TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 30 settembre 2017

Il "rinnegato" Korsch. Storia di un'eresia comunista



Qualche anno fa, uscì per la la Colibrì di Milano, Il "rinnegato" Korsch. Storia di un'eresia comunista, prima (e ci risulta ancora unica) biografia italiana del filosofo e esponente del comunismo dei consigli tedesco. Il libro andò subito esaurito e non è stato più ristampato. Negli anni ci sono pervenute molte richieste da parte di persone a vario titolo interessate al volume. In attesa di una possibile riedizione aggiornata del libro, ne riproniamo il contenuto a partire dalla premessa e dall'indice.

Giorgio Amico

Il "rinnegato" Korsch. Storia di un'eresia comunista

Premessa

Giurista, filosofo, rivoluzionario di professione, ministro, cospiratore, soldato valoroso, pacifista coerente, Karl Korsch è stato tutto questo e molto di più. Amico personale di Amadeo Bordiga e di Bertold Brecht, ispiratore della Scuola di Francoforte, compagno di studi di Kurt Lewin, avversario di Stalin, Korsch ha segnato in molti modi la storia del Novecento.

Dimenticato, quando, come scrive Hermann Weber, la storia divenne un presente proiettato all’indietro e la teoria una giustificazione della politica,1 dopo aver goduto di una fugace fortuna nei primi anni Settanta, Karl Korsch, come d’altronde gran parte dei marxisti non-ortodossi del Novecento, è progressivamente ritornato ad essere uno sconosciuto e non solo per le giovani generazioni che iniziano oggi ad interessarsi della storia del movimento operaio. Le sue opere, che pure sono state in gran parte tradotte in italiano, sono da anni introvabili.

Eppure il suo marxismo critico, assolutamente non dogmatico, sarebbe prezioso in un momento come l’attuale di grande confusione ad evitare che il vuoto lasciato dal crollo dello stalinismo venga riempito da nuove mitizzazioni del passato in nome di un marxismo annacquato ridotto a ideologia buona per tutti gli usi.

Il presente lavoro vuole iniziare a colmare questa lacuna con l’intenzione di fornire qualche strumento in più alla comprensione del presente. Infatti, se l’analisi scientifica di Marx può ancora oggi rappresentare una buona bussola per orientarsi nel tempestoso oceano del capitalismo globalizzato, ben più arduo è il tentativo di far discendere da questa analisi una prassi politica coerente e soprattutto praticabile. Da qui la tentazione di cercare facili scorciatoie nel rifiuto tout-court della teoria o all’opposto nell’esaltazione fantasmatica di una presunta “scienza marxista” capace di per se di risolvere ogni problema.

Come sempre le cose sono più complesse. La teoria, ogni teoria, marxismo compreso, non è mero rispecchiamento della realtà esterna nel pensiero:

“La totalità – scrive Marx nei Grundrisse – come essa si presenta nella mente quale totalità del pensiero, è un prodotto della mente che pensa, la quale si appropria del mondo nella sola maniera che gli è possibile, maniera che è diversa dalla maniera artistica, religiosa e pratico-spirituale di appropriarsi il mondo. Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente; fino a che, almeno, la mente si comporta solo speculativamente, solo teoricamente. Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto”.2

Centrale diventa allora il problema del rapporto fra teoria e pratica sociale, fra realtà oggettiva e coscienza di classe. Proprio su questo terreno si colloca l’opera di Korsch, testimone disincantato della crisi del marxismo della Seconda Internazionale, ma anche del sostanziale fallimento del tentativo leniniano di restaurare a partire dalla Russia arretrata una teoria della rivoluzione proletaria utilizzabile in una società capitalistica in continua trasformazione come quella occidentale.

Detto questo, credo sia chiaro cosa questo saggio non vuole in alcun modo essere. Non uno studio esaustivo dell’opera di Korsch né una biografia intellettuale. Si tratta, piuttosto, del tentativo di collocare Korsch nel contesto che gli appartiene all’interno della storia del marxismo rivoluzionario del Novecento. Con la speranza che tutto ciò sia utile a chi sta cercando faticosamente la sua strada e un avvertimento doveroso: nessuna lettura è neutrale, ogni interpretazione rimanda a ben precisi presupposti, teorici e politici. Scrivere è schierarsi e questo lavoro non fa eccezione.

Savona, luglio-agosto 2003

1 H. WEBER, La trasformazione del comunismo tedesco, Feltrinelli, Milano 1979, p. 97.
2 K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1978, p.28.

INDICE

Premessa

PRIMA PARTE
GLI ANNI DELLA FORMAZIONE (1912-1920)
  1. L’apprendistato politico (1912-1919)
  2. Il periodo consiliare (1919-1920)
SECONDA PARTE
GLI ANNI DELLA MILITANZA (1920-1928)
  1. La scoperta del leninismo (1920-1923)
  2. Il periodo dell’ortodossia (1924-1925)
  3. Marxismo e filosofia
  4. All’opposizione nel partito e nell’internazionale (1925-1926)
  5. Al bando dal partito (1926)
  6. L’esperienza di Kommunistische Politik (1926-1928)
TERZA PARTE
GLI ANNI DELLA RIFLESSIONE CRITICA (1929-1961)
  1. La critica del kautskismo (1929)
  2. La critica del leninismo (1930)
  3. La critica del fascismo (1931-1933)
  4. I primi anni dell’esilio (1934-1938)
  5. Verso la guerra (1938-1945)
  6. Gli ultimi anni (1946-1961)

venerdì 29 settembre 2017

Guy Debord, Pinot Gallizio e una riunione di amici geniali


Una bella recensione di «Un’imprevedibile situazione», di Donatella Alfonso. Ricostruzione accurata degli inizi dell'Internazionale situazionista. Da leggere.

Francesca Romana Recchia Luciani

Guy Debord, Pinot Gallizio e una riunione di amici geniali

«È tornato a casa con i suoi quadri, il ragazzo di allora e il pittore di poi, quelle tante vite che ha vissuto; è tornato e forse anche il paese, tanti anni dopo, ha capito che sì, era veramente successo qualcosa, in quei giorni di luglio di quando la guerra era finita solo da una dozzina d’anni, e che quegli stranieri che ogni anno a luglio arrivano, e c’è chi canta e chi beve, in onore di Debord e degli altri, in piazza San Sebastiano, non sono solo dei tipi strani».

Quell'uomo non più ragazzo è Piero Simondo, coprotagonista di un piccolo, prezioso testo che racconta in presa diretta, con la scrittura semiautomatica di un film che dipana le sue sequenze al rapido ritmo cinematografico di una docufiction più che di una cronaca giornalistica, una storia semisconosciuta in cui la testimonianza fotografica e documentale riflette e rimanda quella esistenziale dei suoi interpreti. Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione: nasce il Situazionismo è il frizzante libro, edito da Il Nuovo Melangolo (pp. 94, euro 14), che Donatella Alfonso ha dedicato al poco noto esordio, esattamente sessant’anni fa, dell’Internazionale Situazionista in quel di Cosio D’Arroscia, paesino di circa duecento abitanti arroccato sulle Alpi liguri.

    Debord e Simondo a Cosio

Era il 28 luglio 1957, in quel luogo che non poteva essere più congeniale, cioè nel retrobottega di un bar che serve il buon vino locale sin da prima mattina, e un gruppo di visionari finì per fondare un movimento che non ha solo lasciato un segno profondo nella storia del Novecento ma che ancora oggi viene apprezzato per la sua lungimiranza, tuttora capace di renderlo attuale. L’insieme, composto da Guy Debord e dalla compagna Michèle Bernstein, dall’artista danese Asger Jorn (animatore del gruppo CO.BR.A. trasferitosi ad Albissola Marina, nel savonese, ove è oggi visitabile la sua casa-museo), dallo «psicogeografo» inglese Ralph Rumney (con la moglie Pegeen Guggenheim, pittrice figlia di Peggy, in quest’occasione volontariamente defilata), da Giuseppe Pinot-Gallizio, il farmacista di Alba trasformatosi nell’inventore della «pittura industriale» (scoperto da Carla Lonzi che gli dedicò finanche un documentario per la RAI), dal geniale compositore Walter Olmo, albese anche lui, viene convocato a Cosio dall’artista Piero Simondo e dalla moglie Elena Verrone.

In questo piccolo e vivace libro viene dettagliatamente ricostruita, attraverso documenti, lettere, fotografie e soprattutto per il tramite della diretta testimonianza dello stesso Simondo, la vicenda che conduce nella sperduta Cosio questa pletora di personaggi geniali e creativi, nonché l’autore de La società dello spettacolo, quel Guy Debord cui viene fatta risalire l’intuizione situazionista.

Il volumetto rappresenta anche il tentativo riuscito di restituire spessore a tutti i protagonisti coinvolti in questa inedita situazione, uomini e donne cui la ricostruzione della vicenda esistenziale, nonché della biografia artistica e intellettuale, condotta con empatica puntualità dall’autrice che dedica ad ognuno di essi un capitolo del suo volume, restituisce lo spessore e il ruolo che meritano nel panorama umano e artistico-culturale in cui il Situazionismo s’impone.

   Michèle Bernstein a Cosio

Chi vuol conoscere la rivoluzione culturale situazionista troverà in questo testo la puntigliosa descrizione di un accadimento che, realizzatosi in un minuscolo e ossimorico paese delle Alpi Marittime a soli trenta chilometri dal Mar di Liguria, ormai appartiene alla storia culturale europea nella misura in cui «quel gruppetto di pazzi amici di Piero , lui sì amico di tutti, lui sì del paese, non erano venuti lì per una baldoria, ma per un’avventura che poteva nascere solo così, perché se sei lettrista o psicogeografico o immaginista, se hai vent’anni o anche se non li hai più, ma sai che l’idea più urgente è quella di cambiare il mondo, ecco che sei chiamato a inventare una cosa sola: l’Internazionale Situazionista».

Quel situazionismo, nato in quell’improbabile occasione dalla fusione del movimento «lettrista» con il Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista, che rappresenta ancora oggi un’avanguardia mai tramontata in quanto tale essendo rimasto non solo un’anticipazione e un’intuizione culturale che preconizzava cambiamenti sociali e culturali come quelli che caratterizzarono il Sessantotto, ma soprattutto quasi cristallizzato nel suo emergente stato di proiezione sul futuro, di visione a venire, di prospettiva avanzata sulla realtà.


Il Manifesto – 29 settembre 2017

giovedì 28 settembre 2017

Felice Rossello, Il lato B della cultura: la TV


Altare Vetro Design 2017


In cammino con l'Imperatrice


mercoledì 27 settembre 2017

Vita e morte di Guy Debord


E' disponibile da oggi in libreria  il nostro Guy Debord e la società spettacolare di massa (Roberto Massari Editore). Pubblichiamo la presentazione.

Vta e morte di Guy Debord

Guy Debord e la società spettacolare di massa rappresenta una novità assoluta per il mercato editoriale italiano. Si tratta infatti della prima biografia di Guy Debord, su cui finora nel nostro paese erano usciti studi (anche molto importanti, ma parziali) soprattutto sul cinema. Il libro, di 320 pagine corredate da una ricca rassegna di immagini, ricostruisce dettagliatamente la vita dell'intellettuale francese, evidenziandone le origini italiane (da parte della madre), l'infanzia difficile, gli studi liceali a Cannes nel primo dopoguerra, fino all'incontro nel 1950 con le avanguardie artistiche parigine ed in particolare con i lettristi di Isidore Isou.

La ricerca ricostruisce la fitta rete di relazioni che il giovane Debord costruisce a partire dal suo arrivo a Parigi nel 1951. In modo dettagliato si racconta dell'adesione convinta al movimento lettrista, dei primi esperimenti cinematografici (il famoso film senza immagini che tanto scandalizzò i critici, suscitando polemiche e risse, tanto che ne vennero immediatamente vietate le proiezioni), fino allo scandaloso attacco a Charlie Chaplin e alla nascita di un nuovo movimento politico/artistico: l'Internazionale Lettrista.

    1954. Lettristi (Debord è il terzo da sinistra)

E' a partire da questo momento che l'interesse di Debord si fissa sull'Italia dove ad Alba opera il Laboratorio sperimentale di Pinot Gallizio e Piero Simondo e ad Albisola il MIBI di Asger Jorn, già surrealista dissindente animatore nel dopoguerra del gruppo CoBrA. Proprio dall'incontro fortuito nel 1954 fra Debord e Jorn ha inizio il percorso che conduce in tre anni alla Conferenza di Cosio, alla fusione fra l'Internazionale lettrista e il MIBI (con l'aggiunta dell'effimero Comitato psicogeografico di Londra dell'inglese Ralph Rumney) e alla nascita dell'Internazionale situazionista.

Obiettivo di Debord non è rivoluzionare l'arte, ma la vita. Fin da subito l'IS si divide fra artisti e politici, fautori di una rapida trasformazione del movimento in una organizzazione esclusivamente politica. Decisivi saranno gli anni fra il 1957 e il 1962 contrassegnati interamente dal contrasto fra Debord e gli artisti che ad uno ad uno vengono espulsi (come Simondo e Gallizio) o costretti ad allontanarsi (come Jorn). Non estranea a questa progressiva radicalizzazione dei situazionisti è la militanza di Debord nel gruppo operaista francese Pouvoir Ouvrier emanazione della rivista Socialisme ou barbarie. Una pagina poco conosciuta che il libro ora ricostruisce nei dettagli, dagli scontri di piazza per l'Algeria indipendente alla partecipazione in Belgio ai picchetti del grande sciopero dei metallurgici del 1961. Una storia mai raccontata in Italia, dove è prevalsa una narrazione solo intellettuale dei percorsi di Debord.

    1957. Cosio d'Arroscia

Dal 1962 un'Internazionale situazionista sempre più impegnata sul tema del potere dei consigli operai (centrale il mito della grande rivolta antiburocratica ungherese del 1956) lancia campagne in tutta Europa contro i piani di guerra della NATO e subisce per questo attentati da parte dell'estrema destra, mentre entra nel mirino dei servizi di sicurezza francesi e non solo. E poi lo scandalo di Strasburgo che di fatto apre la stagione del '68, la notte delle barricate nel quartiere Latino che vedono i situazionisti protagonisti assoluti degli scontri e delle assemblee. E' il momento del trionfo, ma anche l'inizio del declino dell'IS che nel 1972 si scioglie dopo tre anni di polemiche, soprattutto per il rifiuto di Debord di un “situazionismo” di maniera diventato moda giovanile diffusa. 

L'ultima parte del volume ricostruisce sulla base di uno spoglio minuzioso della Corrispondenza il progressivo distacco di Debord dalla politica, il lento ripiegarsi su se stesso (conseguenza anche di una saluta compromessa da decenni di eccessi alcolici), la fuga da Parigi, il rifugiarsi nell'eremo di Champot in un antico casolare in pietra che, scrive Debord, «sembrava aprirsi direttamente sulla Via Lattea». Sono gli anni del silenzio, della riflessione, ma non del pentimento. “Il leopardo muore con le sue macchie” risponde sarcastico Debord al medico che lo invita a smettere di bere. Fino a quel colpo di fucile al cuore, proprio come tanti anni prima Hemingway, che la notte del 30 novembre 1994 chiude a 63 anni la vita di Guy Louis Marie Vincent Ernest Debord nato alle cinque del pomeriggio del 28 dicembre 1931 da Paulette Rossi in una casa del 19° arrondissement a Parigi.

Giorgio Amico
Guy Debord e la società spettacolare di massa
Massari Editore, 2017
Euro 19


Invecchiano solo gli altri


È ancora possibile trovare un equilibrio tra le generazioni in un mondo che ha messo al bando la vecchiaia? Marco Aime e Luca Borzani provano a rispondere con un bel libro che verrà presentato alle 17.30 di oggi, 27 settembre, nei locali della Camera di Commercio di Genova, in via Garibaldi 4.

Marco Aime

Invecchiano solo gli altri

Avrà pur avuto ragione Sant’Agostino a dire di non saper spiegare cosa sia il tempo, concetto quanto mai sfuggente, che sembra materializzarsi solo quando, noi umani, tentiamo di dargli una struttura per nostro uso e consumo. Ma al di là delle speculazioni filosofiche, il modo più evidente in cui noi percepiamo il tempo sono le trasformazioni del nostro corpo e della nostra mente. Un processo biologico diverso per ogni individuo, con scarti più o meno ampi, ma inesorabile e irreversibile. “I capelli bianchi dicono: siamo venuti per restare’” recita un proverbio africano: nonostante le innumerevoli pratiche estetiche, psicologiche e lessicali messe in atto da molti nostri contemporanei per celare questo processo, l’invecchiare rimane un dato di fatto ineludibile.

L’età, e il tempo, sono concetti culturali utili a dare forma e struttura al processo di crescita, sviluppo e invecchiamento. Entrambi iniziano a esistere nel momento in cui cerchiamo di calcolarli e strutturarli, e qualunque sia il metodo che utilizziamo si tratta di fatti che attengono alla cultura. La vita degli individui viene scandita in modo diverso a seconda della società in cui essi vivono. Lo sviluppo e l’invecchiamento biologico che il nostro corpo, come ogni altro organismo vivente, subisce, è percepito e accompagnato, nelle culture umane, da differenti processi di interpretazione. Tali modelli riflettono le modalità di rappresentazione di ogni cultura e definiscono i diversi sistemi di classificazione dell’età. 

Se lo sviluppo biologico segue un percorso lineare, cumulativo, costante e continuo, perché la natura non fa salti, quello sociale viene invece frazionato in fasi culturalmente determinate, che mettono in evidenza le raffigurazioni che la società ha dei propri componenti. I vari sistemi inventati per scandire la vita umana, non sono solamente codici comuni finalizzati a definire più o meno approssimativamente l’età di un individuo, ma sono anche modelli di attribuzione di ruoli sociali, così che l’invecchiamento fisico si intreccia, in modo più o meno evidente, con la posizione che la società ci assegna.




La riflessione degli autori parte dal fervore del dopoguerra, dalla ricostruzione e dal crescente benessere che inducevano all’ottimismo di cui il baby-boom fu uno dei volti più rilevanti. Saranno quei bambini nati tra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta che, una volta cresciuti, forti dei numeri, della nuova condizione di benessere e di un copioso flusso di idee, faranno irruzione nella società per la prima volta come “generazione” e daranno vita, sul finire degli anni Sessanta, a un movimento destinato a lasciare tracce negli anni a venire.

Poi tutto è successo rapidamente, in poco più di mezzo secolo, così rapidamente che i mutamenti non si sono sedimentati nel sentire collettivo e non hanno prodotto rappresentazioni sociali adeguate. Eppure, ed è evidente a tutti, non ci sono più gli anziani di una volta. Sono tanti e saranno sempre di più. Godono in larga maggioranza di buona salute e di possibilità economiche. Per la prima volta nella storia non rivolgono solo lo sguardo al passato ma si misurano con un futuro ancora lungo. Siamo, anche se lo rimuoviamo, nella società dell’invecchiamento progressivo della popolazione. Gli effetti a vedere le previsioni saranno, nel giro di pochi decenni, catastrofici. Ma, appunto, facciamo finta di non vedere. La generazione che si è riconosciuta come giovane, che ha riempito le piazze e occupato scuole e università in nome della rottura con la società dei padri fa ora i conti con la propria vecchiaia.

E lo fa nascondendola, non guardandola, cercando di occupare comunque la scena. Indipendentemente o meno dall’essere ormai arrivata alla pensione. Perché sono i consumi che oggi dividono tra attivi e non attivi, tra chi è vitale e chi è escluso. La grande paura è quella della non autosufficienza, del decadimento fisico e mentale. Solo quelli sono i vecchi. E, come è noto, invecchiano solo gli altri. Anche i giovani non sono più quelli di una volta. Sempre meno numerosi, discriminati, costretti a una lunga post adolescenza, a un presente che svuota passato e futuro. Il conflitto generazionale non è più politico e culturale ma innanzitutto economico e sociale. Siamo diventati un Paese di vecchi che non si riconoscono tali e di giovani che sembrano socialmente spariti, senza voce collettiva.


Questo libro segue il filo di una generazione quella del “’68”, a cui per ragioni anagrafiche gli autori non appartengono, ma della quale sono stati in qualche misura, almeno culturalmente, parte. Con la convinzione che lo spazio per i “nuovi anziani” non sia quello del rincorrere la giovinezza perduta o i consumi, ma quello di un’età tutta da vivere e da riempire con l’ investimento sociale. È la nuova e ultima scommessa possibile di una generazione che credeva di aver rotto con i padri e ha invece rotto con i figli.

E lo ha fatto con spensierato egoismo, senza responsabilità, tarpando le ali a chi veniva dopo; certa che quel futuro di cui si sentiva in possesso in gioventù non dovesse comunque scappargli di mano. Minando la speranza e il cambiamento possibile in nome, come avrebbe detto Walter Benjamin, della “monetina dell’attualità”. Eppure questa generazione che ha vissuto i più profondi e accelerati cambiamenti della modernità potrebbe ritrovare le risorse morali e intellettuali per reinventare la condizione anziana, sperimentare una nuova funzione sociale di apertura e non di chiusura verso le generazioni successive.

Insomma, provare a dare vita a una sorta di nuovo patto intergenerazionale, a lasciare “spazio” senza doversi negare una dimensione piena dell’ esistenza. Ma al di là di queste modeste utopie, la questione di fondo, l’invecchiamento progressivo della popolazione, resta. E stando ai numeri non può non spaventare. Il futuro rischia di avere i tratti arcigni di una dilagante senescenza. Stiamo rischiando tutti grosso. Forse troppo per non provare nemmeno a interrogarsi.




mercoledì 20 settembre 2017

L'arcano sentiero


martedì 19 settembre 2017

Il sangue sparso va placato



A proposito della polemica (disgustosa) su Giuseppina Ghersi


Ce lo hanno insegnato i greci. Il nemico ucciso va placato, sacralizzandone la morte. Lo fa Achille, dopo aver fatto scempio del corpo di Ettore. Lo fa Ulisse dopo la vendetta e lo sterminio dei Proci. Il sangue sparso va giustificato perchè ogni guerra è una guerra civile. Solo così la vita può riprendere. Ce lo ricorda Cesare Pavese.

Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini: sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.


(Cesare Pavese, La casa in collina)

Nel caffè della gioventù perduta. Il giovane Debord a Parigi

    Chez Moineau

Sabato 23 settembre nei locali della Biblioteca di Carcare presentazione di Guy Debord e la società spettacolare di massa, prima biografia italiana del fondatore dell'Internazionale Situazionista. Ne proponiamo una pagina.


Nel caffè della gioventù perduta. Il giovane Debord a Parigi

Coerente con le tesi di Isou sul «sollevamento della gioventù» il movimento lettrista recluta dalla fine degli anni '40 dei giovani ribelli che rifiutano le convenzioni della vita borghese. Una gioventù marginale composta da artisti e intellettuali, ma anche da sottoproletari, immigrati nordafricani, minorenni scappate di casa, piccoli delinquenti e tossici. É questo l'ambiente in cui Debord si inserisce a Parigi e che, quasi alla fine della sua vita, rievocherà con nostalgia:

«Nel quartiere di perdizione dove giunse la mia giovinezza, come per completare la sua istruzione, si sarebbe detto che si erano dati convegno i segni precursori di un prossimo crollo dell'intero edificio della civiltà. Vi si incontravano in permanenza della gente che non poteva essere definita se non negativamente, per la buona ragione che non aveva alcun mestiere, non attendeva ad alcuno studio, e non esercitava alcuna arte. […] Questo ambiente di imprenditori di demolizioni, più nettamente di quanto avessero fatto i loro predecessori delle ultime due o tre generazioni, si era allora mischiato assai strettamente alle classi pericolose. Vivendo con loro, si fa in larga misura la loro vita. Ne restano evidentemente delle tracce durevoli. Più di metà di coloro che, nel corso degli anni ho conosciuto aveva soggiornato, una o varie volte, nelle prigioni di diversi Paesi; molti, certo, per ragioni politiche, la maggior parte tuttavia per reati o crimini di diritto comune. Ho quindi conosciuto soprattutto i ribelli e i poveri. Ho visto attorno a me, in gran quantità, gente che moriva giovane, e non sempre di suicidio, comunque frequente».

Installatosi a Parigi Debord scopre Saint-Germain-des-Prés, il luogo di ritrovo dei giovani lettristi che si riuniscono in alcuni piccoli locali equivoci del quartiere, evitando con cura le zone alla moda frequentate dagli intellettuali e dagli esistenzialisti attorno ai famosi caffè Flore e Deux Magots:

« Per noi il quartiere finiva grosso modo davanti alla statua di Diderot. Lì davanti c'era un bistrot che si chiamava il Saint-Claude... Un poco avanti la rue de Rennes. Si imboccava la rue des Ciseaux, all'angolo fra la rue des Ciseaux e la rue du Four c'era un bistrot chiamato le Bouquet, un poco più lontano, rue du Four, c'era Moineau. Sul marciapiede in faccia, all'angolo della rue Bonaparte se non mi sbaglio, c'era un bistrot che vendeva patatine fritte e salsicce, la Chope gauloise; rue des Canettes, non la si frequentava allora ancora molto, ospitava già Chez Georges, un bistrot molto conosciuto. Dopo si ritornava per la rue du Four, c'era la Pergola, giusto in faccia, e l'Old Navy, un poco più lontano sul marciapiede, a centocinquanta metri dal Mabillon».

    Guy Debord e Michèle Bernstein

«Il mio quartiere è un'isola che nuota sulla Senna» aveva scritto Gabriel Pomerand, niente potrebbe rendere meglio di questo verso l'orgoglioso isolamento dei giovani lettristi e il loro totale rifiuto di un mondo che andava abbandonato:

«Parigi allora, entro i limiti dei suoi venti arrondissement non dormiva mai tutta, e consentiva alla dissolutezza di cambiare tre volte quartiere ogni notte. Non se ne erano ancora scacciati e dispersi gli abitanti. Vi restava un popolo che aveva fatto le barricate dieci volte e messo in fuga dei re. […] Era il labirinto migliore per trattenere i viaggiatori. Coloro che vi si fermarono due giorni non ne ripartirono più, o per lo meno finchè esistette; ma i più vi sono morti giovani prima di andarsene. Nessuno lasciava le poche strade e i pochi tavoli in cui era stato scoperto il punto culminante del tempo».

Se la vita di questi primi anni del movimento non può essere dissociata dal clima che regnava a Saint-German-des-Prés, il quartier generale dei giovani lettristi è un piccolo bistrot, Chez Moineau, situato al numero 22 di rue du Four, che può contenere al massimo una cinquantina di persone. É un locale dimesso, frequentato da nordafricani e da piccoli malavitosi, dove si può sostare per giornate intere senza obbligo di consumazione, consumare dei cibi mediocri e del pessimo vino con pochi franchi e soprattutto restare al caldo nelle fredde giornate invernali.

Moineau era un locale frequentato da magrebini, erano loro che nella Francia dei primi anni Cinquanta avevano importato l'uso di fumare l'hascish. Una frequentazione che non era solo mera trasgressione, ma anche precisa scelta politica: «Partecipare alla vita dei magrebini era un modo chiarissimo di prendere posizione contro la borghesia, contro i coglioni, contro i francesi». Luogo di incontri, di discussioni e di amori, dove l'ebbrezza alcolica equivale a una rivoluzione permanente, per Debord Chez Moineau diventerà negli anni del ricordo il «caffè della gioventù perduta».



lunedì 18 settembre 2017

Sandro Lorenzini, uno sguardo sul mito




Giorgio Amico

Sandro Lorenzini, uno sguardo sul mito

Una pagina di Facebook ci ha riportati al 1986, ad una mostra grandiosa di Sandro Lorenzini sul Priamar, la “fortezza” come la chiamano i savonesi, cuore della città. Luogo di memorie ambivalenti , simbolo del dominio genovese, certo, ma anche glorioso “oppidum alpinum” capace secondo Tito Livio di opporsi ai Romani.

Su queste mura possenti, su questi spalti erbosi, in questi cortili d'ombra, tra la città e il mare, Sandro ha costruito le tappe di un mito, attraverso figure archetipali di grande suggestione.

“Il mito – scrive Eliade – non è il contrario della realtà, è prima di tutto un racconto la cui funzione è ri­velare in che modo qualcosa è avvenuto all'essere”. Una ierofania, la rivelazione del sacro. Per questo all'uomo, anche quello moderno, piacciono i miti. Non perché sono favole, ma perché rispondono ad una domanda di significato. “L'uomo moderno – è la conclusione di Eliade - ama sentir raccontare delle storie e raccontarne, perché è un modo per reinserirsi in un mondo articolato e significante”.

La mostra di Lorenzini, in una città nel pieno di una crisi di identità che oggi appare ancora irrisolta, indicava un percorso di riscoperta, un inizio nuovo. Insomma un segno di speranza.

Così allora vivemmo quell'evento, così oggi lo ricordiamo riproponendone alcune immagini.







sabato 16 settembre 2017

Debord. A 60 anni dalla fondazione dell'Internazionale Situazionista


«Ho passato il mio tempo in alcuni paesi d'Europa, ed è alla metà del secolo, quando avevo diciannove anni, che ho cominciato a condurre una vita pienamente indipendente; e subito mi sono trovato come a casa mia nella più malfamata delle compagnie».

Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni

« Tutto ciò che riguarda la sfera della perdita, cioè quanto ho perduto di me stesso, il tempo passato; e la scomparsa, la fuga; e più generalmente il trascorrere delle cose, e anche nel senso sociale dominante, nel senso dunque più volgare dell'impiego del tempo, ciò che si definisce il tempo perduto, s'incontra stranamente nell'antica espressione militare «soldati perduti», incontra la sfera della scoperta, dell'esplorazione di un terreno sconosciuto; tutte le forme della ricerca, dell'avventura, dell'avanguardia. E' a questo incrocio che ci siamo trovati e perduti».

Guy Debord, Critique de la séparation


giovedì 14 settembre 2017

Firenze. Anarchici in Vetrina...


Dipingere i sogni




Sabato 16 settembre alle ore 18.30
presso la Galleria GULLIarte in C.so Italia 201r a Savona
s'inaugura la mostra collettiva di arte contemporanea:

DIPINGERE I SOGNI”

Sogno di dipingere e poi dipingo il mio sogno”, è una frase di Vincent Van Gogh che può racchiudere l'essenza di questa collettiva di arte contemporanea.

GULLIarte ha “catturato” i sogni di quattro artisti offrendoli alla lettura di tutti gli appassionati.
Quattro artisti amati dai collezionisti, conosciuti in ambito nazionale ed internazionale:

ROBERTO GAIEZZA GIANNI CELANO GIANNICI
ENZO L'ACQUA GIORGIO MOISO

Gli Artisti, hanno percorso, da giovani esordienti, il favoloso ambiente dell'arte degli anni 60/70, respirando il nuovo modo di vedere suggerito da movimenti e avanguardie che hanno fatto di Albisola una piccola “Atene”.
Hanno osservato, sperimentato, trovando un proprio equilibrio, una propria cifra stilistica, con le loro“impronte” riconoscibili nel panorama contemporaneo.
Il linguaggio di ognuno esprime una personalità differente per il modo di interpretare la forma ed il colore.
Ad oggi continuano il percorso intrapreso rinnovando la sperimentazione.


Gaiezza, Giannici, L'Acqua, Moiso: è piacevole e intrigante trovarli riuniti in un' unica mostra, avvicinati dalla sapienza e dalla professionalità del lavoro, dalla curiosità e dalla ricchezza immaginativa che riesce a stupire il pubblico ad ogni incontro.

sabato 9 settembre 2017

Garitta in Jazz


venerdì 8 settembre 2017

Un ponte lungo...


sabato 2 settembre 2017

Complottismo: il marxismo degli imbecilli



Giorgio Amico

Complottismo: il marxismo degli imbecilli

Quando Shakespeare nell'Amleto afferma che esistono più cose fra cielo e terra che in tutti i libri di filosofia, si riferisce chiaramente all'odierno fenomeno delle scie chimiche. E' chiarissimo, come dubitarne? Quattrocento anni fa non esistevano ancora i jet? E allora? Questione di dettagli, prima o poi su facebook il Giacobbo di turno ci offrirà una approfondita e convincente spiegazione anche di questa apparente contraddizione.

D'altronde, se la legge sulle vaccinazioni obbligatorie è funzionale al business delle case farmaceutiche e i dati sulle violenze sessuali a quello dei Centri anti violenza o se dietro l'ISIS e Barcellona c'è la CIA (come ci è capitato ancora oggi di leggere su FB), anche questa nostra teoria di uno Shakespeare 5 Stelle ha una sua dignità innegabile.

Al tempo in cui si frequentavano i bar (negli anni '60 luogo cardine della sociabilità maschile), non c'era volta in cui parlando di politica qualcuno non ti tirasse da parte e, col tono di voce basso di chi sa, ti mettesse a parte del grande segreto che rendeva tutto intellegibile, semplice e chiaro. Sempre uguali le modalità: dall'inizio (“ti spiego io cosa c'è dietro”) alla fine (“anche un cretino può capirlo”). Insomma: una epifania a misura di imbecille.

Oggi i bar non esistono più, soppiantati da Facebook che ne riproduce su scala planetaria banalità e luoghi comuni, dalle donne “tutte puttane” alla politica “tutti ladri”. E non c'è destra o sinistra che tenga, il “pensiero” complottista è rigorosamente unico, solo ognuno lo declina secondo i propri personali fantasmi: la CIA, il Vaticano, i comunisti, i fascisti, l'Islam, l'Europa, le banche, la Massoneria e naturalmente i soliti immancabili “perfidi giudei” (il più delle volte pudicamente chiamati “Israele”).


La destra ovviamente non ci fa specie, in qualche modo ce l'aspettiamo. D'altronde basta leggerne i giornali. Il complottismo di sinistra invece ci stupisce sempre anche se ormai dovremmo essere vaccinati. Come Peppino nei film di Totò, il cretino di sinistra con una parola (banche, sistema, capitale) pensa di aver detto tutto. Tanto di cos'altro ci sarebbe bisogno? E tutto così chiaro, che appunto anche un cretino lo capisce.

Marx, che con tutti i suoi limiti e difetti pure un poco di marxismo si intendeva, passò la vita a farsi beffe di chi riduceva il suo pensiero ad una formuletta, a chi con uno schemino pensava di risolvere problemi complicatissimi.

Certo che c'entra il capitale! In una società dove tutto (compresi i rapporti sociali) è ridotto a merce e spettacolo, è ovvio che ogni cosa, rivoluzione compresa, diventi occasione di business per qualcuno (magliette del Che e turismo politico a Cuba tanto per fare due esempi banali). Ma questo in sé non spiega nulla se non il carattere mercantile della società in cui ci tocca vivere.

Quanto poi alla politica interna e internazionale, è almeno dal Tucidide (per non scomodare il solito Machiavelli) della guerra fra Sparta e Atene che tutti cercano di utilizzare tutti per i propri giochi. Certo, per restare più vicino a noi,  il Kaiser finanzia il rientro di Lenin in Russia e il governo francese l'uscita de Il Popolo d'Italia di Mussolini, ma di qui a dire che la rivoluzione russa o il fascismo siano stati il frutto di complotti orditi altrove ce ne passa. 

Insomma, gira gira, è sempre la teoria del Grande Vecchio che ritorna. Il tentativo consolatorio di spiegare l'esistenza del male (che non possiamo o vogliamo accettare) personificandolo in una entità riconoscibile da cui ci si possa difendere. Una volta ci si limitava a tirare in ballo Satana e non c'era bisogno d'altro. Oggi la società è più complessa e dunque anche l'isteria complottarda si fa più complessa e articolata.  La caccia alle streghe invece non è cambiata, utilizza tecnologie moderne, ma opera secondo le stesse elementari modalità concettuali.  Facebook docet.

A questo punto ci verrebbe da invitare i “compagni” in servizio permanente effettivo contro le FODRIA (le vecchie “forze della reazione in agguato” tanto care alla tradizione stalinista italiana), a smanettare di meno e a leggere qualche libro di più, se non fosse che in questo modo si incentiverebbe il business dell'industria editoriale. Dunque, meglio astenersi. E' così chiaro che anche un cretino può capirlo.