Di aver capito tutto.
  • Anche Giulia era giovane. Eppure…
Con parole incerte confessò finalmente il suo peccato. Non aver capito che è l’amore che rende forti gli uomini, che li fa capaci di reggere il peso della vita, di riconoscersi negli altri umani, di accettare la propria debolezza.

  • Credevo che l’amore per Giulia mi rendesse debole, mi distogliesse da ciò che dovevo fare, da ciò che era giusto fare. E così l’ ho lasciata, ho rovinato la sua vita e anche la mia.
Lei l’ascoltava in silenzio. Lasciava che il suo dolore prendesse forma compiuta, diventasse parola.

Parlò a lungo mentre il pomeriggio lentamente passava. Le raccontò della sua vita per mare, del suo errare inquieto, dei libri scritti, delle città dove aveva vissuto, della solitudine che lo aveva accompagnato per tutti quegli anni. Di Giulia sempre presente nella sua mente
  • Deve amarla ancora molto, per parlare così.
Non riuscì più a trattenersi. Non poteva ancora fingere con gli altri, ingannare sé stesso.
  • Giulia è la mia vita.
  • Anche lei lo pensa.
  • Ha parlato con lei? Quando?
  • Un paio di giorni fa. E’ stata lei a chiamare. Mi ha raccontato tutto del vostro incontro.
  • Com’era la sua voce?
  • Come di chi, dopo aver compiuto un lungo cammino, sia giunto finalmente alla sua meta.
  • Ma allora, perché fuggire ? Nascondersi in questo modo?
  • Aveva bisogno di riflettere, di capire. Voleva essere sicura.
  • E ora? Cosa devo fare?
  • Nulla. La chiami. Giulia l’aspetta. Ecco: le do il suo recapito.
Quando aveva sentito la sua voce all’altro capo del telefono un’emozione inesprimibile lo aveva preso.
  • Ciao Giulia, sono io, volevo dirti..
Lei l’aveva dolcemente zittito.
  • Non ora. Ci sarà tempo. Ti aspetto. Qui, nel bar dietro il mercato.
  • Ti amo Giulia. Ti ho sempre amato.
  • Lo so. Vieni. Non tardare.
Più tardi, mentre tornava verso il suo albergo, immerso nella folla della sera, pensava che la sua vita era stata un lungo, accidentato viaggio. Alla ricerca della sua Itaca di sogno. Come nella poesia di Kavafis.

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,

fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
(…)
Né Lestrigoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.

Novello Ulisse tornava finalmente alla sua casa, dopo aver scacciato i fantasmi che avevano torturato il suo cuore, che avevano reso lungo e tormentato il suo viaggio. Tornava alla sua Itaca di carne reso saggio dal dolore, capace finalmente di amore. Al termine di quel cammino Giulia lo attendeva, sereno porto di quiete. Antica come la terra, forte come la montagna.

Itaca t’ ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.

E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.

E mentre il suo cuore gioiva, il cielo sopra Marsiglia prendeva fuoco nella luce del tramonto.


Epilogo

Superata l'ultima galleria, gli apparve il piazzale dell'ex-dogana come sempre ingombro di camion e di camper. Era di nuovo in Italia adesso. Gettò uno sguardo distratto sulle vecchie caserme, sul greto sassoso del Roja avvolto dalle ombre. Alla sua destra dietro le antiche mura della città vecchia, alta sulla collina, la Cattedrale biancheggiava nella calda sera estiva. Ora l'auto correva sull'autostrada punteggiata di gallerie e viadotti, sospesa tra il mare da un lato e le colline brulle ricoperte di serre dall'altro. Accese la radio. Si sentiva sereno. Tornava da Giulia e intanto ascoltava Georges Brassens cantare Les Lilas. 

Aux cours où son cheval passe

L’amour ne repousse pas
Aux quatre Coins de l’espace
Il fait l’desert sous ses pas.

Alors nous amours sont mortes
Envolées dans l’au-delà
Laissant la clè sous la porte
Sous la porte des Lilas.

(“Dove passa il suo cavallo/l’amore non rinasce/Ai quattro angoli dello spazio/fa il deserto sotto i suoi passi./Allora i nostri amori sono morti/ volati via nell’aldilà/ Lasciando la chiave sotto la porta/ Sotto la porta dei Lillà.”)

Gli piaceva Brassens. Gli era sempre piaciuto. Le sue canzoni erano uno sghignazzo rivolto contro il moralismo ipocrita della gente perbene. Una pietra scagliata contro il conformismo dei benpensanti. Gli ricordavano i suoi sogni giovanili. La sua voglia di ribellione. Il gusto della trasgressione. Il sapore aspro della verità. La sincerità negli occhi di Giulia.

Andava sull’autostrada grigia e per la prima volta i ricordi non gli facevano più paura. Finalmente sapeva quale era la via giusta per uscire dal caos che era stata fino allora la sua vita. Di nuovo provava sentimenti. Non si vergognava più della sua debolezza. Non sentiva più il bisogno di fuggire. Antica come la sua terra, Giulia lo aspettava. Perdersi in lei: questo era ciò che voleva, che aveva sempre voluto. Giulia era la libertà. Il sogno inseguito sui mari, intravisto nei porti, perso nelle notti fumose, ritrovato nelle albe sanguinanti. Lei e nient’altro nella sua mente.

Correva sull’autostrada mentre sul mare di Liguria lentamente da Oriente si alzava la luna. Pensava a loro due di nuovo insieme. A cosa sarebbe stata la loro vita. Ad un nuovo inizio, dopo tanti anni. Ma forse, in realtà, non era mai finita fra loro. Forse nulla va mai veramente perduto. Pensava a tutto questo e a Giulia. Rivedeva la vecchia casa sulla collina e nella brezza salmastra, che lieve saliva dal mare, si sentiva finalmente parte di quella terra aspra di confine. La terra dei suoi vecchi, la sua terra.

Si accorse solo all'ultimo momento del camion messo di traverso sulla carreggiata proprio all’uscita della lunga galleria. Frenò d'istinto. Il colpo lo prese all'improvviso da dietro. La macchina iniziò a sbandare sempre più forte, sbatté contro il guard-rail, poi si mise a girare su stessa come impazzita. Stringeva il volante con tutte le sue forze, ma non serviva a nulla. Il camion si faceva sempre più vicino, sempre più grande. Ora incombeva gigantesco su di lui.

Lo schianto fu terribile.

Non provava dolore, ma nel torpore che lo aveva preso faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Non capiva più bene dove fosse. Sentiva voci concitate attorno a sé, mentre sempre più forte si faceva il suono delle sirene. Poi, lentamente, i rumori si acquietarono fino a sparire. E all’improvviso, in una luce strana che non era più quella dell'estate, gli parve di vedere Giulia venirgli incontro, sorridente come in quel mattino di primavera di tanti anni prima.
  • Sto per morire - pensò.
Ma non aveva paura. Non più. Adesso che Giulia era con lui.

Nel piccolo caffè dietro al mercato Giulia si affannava al banco a servire gli ultimi clienti della giornata. Mancavano ormai pochi minuti all’ora di chiusura del locale.

Dal televisore, alto in un angolo, giungevano gli echi del telegiornale, frammenti di notizie:

Un morto oggi sull'autostrada in un incidente che ha coinvolto diverse autovetture e un autoarticolato francese nei presso dell'ex barriera di confine. Il traffico è rimasto interrotto per oltre due ore in direzione di Genova.”

Giulia non ascoltava, pensava a lui che dopo tanto tempo era tornato. A lui che stava per arrivare.

Fuori, nel silenzio del mercato ormai deserto il gatto nero dormiva accoccolato in un angolo, ignaro delle sofferenze degli umani.



venerdì 3 gennaio 2014

Raffaele K. Salinari, Attraverso lo specchio come fosse acqua



Ci vuole del coraggio per fare come Alice, perchè attraversare lo spec­chio vuol dire ritro­varsi o per­dersi dall’altra parte. Prima parte di un testo (davvero molto bello) di Raffaele Salinari apparso sul Manifesto alla fine dell'anno scorso.

Raffaele K. Salinari

Attraverso lo specchio come fosse acqua


«Fin­giamo di poterci entrare, Fru­frù, fin­giamo che lo spec­chio sia mor­bido come un velo, e che si possa attra­ver­sare. To’, adesso sta diven­tando come una spe­cie di neb­bia… Entrarci è la cosa più facile del mondo».

Ed ecco che Alice attra­versa lo spec­chio, diven­tato magi­ca­mente fluido, per ritro­varsi in un altro spa­zio tempo; una imma­gine affa­sci­nate, ripresa in altret­tante varianti da decine di rac­conti e pellicole.

Pura fan­ta­sia? Niente affatto: ma allora, è pos­si­bile attra­ver­sare uno spec­chio come accade all’eroina di Lewis Carrol?

La rispo­sta, mira­bile dictu, è affer­ma­tiva: è la strut­tura stessa dello spec­chio che ci dà modo di gio­care con il poten­ziale di que­sta imma­gine poi­ché, come con­stata Alice, il vetro è un fluido, una spe­cie di neb­bio­lina appunto, sep­pure di altis­sima visco­sità e con legami inter­mo­le­co­lari ed attriti che ne man­ten­gono inal­te­rata la forma per lun­ghis­simi periodi; la sua natura essen­ziale è quella di un liquido sot­to­raf­fred­dato con una cri­stal­liz­za­zione irre­go­lare, più o meno densa, come un’altra entità che molto gli asso­mi­glia: il tempo.

Rilke, nel terzo dei suoi Sonetti a Orfeo, canta il mistero di que­sta ana­lo­gia: «Spec­chi, nes­suno mai coscien­te­mente ha descritto la vostra vera essenza. Voi, inter­valli del tempo, cri­velli fitti di innu­me­re­voli buchi» men­tre Bor­ges, il grande poeta spa­ven­tato dagli spec­chi, prova a descri­verne i con­fini: «Dove fini­sce e ini­zia, ina­bi­ta­bile, l’impossibile spa­zio dei riflessi».

Anche Giano, il dio bifronte le cui facce guar­da­vano verso tempi diversi, viene rap­pre­sen­tato con volto spe­cu­lare: due occhi con­dan­nati a non guar­darsi mai.

E allora, in attesa di tran­si­tare fat­tual­mente attra­verso l’impossibile spa­zio dei riflessi bor­ghe­siani, noi pro­ce­diamo quo­ti­dia­na­mente verso un altro pas­sag­gio: non nella mate­ria spec­chiale, ma nel tempo, anch’esso un fluido dalla natura fram­men­ta­ria. Spec­chian­doci, infatti, cosa vediamo se non il flusso del tempo che passa? C’è da chie­dersi se que­sto avviene per­ché lo spec­chio, come gli oro­logi molli di Dalí, flui­sce lui stesso.

L’ingannevole con­ti­nuüm della vitrea mate­ria, erra­tico come lo è il tempo, riflette così esat­ta­mente la rela­zione tra Kro­nos e Kai­ros, le facce spe­cu­lari che adden­sano o dila­tano il suo corso. Lo spec­chio si mostra dun­que era­cli­teo, come l’acqua del fiume: in esso si riflette per­fet­ta­mente il panta rei, il tutto che scorre. Non si può mirare due volte lo stesso spec­chio poi­ché anche l’immagine che esso rimanda è sem­pre diversa, eppure familiare.

È così l’attraversamento dello spa­zio tempo spec­chiale crea Das Unheim­li­che, il «per­tur­bante», come lo defi­niva Freud, cioè quel sen­ti­mento che nasce da ciò che viene per­ce­pito come pos­si­bile ed impos­si­bile al tempo stesso, come un sot­tile quanto avver­ti­bile scol­la­mento della realtà.
Attra­verso lo specchio

Ma se la mate­ria dello spec­chio non è omo­ge­nea in tutte le sue parti, pos­siamo pure imma­gi­nare che le sue linee di rot­tura, o di attra­ver­sa­mento, sono sem­pre diverse, spe­ci­fi­che, in qual­che modo cor­re­late con chi lo attra­versa o lo frantuma.

E dun­que non c’è un solo modo di fran­tu­mare o attra­ver­sare lo spec­chio: ad ognuno il suo. È que­sta, a ben vedere, la costante che ritro­viamo in tutta la let­te­ra­tura e nella cine­ma­to­gra­fia del genere: la natura del tran­sito, o della rot­tura, non è sem­pli­ce­mente fun­zione della forma o della den­sità dello spec­chio, ma dipende altresì dall’inclinazione dell’attraversatore, dal suo cli­na­men; come nell’Opus magnum del pro­cesso alche­mico l’intento dell’operatore influenza la mate­ria ope­rata, e vice versa.
Lo spec­chio che si attra­versa o si fran­tuma per ritro­varsi o per­dersi dall’altra parte, non è allora l’algido e distante oggetto del verso di Mal­larmé: «Oh spec­chio, fredda acqua della noia nel tuo riqua­dro gelato…», bensì lo Spe­cu­lum majus di Vin­cent de Beau­vais, morto nel 1264 che, nell’omonima enci­clo­pe­dica opera, descrive il Mondo quale immenso tea­tro catrot­tico in cui il Tutto si spec­chia nel pro­prio riflesso, dove la Natura natu­rans di Gior­dano Bruno e Spi­noza si riflette, senza decre­scere, nella Natura natu­rata dell’uomo.

Secondo Mae­stro Eckart (XVI sec.): «Il riflesso dello spec­chio nella luce del sole è nel sole stesso; eppure sole e spec­chio restano quello che sono. Lo stesso accade per Dio: egli si trova nell’anima… eppure non è nell’anima, è il riflesso dell’anima che è in Dio… Dio diventa così ogni creatura».

In que­sta visione del mistico medioe­vale tro­viamo tutte le com­po­nenti imma­gi­nali dello Spe­cu­lum majus, quello che attra­ver­se­ranno per­so­naggi let­te­rari come Alice e Lord Pat­chouge, o cine­ma­to­gra­fici quali Orfeo ed il Poeta di Coc­teau, dei comics come Man­drake in lotta con­tro il mal­va­gio popolo degli spec­chi, o ancora quello in cui si tra­sfor­merà L’uomo di vetro di Paul Valéry.

Lo spec­chio di que­sti per­so­naggi non solo si lascia attra­ver­sare, ma si fa attra­ver­sare, accor­dando la pro­pria natura a quella dell’attraversatore; così come lo sguardo del dio di Mae­stro Eckart tra­smuta il suo stesso vedere nel vedere di chi lo guarda.

Il tempo e lo stato fisico dello spec­chio diven­tano così tutt’uno con l’intento dell’attraversamento: in que­sto istante pre­ciso, in que­sto kai­ros, ci si ritrova di fronte a que­sto spec­chio, e non ad un altro, che ora ricom­bina la sua natura con quella del suo attra­ver­sa­tore, si fa attra­ver­sare attra­ver­san­dolo, mutando la con­si­stenza degli stati fisici che può assu­mere: liquido, solido, gassoso.



Tra­smu­ta­zione specchiale

E allora, diversi sono i modi di attra­ver­sa­mento e le con­se­guenti tra­sfor­ma­zioni di stato. Il pas­sag­gio di Alice è in moda­lità subli­mata, cioè dal solido al gas­soso diret­ta­mente: «Alice stava sulla men­sola del cami­netto men­tre diceva così, seb­bene non sapesse spie­garsi come fosse arri­vata lassù. E certo il cri­stallo comin­ciava a sva­nire, come una neb­bia lucente. L’istante dopo Alice attra­ver­sava lo spec­chio e sal­tava agil­mente nella stanza di die­tro. La prima cosa che fece fu di guar­dare se ci fosse il fuoco nel cami­netto, e fu tanto con­tenta di vedere che ce n’era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto».

La sug­ge­stione è tal­mente forte che anche Topo­lino, in un cor­to­me­trag­gio del 1936, attra­versa lo spec­chio come Alice, que­sta volta in moda­lità liquida, cioè tuf­fan­do­cisi den­tro, per tro­varsi poi in un mondo fia­be­sco di oggetti animati.

L’onirismo del tuffo attra­verso lo spec­chio ridi­ve­nuto liquido mercé la sua capa­cità tra­smu­tante è ancora più accen­tuato ed espli­cito in due film di Cocteau.

Uno è Il san­gue di un poeta del 1930. Ecco la sto­ria: un pit­tore dipinge un volto sulla tela appena abboz­zata. Improv­vi­sa­mente la bocca del dise­gno si mette a par­lare; il pit­tore cerca di farla tacere, ma le lab­bra gli segnano il palmo della mano. Dispe­rato le imprime su di una sta­tua che, anch’essa, comin­cia a par­lare: dice insi­sten­te­mente al pit­tore di attra­ver­sare uno spec­chio se vuole libe­rarsi di lei.

La sta­tua: «Ti resta una via d’uscita. Entrare nello spec­chio e pas­sare di là».
Il poeta: «Non si entra negli specchi».
La sta­tua: «Prova, prova sempre».

Dap­prima esi­tante, il pit­tore tasta la con­si­stenza vitrea dello spec­chio poi, seguendo le sug­ge­stioni della sta­tua, sale su una sedia e, ad un tratto, si tuffa nello spec­chio dive­nuto improv­vi­sa­mente liquido e lo attra­versa, ritro­van­dosi in un mondo oni­rico dal quale rie­mer­gerà, riat­tra­ver­sando lo spec­chio, per infine distrug­gere la sta­tua e tra­sfor­marsi in essa.

Par­ti­co­lare inte­res­sante, in una delle stanze che il poeta scru­terà nel suo viag­gio allu­ci­nato, si vede una bam­bina che sale su un cami­netto, come Alice.

«Con Le sang d’un poéte ho pro­vato a girare la poe­sia come i fra­telli Wil­liam­son hanno girato il fondo del mare. Si trat­tava di spro­fon­dare in me stesso, nella mia notte, la cam­pana subac­quea ch’essi cala­vano giù nel mare a grande pro­fon­dità. Biso­gnava sor­pren­dere lo stato poe­tico di cui molti negano l’esistenza… Natu­ral­mente è molto dif­fi­cile avvi­ci­nare la poe­sia… non vi nascondo che ho ado­pe­rato dei truc­chi per ren­dere la poe­sia vedi­bile e udi­bile». (J. Coc­teau, con­fe­renza al Teatro Vieux-Colombier prima della pro­ie­zione del film, 1932).

Ed infine, lo stesso Coc­teau torna sull’attraversamento dello spec­chio in Orfeo. Ambien­tato nella Parigi anni cin­quanta, Euri­dice muore in un inci­dente stra­dale. Un miste­rioso per­so­nag­gio, Heu­ter­bise, una sorta di angelo custode del poeta, aiuta Orfeo ad attra­ver­sare uno spec­chio per­ché egli possa recarsi nell’aldilà e ripor­tare indie­tro sua moglie. Gli fa indos­sare dei guanti e gli dice: «Adesso voi attra­ver­se­rete lo spec­chio come fosse acqua, pro­vate». Allo sguardo atto­nito di Orfeo, con­ti­nua: «Vi rivelo il segreto dei segreti: gli spec­chi sono le porte attra­verso le quali la morte viene e va. Del resto, guar­da­tevi tutta la vita in uno spec­chio e vedrete la morte lavo­rare come api in un alveare di vetro».

Orfeo, spinto dal suo men­tore, pene­tra a que­sto punto nello spec­chio, dap­prima esi­tando con la punta delle dita rico­perte dai guanti.

A detta di Coc­teau lo spec­chio nel quale si tuffa il pro­ta­go­ni­sta di Le sang d’un poéte era costi­tuito, per ren­dere l’effetto di un vero e pro­prio attra­ver­sa­mento in un liquido, da una vasca di mer­cu­rio in cui si immerge l’attore! Qual­che anno dopo Jean Marais, nella parte di Orfeo, si limi­terà a immer­gere nel mer­cu­rio solo le dita guantate.

Il Manifesto – 20 dicembre 2013


(continua)

I giardini del faro (Le illusioni d'Itaca, 11)



A Marsiglia il marinaio senza nome scopre che inseguire un sogno può portare a ritrovare se stessi.

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

11. I giardini del Faro



Lo svegliarono le grida delle pescivendole sulla banchina, l’animato frastuono del mercato e il rumore del traffico sul Quai des Belges. Si alzò e uscì sul balcone. Sotto di lui, raccolte in file ordinate, centinaia di imbarcazioni si dondolavano sotto il sole. Più avanti, quasi all’imboccatura del Vieux-Port, un battello diretto alle isole lasciava dietro di sè una scia spumosa. Accese la radio e si sintonizzò su una stazione che trasmetteva musica. Bruce Springsteen cantava “ Dry lightning”.

I threw my robe in the morning
Watched the ring on the stove turn red
Stared hypnotized into a cup of coffee
Pulled on my boots and made the bed
Screen door hangin’ off its hinges
Kept bangin’ me awake all night
As I look out the window
The only thing in sight
Is dry lightning on the orizon line
Just dry lightning and you on my mind.

(“Mi sono tolto il pigiama nel mattino/Ho osservato la stufa diventare rossa/Ho fissato in trance una tazza di caffè/Mi sono messo le scarpe e ho rifatto il letto/Riparo la porta tremolante sui suoi cardini/Che mi ha tenuto sveglio sbattendo tutta la notte/Come guardo fuori della finestra/La sola cosa in vista/E’ l’alba fredda sulla linea dell’orizzonte/Solo l’alba fredda e tu nella mia mente”)
  • E tu per sempre nella mia mente – ripeté.
Il cielo di Marsiglia quel mattino aveva il colore delle grandi occasioni. Una luce dorata entrava dal balcone e si diffondeva nella stanza. Si sentiva bene. Era parecchio che non gli capitava. L’incontro con il vecchio clochard lo aveva messo di buon umore. Aveva fame. La sera prima, preso dalle sue ossessioni, non aveva praticamente cenato. Alzò il ricevitore, chiamò il bar e si raccomandò che gli mandassero su una colazione all’americana. Poi lasciò che una lunga doccia cancellasse le ultime tracce della notte.

Appena fuori dall’albergo fu abbagliato dal sole. La giornata era calda, ma ventilata. Dal largo il vento di mare portava strani odori che si mescolavano a quelli del mercato. Gli salirono alle labbra versi di poeti, echi di canzoni che parlavano dei profumi di Marsiglia: garofano pepato, basilico e coriandolo, pepe e cannella. L’anima profonda del Mediterraneo, racchiusa interamente in quegli odori, in quelle luci, in quei suoni, pigramente gli si disvelava. Sensazioni simili doveva aver provato Gyptis, la bellissima principessa ligure, quando dal mare era giunto il greco Protis. Dal loro amore, dall'unione della terra con il mare, era nata quella città.



Decise di andare a piedi. Di lasciare l’auto nel grande parcheggio sotterraneo dell’hotel. Aveva voglia di camminare. Gli serviva a far chiarezza nei suoi pensieri. Si avviò per la Canebière fino all’incrocio con il Boulevard Garibaldi. Ne percorse un tratto, poi svoltò a sinistra e si trovò in Cours Julien. La strada ora saliva in direzione di Notre-Dame –du-Mont. La percorse tutta, quasi fino all’ingresso della stazione del metrò.

Ora che la serranda era sollevata, il Solea gli appariva per quello che era realmente: un piccolo ristorante piuttosto anonimo. Eguale a tanti altri in quella città di mare. Si fermò un attimo a leggere la Carte che presentava una curiosa mescolanza di piatti provenzali e corsi: bouillabaisse avec rouille, bourride, catigau, tripes, figatelli, brocciu. Sulla porta un cartello avvertiva che in quel locale si parlava italiano.

Spinse la porta ed entrò. La stanza era in penombra con i tavoli ancora da apparecchiare. Dalla cucina venivano odori di cibo, echi di voci. Una donna minuta dai capelli grigi entrò d’improvviso nella sala, lo vide e gli si avvicinò asciugandosi le mani nel grembiule bianco che le cingeva la vita. Sul suo viso un’aria interrogativa.
  • Excusez-moi, monsieur, mais le restaurant il est encore fermé.
  • Cerco Giulia. Mi hanno detto che forse qui posso trovarla.
  • Chi è lei? – la donna ora parlava italiano.
  • Un amico. Un amico di Giulia.
La donna lo squadrò con attenzione.
  • Lei deve essere il marinaio. Il grande amore di Giulia.
  • Sì, il grande amore. – disse lui non senza sarcasmo – Non più tardi di due giorni fa Giulia ha detto di odiarmi.
  • A volte l’amore si confonde con l’odio.
Non sapeva cosa dire. Restò in silenzio in piedi sull’uscio.
  • Giulia non è qui. – riprese la donna - Ma mi ha parlato molto di lei e forse posso esserle di aiuto. Ora non ho tempo da dedicarle. Mi dispiace, ma ho troppo da fare. Se vuole ripassare più tardi, nel pomeriggio, quando i clienti saranno andati via, potremo parlare con calma.
Si trovò fuori, di nuovo immerso nell’afa. Davanti a lui ancora una giornata da far trascorrere. Tanto valeva tornare al Vieux-Port. Andò fino in Place Cezanne, fermò un taxi e si fece portare al vecchio bacino di carenaggio all’inizio del Boulevard Livon, proprio sotto il Forte St. Nicolas. Costeggiò le mura della antica fortificazione, passò davanti al Circolo dei Canottieri e si diresse verso i giardini del Faro da dove si poteva abbracciare con uno sguardo tutta la città vecchia. Vedeva il Forte Saint- Jean, vecchio ricetto templare, e dietro la cupola falsoantica di Notre-Dame-de-la-Major. Più dietro ancora le strutture (in parte fatiscenti) del porto della Joliette protette dal grande sbarramento della Digue du Large. E più in alto, dritto sulla collina, il campanile delle Accoules.

Lasciò vagare lo sguardo sul mare, di nuovo perso nei suoi ricordi. Amava quel luogo. C’era venuto una volta con Giulia, tanti anni prima. Si erano seduti su di una panchina protetta da una odorosa siepe di oleandri ed erano rimasti a lungo in silenzio a fissare il mare, totalmente presi dalla magia di quella città che strega chi vuole perdere. Girando per i quartieri attorno al Vieux-Port lui le aveva raccontato vecchie storie sul “milieu”. Storie ascoltate nelle sere trascorse all’osteria del suo paese. Fiabe di vecchi emigranti incapaci di staccarsi dai ricordi della loro gioventù. Racconto delle gesta di uomini “d’onore” ai tempi in cui i “caids” della mala si erano spartiti la città e i suoi traffici. Ai corsi tutta la zona a ridosso della Canebière fra il Vieux-Port e il Boulevard de Paris. Ai catalani quella compresa fra la Canebière e il forte St-Nicolas. La città alta territorio degli italiani.



Avevano mangiato in un vecchio bistrot. Pochi tavolini all’aperto in una piazzetta alberata proprio dietro al Vieux-Port. Giulia aveva ordinato il piatto che costava meno: boulettes e alouettes in salsa, con la pasta come contorno. Un mangiare semplice e antico, come semplice e antico era il quartiere che li circondava. Lui si era perso nello specchio chiaro dei suoi occhi.
  • Mi piacciono le tue mani. – le aveva detto – mi sono sempre piaciute.
Giulia aveva sorriso. Con un movimento impacciato lui aveva spinto verso di lei un anellino da pochi soldi. Il suo primo regalo.
Vicino a loro sulla piazza sotto i platani dei vecchi giocavano alle bocce. Giocavano in quattro, due per squadra, mentre una decina d’altri stavano attorno a guardare.
Da come fecero l’amore più tardi nella pensioncina che li ospitava lui capì che anche Giulia era rimasta colpita dal fascino di quella città strana. Sul letto in disordine i loro corpi si intrecciavano come nuvole nel vento d’estate. Sotto le sue carezze lei si apriva come un fiore sotto la pioggia.
  • Non accendere. – le disse quando ebbero finito – Voglio ricordarti così, come sei in quest’attimo.
Nel buio della camera brillava il suo volto. Non gli occorreva altra luce. Poi la notte li prese.
  • Sei sveglio? – la sentì dire. 


Accanto alla finestra aperta, Giulia spiava il levarsi dell’alba. Le si avvicinò. La sua mano ora stava sotto il suo liscio seno tondo. Sentiva il suo cuore battere. Con il volto affondato nella massa scura dei suoi capelli, respirava il suo profumo. La sua pelle sapeva di mare e di vento. Le porte di diaspro dell’alba si spalancarono all’improvviso dinnanzi a loro. Di colpo il cielo sui tetti divenne chiaro. Stretti l’uno all’altra, lo sguardo sperso lontano, oltre il canyon scuro del vicolo, verso lo spicchio di mare che si indovinava sullo sfondo, erano una cosa sola.

Alto, nel cielo bianco sopra Marsiglia, lo stridio dei gabbiani pareva il pianto di un bimbo.

Il riaffiorare dei ricordi dopo tanto tempo lo prese alla gola. Si accorse di avere gli occhi velati di lacrime.
  • Sto diventando vecchio. – si disse – Un vecchio sentimentale.
Poco distante, appoggiati al parapetto che dava sul porto, un ragazzo e una ragazza lo guardavano incuriositi. Sentì lui dire qualcosa, lei ridere. Poi ripresero a baciarsi, di nuovo indifferenti a tutto il resto.

Quasi senza sapere come si ritrovò sul Boulevard Livon, incurante del traffico che lo avvolgeva, della folla rumorosa che da ogni lato lo circondava.

(continua)

giovedì 2 gennaio 2014

Marsiglia di notte (Le illusioni d'Itaca, 10)



Marsiglia di notte è un luogo d'ombre, abitato da fantasmi. (Decimo capitolo de Le illusioni d'Itaca)

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

10. Marsiglia di notte


Trovò un hotel proprio allo sbocco della grande via che conduceva al Vieux-Port. Un albergo moderno, all’americana, tutto luci e vetrate, in ogni cosa simile ai mille altri dove era stato in quegli anni. Luoghi freddi, asettici, senza storia. Buoni solo per scopate senza amore. Alla reception un portiere annoiato gli consegnò la chiave della sua camera senza fare commenti sul fatto che egli fosse praticamente senza bagaglio.
  • Venez-vous a Marseille pour la premier fois? - Gli chiese tanto per darsi un contegno.
  • Non.
E il tono non invitava a fare altre domande.
  • Bon… votre chambre est au troisième étage. Il y a aussi un très grand balcon sur le Vieux-Port. Bonne nuit, Monsieur.
  • Bonne nuit.
In effetti la sua camera dava direttamente sul Vieux-Port. Dal grande balcone ne aveva una visione completa. Come sempre quella vista lo colpì per la sua bellezza. File di imbarcazioni stazionavano ordinate nella darsena mentre la risacca ne faceva ondeggiare lievemente le alberature producendo un soffuso tintinnio metallico. Un battello turistico, l'ultimo della giornata, proveniente dalle isole del Frioul e dal Chateau d’If, stava attraccando in quel momento alla banchina. A prua un gruppo di giapponesi nell’attesa di sbarcare fotografava i palazzi del Quai de la Rive Neuve e del Quai des Belges. La vista era magnifica, ma il suo cuore non ne gioiva. Non sapeva neppure lui cosa ci facesse lì, in quell'albergo. Era da quando era entrato nella camera che se lo chiedeva.



Chiamò il bar, si fece portare in camera una bottiglia di Oban e cominciò a bere alternando il whisky liscio con la Perrier gelata del frigobar. Dalla stanza accanto provenivano voci e il rumore di un televisore acceso.

Accese a sua volta il televisore. Sullo schermo apparvero le immagini di un vecchio film in bianco e nero. Riconobbe quel film, lo aveva visto tanti anni prima con Giulia. Raccontava la storia di una donna divisa fra due uomini, ma padrona della propria vita. Decisa a gestire la propria esistenza a ogni costo. Nonostante tutto e tutti.

Ricordava come Giulia si fosse fortemente identificata con il personaggio di Catherine (questo il suo nome), con il suo rifiuto dell'ipocrisia e del perbenismo borghese. Ricordava ancora come fosse uscita eccitata dal cinema, ammirata per la sensibilità quasi femminile con cui il regista aveva tentato di rendere le raffinate atmosfere del romanzo di Roché che avevano letto entrambi ai tempi del liceo. Un tentativo, quello di Truffaut, gli aveva spiegato in una delle loro animate discussioni, non tanto di fare un film sull'esperienza della libertà assoluta, quanto di girare un film assolutamente libero su di un'esperienza fallita di libertà.

Da chissà quale luogo remoto della memoria gli ritornarono le frasi che Jeanne Moreau pronunciava fuori campo all'inizio del film:

"Tu mi hai detto: t'amo. Io t' ho detto: aspetta. Stavo per dirti: prendimi: Tu mi hai detto: vattene".

Quante volte Giulia gliele aveva ripetute. Era diventato quasi un gioco fra di loro, un motivo di scherzo e di risa. Ora comprendeva il senso profondo di quelle poche battute. Il loro metaforico esemplificare la crudele ambiguità del rapporto d’amore.

Si sdraiò sul letto, spense la luce. Nel buio della stanza, illuminata dalla pallida fluorescenza del televisore, le immagini del film facevano da sfondo all'errare inquieto dei suoi pensieri.

Ricordava una delle ultime sere che avevano passato insieme. Avevano cenato in un ristorante sul mare. Lei aveva appena toccato il cibo che pure era buono. In qualche modo aveva capito che in lui qualcosa stava cambiando. Che la sua mente sempre più spesso era altrove. E aveva avuto paura.

Usciti dal ristorante, avevano camminato a lungo per le vie deserte della loro città stretti l'uno all'altra.
  • Andiamo sulla spiaggia? - Giulia gli aveva chiesto
Lui non aveva risposto.
  • Non vuoi che andiamo sulla spiaggia? - Aveva insistito.
Aveva cercato di risponderle con una battuta, ma lei era rimasta seria.



Giù lungo la riva l'odore del catrame si fondeva con quello della notte. Alle loro spalle le luci della città bruciavano come falene nelle tenebre. E ad un tratto avevano sentito il respiro notturno del mare avvolgerli e tutto era parso loro cambiare aspetto, assumere nuove sembianze, mentre lontano sulla linea tremula dell'orizzonte il buio della notte stagnava. Un preludio, forse, di ciò che li attendeva, di ciò che stava per accadere loro. In silenzio continuavano a stringersi l'uno all'altro sapendo che mai più sarebbero riusciti a ricreare quel momento, che mai più si sarebbero sentiti in quel modo. Tormentato dai suoi dubbi, lui si sentiva confuso, nonostante il tepore del corpo di lei stretto al suo. Aveva dimenticato le parole che pure da tempo voleva dirle. E il suo cuore lentamente si riempiva di notte, di nebbia e di vento.

Giulia si era turbata per il suo silenzio.
  • Cosa c’è? - Gli aveva chiesto - Non sei felice qui con me?
La sua voce tremava.

Quando si era chinato per baciarla, si era accorto che nel buio lei stava piangendo. Una rabbia cieca lo aveva preso. Le si era rivolto bruscamente, con asprezza.
  • Cosa succede? Cos' hai?
  • Nulla, non ho nulla.
A capo chino aveva continuato silenziosamente a piangere. Tirando su col naso, come fanno i bambini quando non vogliono farsene accorgere.
  • Mi dispiace, Giulia. Mi dispiace davvero. - Non gli venivano altre espressioni che quelle frasi banali.
Più tardi nella loro camera, mentre di là nel bagno Giulia si preparava per lui, si era vergognato per quelle parole, per quella rabbia, per averla fatta piangere. Sapeva che l'inquietudine che lo rodeva l'avrebbe presto portato via di lì e questo lo faceva sentire in colpa. A poco era servita la foga con cui avevano fatto l'amore, con cui si erano vicendevolmente dati e presi. Aveva ragione Giulia: la sua mente era ormai altrove, lontano da lei. Pur sentendo di amarla ancora, pur desiderandola con ogni fibra del suo corpo, qualcosa di indefinibile si ergeva ormai fra di loro, li allontanava sempre più l'uno dall'altro.

In silenzio, davanti allo specchio, lei pettinava i suoi lunghi capelli neri. Sdraiato sul letto lui la guardava e avrebbe voluto pregarla di smettere, di voltarsi e sorridergli, di fare ancora l'amore con lui, ma non c'erano parole, né segni per riparare a ciò che era accaduto tra loro.

Si accorse all'improvviso che il televisore non trasmetteva più nulla. Di stare fissando uno schermo vuoto. Si riscosse da quei pensieri. Inutili, come le cose passate. Bevve un altro bicchiere di whisky, poi si alzò, si avvicinò al balcone aperto e guardò fuori nella notte. Giù nel porto luci di segnalazione verdi e rosse contrastavano singolarmente con le lampade allo iodio dell'illuminazione stradale. Aveva caldo. Andò nel bagno per farsi una doccia. Lo scroscio dell'acqua fredda sul suo corpo lo svegliò del tutto. Dalla banchina sottostante gli giunsero le voci dei facchini che stavano scaricando le cassette del pescato per il mercato del giorno dopo. Guardò l'orologio sul comodino: era l’una. Ancora troppo presto per andare a dormire. Con gesti lenti si rivestì, si chiuse la porta della camera alle spalle, percorse il lungo corridoio silenzioso fiocamente illuminato dalle luci notturne, scese nella hall deserta. Dietro il bancone della reception il portiere di notte tutto preso dal suo computer non si accorse neppure di lui.

La notte calda di Marsiglia lo accolse nel suo abbraccio salmastro appena fuori la grande porta girevole dell’hotel. Era molto tardi, ma le strade erano ancora piena di gente. Lentamente si incamminò lungo il Quai du Port, in direzione del Fort St-Jean che intravvedeva sullo sfondo, grande macchia bianca nella luce dei riflettori a chiudere l'imboccatura della darsena.



Rannicchiato in un angolo, avvolto in una palandrana consunta, una bottiglia di vino semivuota accanto, un vecchio clochard al suo passare si mise a intonare La Varsovienne.

En rangs serrés l'ennemi nous attaque,
Autour de notre drapeau regroupons-nous
Que nous importe la morte menaçante,
Pour notre cause soyons préts à mourir !

("A ranghi serrati il nemico ci assale,/ stringiamoci attorno al nostro vessillo/ Che ci importa della morte,/ siamo pronti a morire per la nostra causa!")

Si fermò a guardarlo. Si frugò in tasca e mise qualche moneta vicino alla bottiglia.
  • Salut, mon camarade. - Lo salutò il vecchio alzando il pugno chiuso.
  • Salut - Rispose lui - Ça va?
Il vecchio borbottò qualcosa. Lui si voltò e riprese a camminare, ma il vecchio lo richiamò indietro.
  • Attention à les mouchards et à les gendarmes. Ils sont partout, comme les fachos du Front National! Ces salauds!
E sputò per terra. Uno sputo lungo, dritto davanti a sè. Un gesto d’orgoglio a ricordargli che sotto quegli stracci c’era ancora un uomo, che la rivoluzione è un’avventura del cuore.
  • Merci, camarade. Je ferai attention.
  • Attention à la taupe, - aveva ripreso a dire il vecchio con l’espressione misteriosa di chi svela un arcano - elle est fragile. Et pourtant, avec patience, avec obstination, de galeries en soutarrains, elle va en souriant son cheminement de taupe vers des nouvelles irruptions.
Gli parve di conoscere quelle parole, di averle già sentite.
- Lo spirito soffia dove vuole. – Pensò.
Mentre si allontanava sentì il barbone intonare a squarciagola il ritornello di una vecchia canzone rivoluzionaria, L'Appel du Komintern:

Quittez les machines, dehors prolétaires,
Marchez et marchez, formez-vous pour la lutte,
Nous ne craignons pas la torture, ni la mort,
En avant prolétaires, soyons prêts, soyons forts!

("Abbandonate le macchine, uscite fuori o proletari,/sù in marcia, preparatevi alla lotta,/non temiamo la tortura o la morte,/avanti proletari, siamo pronti, siamo forti!")

La tortura e la morte. Gli venne da sorridere.

(continua)