TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 31 dicembre 2011

Buon Anno a tutti gli amici di Vento largo

sabato 24 dicembre 2011

Auguri da Vento largo con Altan e Nico Orengo




Auguri a tutti gli amici di Vento largo

con una vignetta di Altan e una poesia di Nico Orengo

Ci sono nuvole in Provenza

Ci sono nuvole in Provenza
cariche di ocra e di lavanda,
che si perdono sul mare
e navigano in simpatie
di correnti, cercando
la risalita verso le cime
degli olivi e dei pini
del Gran Mondo.
Risucchiate dalle mille gore
delle Meraviglie infilano
la Roja e si fanno, tra le rocce,
tremule: cavedani, tremoli e trote
d'acque verdi, bianche, viola
per sfarsi poi, quando scompare
a Briga il fiume.

venerdì 23 dicembre 2011

"Sopra lo stato presente". Ultimo numero di "Resine", Quaderni liguri di cultura



Sala Gallesio via Tommaso Pertica, 24 - Finale Ligure Marina
Giovedì 29 dicembre 2011 - Ore 17

Presentazione di "Sopra lo stato presente"

Numero doppio speciale sull’Italia, 150 anni dopo
di Resine Quaderni Liguri di cultura

Partecipano

Pier Luigi Ferro Silvio Riolfo Marengo Adriano Sansa

Conduce
Gloria Bardi




L’ultimo numero di “Resine”, realizzato da Pier Luigi Ferro, è dedicato allo stato presente dell’Italia e raccoglie contributi dei giudici Adriano Sansa e Gian Carlo Caselli, di alcuni dei più noti intellettuali e poeti italiani come Gianni D’Elia, Roberto Roversi, Jolanda Insana, Silvio Ramat, Sandro Loi, Mario Lunetta, Eugenio De Signoribus. Comprende inoltre le opere realizzate sul tema per l’occasione da alcuni dei maggiori poeti visivi del mondo (Blaine, Balestrini, Pignotti, Dencker, Clavin, Bennet ecc.), nonché il testo di Giovanni Fontana e le immagini dello spartito dell’Elegia per l’Italia, composto da Ennio Morricone, trasmesso in diretta dalla RAI ed eseguito dall’Accademia di Santa Cecilia alla presenza del Presidente della Repubblica nel luglio scorso.

Pier Luigi Ferro

Sopra lo stato presente

(Editoriale del n.128-129)


Qual è l’immagine che l’ Italia di oggi consegna alla Storia, centocinquanta anni dopo la sua unificazione (assai precaria, come sottolineano con ironia Albani e Salerno), celebrata in questo anno nefasto, con imbarazzo e molte goffaggini dai nostri imbarazzantissimi uomini rappresentativi, che hanno immerso il Paese in un vociare assordante, secondo quanto suggerisce Boschi, che lo stanno facendo in pezzi, come ci rappresenta il catalano Ferrando, dando corpo la politica nostrana a un criptogramma quasi indecifrabile a chi ci guardi da fuori, simile a quello rappresentato dal tedesco Dencker? È forse il prodotto di una geografia politica accartocciata e raggrinzita sulle sue insufficienze, che paradossalmente avvicinano il settentrione al meridione della nazione, accomunandoli in questo, come suggerisce il lavoro di Fontana? Consiste invece in un groviglio crepitante e inestricabile come quello disegnato dalla Blank, a un mero e slavato gioco calligrafico e fonetico, quello rappresentato dall’americano Bennet, o piuttosto è un territorio riconfigurabile in grotteschi stivali neofederalisti, secondo l’interpretazione di Balestrini, che si trastullano al gioco della palla: passion predominante che accomuna popolo bue e casta, fatto salvo, naturalmente, l’esibito mercimonionio delle giovin principianti, sostegno da una parte del senile allure del Sultano - efficace a far presa sulla parte mascolina dei più primitivi sudditi, benché prodotto dai prodigi recenti della farmaceutica - dall’altra oggetto di esecrazione e di infiniti intrattenimenti mediatici; che è quanto poi le note vicende del contestuale mignottaio hanno consegnato all’opinione pubblica internazionale, come allusivamente suggerisce l’icona tridimensionale, tattile e profumata del belga Bleus? Assomiglia invece, l’Italia, al profilo della formosissima donna mollemente distesa, una giorgionesca Venere abbandonata all’inerzia, sullo sfondo del paesaggio sinestetico di Pignotti? Quello che ha sventolato e sventola sul Palazzo nell’anno in corso è poi davvero un tricolore che sottende una trama di menzogna (Xerra) o invece un vessillo inquietante, dove il bianco si è dissolto e tutto sembra sprofondare nel nero come suggerisce il portoghese Aguiar? Dietro la I dell’Italia l’olandese Clavin vede forse per questo ancora l’immagine del duce, un mito che in molte coscienze non è mai tramontato, così come stenterà a tramontare l’infatuazione per un premier a tempo perso nelle teste degli emulatori di terza categoria.

Per quanto ci si possa affidare all’ottimismo di chi fa professione incondizionata di stima, di chi pensa che ancora lo “stellone d’Italia”, su cui scrive Lista, brilli sulla nostra patria fragile e derelitta, come lo spagnolo Vega, che ci consegna un sonetto formato coi copertoni di un bolide vincente, oppure ci si possa abbandonare all’amara ironia che sottende il testo di Bory, ciò che le vicende recenti ci suggeriscono sembra il tracciato di un percorso di distruzione progressiva della nazione, un suicidio collettivo, come quello messo in scena con sarcasmo da un artista francese, profondamente legato al nostro Paese per ragioni culturali, poetiche e affettive come Blaine. Un suicidio doloroso, pensando a quanto complessa sia stata, a quanta fatica e sangue sia costata la costruzione di un’identità culturale e di una patria comune, come ci ricordano il saggio sulle vicende risorgimentali della Montale o quello sulla lingua di Coletti, nonché i versi di Roversi, Ramat e Puccini. Un’identità la cui coscienza, dopo esser stata innestata nel sentire comune e familiare, come ci raccontano Milani e Salvago Raggi, rischia nuovamente di essere dispersa da una classe dirigente e imprenditoriale del tutto irresponsabile, avida e incapace. Forse davvero oggi l’ 8 settembre, più che il 2 giugno, dovrebbe assurgere a data per le celebrazioni repubblicane.

Un suicidio, quello italiano, tanto più evidente nella congiuntura della crisi del sistema economico occidentale, estinti ormai gli entusiasmi senza riserve che hanno salutato l’ondata neoliberista degli anni Ottanta che ha accompagnato la dissoluzione dello spettro comunista (evocato con una mediazione sorprendente nei caustici versi di Lunetta), i cui effetti stanno ora consumando il fragile tessuto sociale italiano e bruciando gli orizzonti delle nostre giovani generazioni, destinate alla miseria da un esiziale sistema giuslavoristico, di cui sta dando conto la recente narrativa analizzata da Pegorari, o, peggio, non son poche le ragioni per temerlo, al macello.

Schiacciata da un debito pubblico gigantesco nuovamente in crescita, originato dal sistema di corruzione e connivenze degli ultimi decenni, rimasto sostanzialmente intatto, l’Italia oggi pretende di correre al pari delle altre nazioni sviluppate mantenendo la zavorra sempre più pesante di una spesa militare sproporzionata alle sue possibilità e che non ha neppure garantito alcun ritorno in termini di credibilità e prestigio: la recente vicenda libica, ricordata da Carlino, insegna. A dar la misura dell’irrazionalità di tali scelte, sostenute dalla sigla equivoca delle “missioni di pace” in terre sempre più martoriate come quelle evocate dai versi dolenti di Jolanda Insana, è esemplare la vicenda della portaerei “Cavour”, costata grosso modo, 1 miliardo e 300 milioni di euro, impiegata in un’unica missione (i soccorsi ad Haiti, alla modica somma di 200mila euro per ogni giornata di navigazione), e ora destinata al declassamento a semplice portaelicotteri per il probabile accantonamento del progetto dei caccia Lockheed Martin che avrebbe dovuto imbarcare. Il passo successivo in questa follia potrebbe essere, chissà, quello di destinare al servizio di ambulanza e pronto soccorso i cingolati dell’esercito, dopo che alpini, paracadutisti e bersaglieri abbiano degnamente sostituito nelle loro funzioni vigili urbani e scopini municipali. A ciò si aggiungano il costosissimo sistema di prebende e regalie allo Stato Pontificio (complessivamente oltre 4 miliardi all’anno, a quanto si legge, e su questo sfondo si vedano le considerazioni di Buffoni), un sistema politico pletorico e inefficiente, altrettanto costoso, e uno spaventoso tasso di evasione fiscale, valutato intorno ai 300 miliardi annui.

Per tutto questo e per gli interessi che dietro vi si celano l’Italia, quella umile e nascosta cantata da Loi, la cui vita, come scrive De Signoribus, sembra voler tornare ai cupi albori delle lotte per la sopravvivenza nelle società protoindustriali, ha visto regredire la speranza, per usare questa volta l’espressione di Sanchi, sacrificando sempre più scuola, ricerca, sanità, diritti e servizi, previdenza, cultura e giustizia, sulla quale dan conto gli scritti di Gian Carlo Caselli e Adriano Sansa. Contro questi settori si è esercitata nei nostri tempi l’aggressione sistematica dei mezzi di comunicazione asserviti alla politica irresponsabile di quelli che Nota chiama nei suoi versi i banditi democratici, essa stessa asservita agli interessi di ristretti gruppi sociali parassitari, della finanza e dei monopoli, che hanno cercato di convincerci che tutto ciò che è sociale sia socialista e tutto ciò che abbiamo in comune sia comunista, per dirla con Bajini, e dunque da deprecare e distruggere, dopo aver ridotto al minimo gli spazi della cultura critica e della funzione intellettuale, come ci rappresenta nel suo saggio Nicolao.
*
Sopra lo stato presente nasce da un’idea di due anni fa, condivisa con l’amico Gianni D’Elia dopo un incontro poetico savonese e durante una chiacchierata conviviale in cui ha preso forma il titolo leopardiano che oggi la definisce. A lui va la nostra gratitudine, non solo per l’intervento fornitoci, presentato a maggio alla Biblioteca della Camera dei Deputati, ma anche per la collaborazione nel reperire parte significativa degli altri contributi. Un ringraziamento sentito va anche ad un altro amico, Giovanni Fontana, che ha coordinato l’inserto di poesia verbovisiva, coinvolgendo alcuni dei nomi più noti nel panorama mondiale del settore, e che ci ha consentito di comprendere in questo numero la testimonianza di uno dei tributi artistici più significativi ai centocinquanta anni dell’ Unità d’Italia: l’Elegia per l’Italia concepita da Ennio Morricone ed eseguita pochi mesi fa alla presenza del Presidente della Repubblica.

martedì 20 dicembre 2011

Dino Campana, Genova



Città sfuggente e misteriosa, fatta di pietra e vento, Genova attirò a se Dino Campana con un abbraccio che sapeva di mare. E lui la cantò nei "Canti orfici" come si canta un'amata a lungo cercata.

Dino Campana

Genova




Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l’anima partita
Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente
illustrato del giardino il verde
Sogno nell’apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblìo parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio.

Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande: Come le cateratte del Niagara Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare: Genova canta il tuo canto!

Entro una grotta di porcellana
Sorbendo caffè
Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce
Tra le venditrici uguali a statue, porgenti
Frutti di mare con rauche grida cadenti
Su la bilancia immota:
Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale
Su per l’erta tumultuante
Verso la porta disserrata
Contro l’azzurro serale,
Fantastica di trofei
Mitici tra torri nude al sereno,
A te aggrappata d’intorno
La febbre de la vita
Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto
Instornellato de le prostitute
E dal fondo il vento del mar senza posa.

Per i vichi marini nell’ambigua
Sera cacciava il vento tra i fanali
Preludii dal groviglio delle navi:
I palazzi marini avevan bianchi
Arabeschi nell’ombra illanguidita
Ed andavamo io e la sera ambigua:
Ed io gli occhi alzavo su ai mille
E mille e mille occhi benevoli
Delle Chimere nei cieli:. . . . . .
Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di
Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
Dentro il vico marino in alto sale,. . . . . .
Dentro il vico chè rosse in alto sale
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita,. . . . . .
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!
«Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì: .....»
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca. . . . . . . .
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì. . . . .
Di già tutto d’intorno
Lucea la sera ambigua:
Battevano i fanali
Il palpito nell’ombra.
Rumori lontano franavano
Dentro silenzii solenni
Chiedendo: se dal mare
Il riso non saliva. . .
Chiedendo se l’udiva
Infaticabilmente
La sera: a la vicenda
Di nuvole là in alto
Dentro del cielo stellare.

Al porto il battello si posa
Nel crepuscolo che brilla
Negli alberi quieti di frutti di luce,
Nel paesaggio mitico
Di navi nel seno dell’infinito
Ne la sera
Calida di felicità, lucente
In un grande in un grande velario
Di diamanti disteso sul crepuscolo,
In mille e mille diamanti in un grande velario vivente
Il battello si scarica
Ininterrottamente cigolante,
Instancabilmente introna
E la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
Corrono i fanciulli e gridano
Con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
I viaggiatori alla città tonante
Che stende le sue piazze e le sue vie:
La grande luce mediterranea
S’è fusa in pietra di cenere:
Pei vichi antichi e profondi
Fragore di vita, gioia intensa e fugace:
Velario d’oro di felicità
È il cielo ove il sole ricchissimo
Lasciò le sue spoglie preziose
E la Città comprende
E s’accende
E la fiamma titilla ed assorbe
I resti magnificenti del sole,
E intesse un sudario d’oblio
Divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
Ombre di viaggiatori
Vanno per la Superba
Terribili e grotteschi come i ciechi.

Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
Il vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
Mentre il porto in un dolce scricchiolìo
Dei cordami s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.

O Siciliana proterva opulente matrona
A le finestre ventose del vico marinaro
Nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri
Classica mediterranea femina dei porti:
Pei grigi rosei della città di ardesia
Sonavano i clamori vespertini
E poi più quieti i rumori dentro la notte serena:
Vedevo alle finestre lucenti come le stelle
Passare le ombre de le famiglie marine: e canti
Udivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea:
Ch’era la notte fonda.
Mentre tu siciliana, dai cavi
Vetri in un torto giuoco
L’ombra cava e la luce vacillante
O siciliana, ai capezzoli
L’ombra rinchiusa tu eri
La Piovra de le notti mediterranee.
Cigolava cigolava cigolava di catene
La grù sul porto nel cavo de la notte serena:
E dentro il cavo de la notte serena
E nelle braccia di ferro
Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.



They were all torn
and cover'd with
the boy's
blood

venerdì 16 dicembre 2011

All'ombra delle ciminiere: 40 anni di carbone e tumori a Savona



Venerdì 16 dicembre ore 18 Sala Rossa del Comune di Savona:
presentazione del libro

All’ombra delle ciminiere
40 anni di carbone e tumori a Savona

Incontro con l’autore
GIOVANNI BORRELLO

Sarà presente
ANGELO BONELLI
Presidente Nazionale della Federazione dei Verdi.

Introduce
FRANCO ZUNINO
di PRC, ex Assessore Regionale all’Ambiente.

Saranno presenti diverse associazioni e partiti
che sostengono la battaglia contro il carbone.

La centrale termoelettrica di Vado Ligure, entrata in funzione nel lontano 1970, non ha mai smesso di far parlare di sé negli ultimi quarant’anni a causa degli allarmi e delle critiche sollevati da medici, scienziati e politici riguardo alla fuoriuscita di elementi inquinanti dai fumaioli. Una questione calda, scomoda che ha spesso preso le sembianze di mera diatriba politica, ma che nella realtà coinvolge le vite di migliaia e migliaia di abitanti della provincia di Savona che respirano un’aria secondo molti inquinata all'inverosimile.
Il libro cerca di ricostruire, con un linguaggio accessibile a tutti, i quarant’anni di storia della centrale, delle lotte contro l'inquinamento, delle ricerche atte a rilevare le quantità di inquinanti, delle rassicurazioni sulla salubrità dell’aria, delle incredibili contraddizioni tra schieramenti politici avversi.
Un'opera che, per la prima volta, porta il lettore a comprendere e conoscere tutte le varie fasi di quel “problema Vado” che ha imparato a conoscere negli ultimi anni grazie al massiccio interesse dei media per l'argomento. Dalla gestione ENEL all’attuale società Tirreno Power, dagli anni Settanta agli albori del nuovo millennio; una carrellata di informazioni ricostruite cronologicamente e supportate da documentazione giornalistica, scientifica e culturale in genere.
Per decenni è stato detto ai savonesi che ‘va tutto bene’, ‘non ci sono pericoli…’
Ora i dati ci sono, e parlano per la Provincia di Savona di migliaia di morti premature in più rispetto alla media regionale (1.356 decessi in più fra i maschi e 1.308 nelle femmine in soltanto 16 anni), con percentuali che peggiorano quanto più ci si avvicina alla centrale, in particolare per i tumori al polmone, vescica e laringe, le patologie cardiovascolari come infarti, emorragie cerebrali, ictus.
Migliaia di morti in più a Savona, senza che nessuno degli amministratori abbia mai provato a fornire una spiegazione.
La centrale ha iniziato a funzionare negli anni ’70 in via sperimentale, e continua a funzionare ancora oggi, pur non essendo allineata alle normative in materia e benché sia ancora priva della obbligatoria Autorizzazione Integrata Ambientale. Nonostante tutto ciò, i manager di questa centrale hanno chiesto e recentemente ottenuto l’ampliamento di potenza, nonostante la contrarietà del territorio e della popolazione (tutti i 18 Comuni interessati hanno deliberato contro, oltre che partiti, associazioni, personalità locali, ordine dei medici, curia), una cittadinanza che non vuol veder compromessa la sua importante vocazione turistica e agroalimentare.

Périgord: comment sauver l'occitan



Riceviamo e volentieri pubblichiamo


Périgord: comment sauver l'occitan
La langue est menacée. Un schéma départemental sera mis en place

L'occitan ? C'est une richesse, mais un patrimoine menacé. Une enquête réalisée en 2008 par le Conseil régional montre que 68 % des Périgourdins sont attachés à la langue et à la culture occitanes. Mais seulement 11 % le parlent quotidiennement.

Les locuteurs ont dans une large majorité plus de 60 ans. Et ils sont de moins en moins nombreux. L'enseignement ne parvient pas à combler ce déficit, même si le nombre d'élèves est en augmentation. D'où la nécessité de réagir. Si on ne fait rien, la langue est appelée à disparaître.

Les pouvoirs publics ont pris conscience de cette réalité. C'était l'objet de la réunion organisée par le Conseil général, mardi soir au Centre départemental de la communication à Périgueux, en présence d'élus et de responsables associatifs.

Création artistique

« Le Département a mené depuis plusieurs années une politique de soutien, par l'intermédiaire de l'agence culturelle départementale », a rappelé Serge Eymard, vice-président du Conseil général en ouvrant la séance. Le pôle occitan qui compte quatre membres est dirigé par François Lagorce.

Jean Ganiayre, délégué à l'occitan, soulignait le chemin parcouru depuis la création en 1986 du Comité Périgord pour la langue occitane (CPLO) par Roland Dumas et qui recevait des financements du ministère… des Affaires étrangères.

Aujourd'hui, l'objectif est de mettre en place, en lien avec la Région, un schéma départemental. Il aura plusieurs axes : l'enseignement de la langue ; sa socialisation, c'est-à-dire sa présence dans la vie de tous les jours ; les médias ; le patrimoine oral dans lequel rentre la collecte « Mémoire(s) de demain » ; et enfin la création et la diffusion artistiques.

Une concertation

Ce schéma sera soumis à l'assemblée départementale au printemps. D'ici là, une concertation sera lancée avec les partenaires et associations. Et un forum sera ouvert sur le site du pôle occitan de l'agence culturelle (1). De plus, un événement autour de l'occitan se déroulera en juin 2012 à Bourdeilles.

(1) www.perigordoccitan.org

giovedì 15 dicembre 2011

Nasce il Presidio genovese del MAP



Domenica 18 alle ore 17 inaugura al Piano Nobile di Palazzo Imperiale in Piazza Campetto il Presidio Genovese del MAP, il museo nomade di Arti Primarie attivo già a Savona e Vendone, dopo un lungo periodo di attività nelle Albisole.

Lo spazio è suggestivo...circa 900 mq organizzato in grandi saloni affrescati da Luca Cambiaso e Giovanni Battista Castello, grandi teche in ferro e cristallo sospese sui muri e illuminate da sofisticati led flessibili che oggi sono puntati sulle terrecotte della collezione permanente del MAP: Africa, Oceania,Asia Minore, Cina, dal Neolitico al Novecento.

C'è anche una piccola e attrezzata sala multimendiale utilizzabile per conferenze e videoconferenze che valorizzeranno in modo significativo l'obiettivo della comunicazione multimediale caratteristico di Tribaleglobale.

Le opere di Arte Primaria esposte in modo permanente dialogheranno con opere d'arte moderna e contemporanea attraverso eventi che per periodi di circa quattro settimane si alterneranno contaminando ulteriormente gli spazi espositivi: si inizia con una serie di ceramiche realizzate tra il 1972 e il 1979 da Enzo L'Acqua. Sono " texture" che vennero realizzate immergendo tessuti usati all'epoca dai lavoratori del porto nella terre bianca liquida: dopo l'asciugatura risultava un corpo unico che, liberato delle parti superflue con aria compressa, veniva posizionato su una piastra di terracotta e cotto in un'unica cottura. Sono previste collettive e mostre di personali di artisti tra cui Filippo Biagioli, Andrea Mattiello, Mino Parodi, Graziella Piccone, Claudio Ruggieri. Musica, video e fotografia avranno costantemente spazio : si comincia il 18 gennaio con il Coro della Comunità Ebraica Ligure.

Presenterà le attività il Sovrintendente generale del MAP Giuliano Arnaldi.

Un particolare curioso... ai visitatori viene consegnato un volantino che contiene solo codici qr: scansionandoli si ha accesso all'intero database di immagini di Tribaleglobale

Lo spazio è visitabile a titolo gratuito fino al 31 dicembre, ed è aperto il venerdì dalle 16 alle 18.30, il sabato dalle 10 alle 1 e dalle 16 alle 18.30 oppure su appuntamento telefonando al numero 329.9611927

martedì 13 dicembre 2011

venerdì 9 dicembre 2011

A Vendone si inaugura "L'archivio della felicità"



Domenica 11 dicembre alle ore 11 nella piazza Martiri della libertà a Vendone nell'entroterra di Albenga verrà inaugurato "L'archivio della felicità" con la posa delle prime fotografie. Abbiamo intervistato Giuliano Arnaldi, ideatore dell'installazione realizzata dalla Fondazione Tribaleglobale con il patrocinio del Comune di Vendone e della Proloco

Cos'è "l'archivio della felicità"?

Ti rispondo con le parole del testo che spiega a chi passa sulla collina più alta di Vendone, tra la Chiesa e il Municipio, il senso del curioso muretto che come un lungo filo del colore del sole corre lungo la strada provinciale. Sul muretto tante piastrelle in ceramica con riprodotte fotografie antiche e moderne, a colori e in bianco e nero.

"Questo è un archivio di immagini felici, ricordi di gioia e di allegria: serve per parlare di noi, di come siamo fatti . Vogliamo presentarci così a chi incontriamo sul nostro cammino.
Siamo cresciuti nella faticosa serietà del lavoro, a volte nella sofferenza ma con un grande patrimonio di felicita' costituito con i nostri cari, i nostri amici, i nostri convincimenti, le nostre tradizioni.
Siamo fieri di ciò che siamo, orgogliosi della nostra appartenenza e perciò rispettosi e interessati alle appartenenze degli altri , convinti che l'identita' sia una forza e la diversità una risorsa.
Benvenuti nell'archivio della felicita' della gente di Vendone."

Come sono state scelte le fotografie?

Sono tutte immagini di felicita': battesimi, matrimoni, scampagnate, feste di paese, e sono state messe a disposizione dalle famiglie di Vendone: quelle presenti nel paese da prima degli anni 70 del secolo scorso hanno dato foto in bianco e nero, le altre a colori.

Scusa la domanda impertinente, ma allora è una specie di "come eravamo", un "amarcord" del paese?

Può sembrarlo a una lettura superficiale, ma è molto di più. In realtà è il frutto di una ricerca sulle potenzialità del mezzo tecnico (la fotografia) che diventa riflessione sul linguaggio delle immagini e sulla simbologia identitaria complessa e articolata che questo sottintende. Da qui a passare a riflettere sul senso della vita, il passo è breve.

Spiegati meglio

La fotografia e' stata il primo linguaggio di massa a cambiare la relazione con la memoria personale e collettiva. Fino a pochi anni fa, come ogni linguaggio, aveva i suoi riti, complessi e articolati come gli strumenti usati : camere oscure, lastre, pellicole. Tutto ciò rendeva unica ogni fotografia, e affidava ogni ricordo al tempo, destinandolo ad invecchiare con esso.

L'era digitale semplifica, velocizza e certamente offre nuove, straordinarie opportunità anche se nessuno ci può dire quanto simili prodotti resisteranno : per questo abbiamo scelto un supporto "solido" come la fotoceramica per fare memoria del patrimonio di felicita' rappresentato da queste immagini: e' un richiamo alla consapevolezza della necessita' di fermarsi, ogni tanto, e prendere fiato per percorrere il cammino della vita con un ritmo più consapevole.




Giuliano Arnaldi vive e lavora a Savona. Sovrintendente Generale del MAP, Museo di Arti Primarie di "Saona". Appassionato ed esperto di arte primarie, prevalentemente africane: ideatore e coordinatore del format culturale TRIBALEGLOBALE, ha curato eventi in luoghi diversi : 2000 -London, Black Soul, Nice 2004 Africa Anima del mondo in contempornea in diversi spazi museali e archeologici privati e pubblici, Il Padiglione della Marginalità nell'ambito della 52 Biennale di Venezia , la riapertura ( dopo ven'anni di chiusura) nel 2004 della casa Museo Jorn ad Albissola Marina.

giovedì 8 dicembre 2011

Presentazione di "Ricomporre Ipazia" a Noli

domenica 4 dicembre 2011

Produzione olearia nel ponente ligure all'inizio del '900




"Produzione olearia del ponente ligure a livello industriale, all'inizio del '900"


Lunedì 5 Dicembre 2011 - ore 17

Biblioteca Universitaria di Genova Via Balbi, 3 – Sala di Lettura

In occasione delle manifestazioni legate alla Giornata dell’Alimentazione, la Biblioteca Universitaria presenta la produzione olearia ligure a livello industriale dei primi del ‘900 attraverso le pagine della rivista “La Riviera Ligure” diretta da Mario Novaro (1895-1919)

Parteciperanno all’incontro l’arch. Maria Novaro e l’arch. Marco Vimercati

Saranno realizzate vetrine a tema su materiale pubblicitario dell’industria olearia dei primi del ‘900.


sabato 3 dicembre 2011

Da leggere: Nico Orengo, Gli spiccioli di Montale



Un piccolo libro scritto per la morte di un uliveto distrutto dalla speculazione edilizia. Immagini di una Liguria sospesa fra sogno e realtà che arrivano dritte al cuore, come lampi di luce intravisti nel gioco capriccioso delle onde sul mare.

La nostalgia non è più quella di un tempo

In un elzeviro apparso sul "Corriere della Sera", Eugenio Montale scriveva nel ‘54 che Paul Cézanne "più volte negò l'elemosina al poeta mendicante Germain Nouveau, seduto sugli scalini del duomo" ad Aix-en-Provence.

Su questo episodio, o forse diceria, si fonda il titolo d'uno smilzo e bellissimo libro di Nico Orengo, "Gli spiccioli di Montale": il sottotitolo recita "Requiem per un ulivo", giacché fra le scaturigini della narrazione v'è la sparizione probabile d'un pezzo del ponente ligure, minacciato dalla furia della speculazione edilizia.

All'epoca della prima uscita del volume (per Theoria, nel 1992), l'ergersi a difesa di codeste terre con le proprie armi di scrittore causò al Nostro un processo per diffamazione: risoltasi favorevolmente la controversia giudiziaria, ci viene infine e fortunatamente restituita la possibilità di godere d'una delle opere sue più nitide.

Sul filo della memoria, in modi sospesi fra letteratura e poesia, veniamo chiamati ad un viaggio al confine ligure tra Italia e Francia, attraverso posti incantati (Villa Hanbury ed i suoi giardini, il mercato di Mentone, Capo Mortola e la Piana di Latte): mentre, dallo sfondo e dal tempo, emergono personaggi indimenticabili come gli incupiti Laurel ed Hardy di "Atollo K", loro stanco e malinconico congedo girato a Nizza.

C'è, nella scrittura di Orengo, una musicalità che ben s'attaglia all'aspirazione sua di dar concretezza ad un "sospiro d'amore, una macchia nella memoria, un'ombra dietro al cuore": adoprando colori tenui e pennellate morbide, infatti, egli riesce a trasmettere al lettore sensazioni ed emozioni provate nel guardare alla natura, inseguire ricordi, perdersi in incanti.

Privo d'una vera e propria struttura portante, il racconto procede per illuminazioni: ed è bello smarrirsi sulle piste di luoghi magari a noi sconosciuti, ma resi vividi dalla maestria e dall'amore di questo nocchiero garbato ed insinuante. Un cesellatore della parola scritta, che conosce l'arte di ammaliare.

(Da: http://www.italica.rai.it/)

Nico Orengo
Gli spiccioli di Montale
Einaudi, 2001
Euro 8,26

Un assaggio...

"Tornando giù da Cagnes, dopo aver constato che la moussade del mare non appariva nè dall'uliveto lassù, nè dalla torre del castello dei Grimaldi, pensavo al mare che avevo visto all'età del ragazzino del museo Renoir. Un mare che si colorava con le stagioni e profumava. Era il mare delle albe di pesca, quando bruno mi veniva a svegliare tirando da sotto la finestra, in giardino, la lenza che mi ero legato, la sera andando a dormire, al pollice di un piede. mare di giugno che fioriva con le barchette di san Giovanni, in leggero cristallo. Mare immobile d'agosto, con i pampani che salivano per l'oppressione a pelo d'acqua. Mare trasparente di dicembre quando i polipi rosa camminavano sulla roccia delle riva. Mare di primavera quando l'alga bionda faceva ondeggiare i fondali. Mare viola, azzurro, bianco, verde. Un mare per ogni godet di Windsor & Newton. E io avevo fogli su fogli con prove di mare. Ma ancora mancava di vita, di tremore. Era ancora un mare disegnato, fermo.

Volevo ripassare mare, ulivi e cielo, lontano dal luogo di emozione. Lontano dalla Piana di Latte. Sarei tornato a Nizza a cercare sul mare la melanconia di Stan Laurel e Oliver Hardy, sarei andato ad Apricale, dove ancora c'erano grandi oliveti. Per il cielo non sapevo ancora se avrei scelto Grasse o Castelar, il cielo di Grasse era più alto e più secco, quello di Castelar più basso e più umido. Potevo provare i colori dal vero, sarebbe stato come cercare le facce per i protagonisti di un racconto. Dovevo, quei colori, vederli muovere, attraverso le ore del giorno, vedere di che pose, di che tic si sarebbero caricati".

(Da: Nico Orengo, Gli spiccioli di Montale, pp.43-44)

martedì 22 novembre 2011

Nel segno della donna




Nel segno della donna
Mostra di arte contemporanea


Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, via Jacopo Ruffini 3, Genova
dal 18 novembre al 18 dicembre 2011


ART Commission, nell’ambito del Festival dell’Eccellenza al Femminile, presenta la mostra di arte contemporanea “ Nel segno della donna”, curata da Virginia Monteverde e Liliana Leone, con la partecipazione di otto artiste provenienti da diverse città europee.
Interverranno Francesca Serrati, responsabile del Museo di Villa Croce, e il critico d’arte Sandro Ricaldone.

Artiste: Ellen Boerner, Adriana Desana, Georgia Fambris, Maria Rosanna Fossati, Lory Ginedumont, Margherita Levo Rosenberg, Federica Marangoni, Nina Staehli.

La mostra, fin dal suo titolo, si propone di esprimere sia il segno grafico che le artiste rappresentano attraverso video, installazioni, pittura, fotografia, sia una sensibile capacità di lettura della complessità contemporanea, in grado di lasciare, con sguardi possibili sul futuro, segni forti del loro pensiero.

Le opere d’arte, mediante il raffinato impiego di tecniche e tecnologie artistiche sofisticate e sottili, rendono narrabile l’universale molteplicità delle relazioni umane e le loro infinite rappresentazioni.

La mostra si rende così testimone di un passaggio non più eludibile della crescita integrale ormai in atto dell’arte con la vita, del corpo con la mente, attraverso il riconoscimento di una produzione artistica al femminile, fondamentale per la trasmissione della nostra cultura e delle nostre conoscenze.

mercoledì 16 novembre 2011

Silvio Accame storico e intellettuale

Bologna: Convegno su Francesco Biamonti


Libreria delle Moline, Via Delle Moline 3/A, Bologna

in collaborazione con Associazione Amici di Francesco Biamonti

"da noi il mare sale per rocce e per dirupi con il suo respiro"

Paesaggi, luce e silenzi sospesi sull'abisso: l'officina letteraria di Francesco Biamonti

venerdì 18 novembre 2011 - ore 18.00

sull'opera di Francesco Biamonti, a dieci anni dalla scomparsa

domenica 13 novembre 2011

Francesco Biamonti, Se il mondo risorge



Uno degli ultimi scritti di Francesco Biamonti, apparso su La Stampa nel dicembre 2000. Un messaggio di speranza, ancora più significativo se si pensa che l'autore era già gravemente ammalato.

Francesco Biamonti

Se il mondo risorge

Nel silenzio le cose si rigenerano, si mostrano stranite e foreste, rivelano il loro lato eterno. Silenzi dolcissimi degli uliveti, del cielo che tocca le rocce, silenzi metafisici del mare; del cielo stellato, dell’interiorità dell’amicizia e dell’amore, della speranza e della nostalgia. Sono cose che non finiranno mai e che anzi diverranno fondamentali. Sono state minacciate dall’eccesso di ideologie, oscurate e svilite, ma, con la caduta dello storicismo, torneranno a campeggiare.

Ci sarà un ritorno alle cose stesse? Sì, perché è destino umano abitare un mondo, anche se è destino umano sognarne un altro. Gli scrittori più affascinati dalla storia e dal fare (Malraux, Saint-Exupery) hanno instaurato nel cuore dell’azione l’istante della contemplazione per dare un senso, una forma al contenuto del loro vivere. Hanno in qualche modo sabotato la loro stessa azione.

Una ricerca di valori in un mondo degradato? Che cosa regge in questo secolo che muore? Secolo greve di tirannidi, di sterminii, di ricostituzioni di orde barbariche, di fanatismi, con poche voci sovrastoriche, e inascoltate.

Direi che non regge niente, e per questo si va al fondamentale: mare, cielo, antichità della pietà, antichità della grazia. Il resto sembra un mondo perduto, abbandonato a polverosi fantasmi macchiati di sangue.

Ma qualche sogno sprigiona uno spoglio oggetto di Morandi, un roccia di Cézanne che il cielo frange. Il mondo in qualche modo risorge. Può essere, sfrondate le ideologie, l’alba del millennio?



giovedì 10 novembre 2011

Terra d'Oc: Roaschia, la via del latte


Sulle strade dei pastori delle valli occitane. Pagine bellissime di Marco Aime che sono insieme trattato antropologico, testimonianza e ricordo di un mondo ormai quasi scomparso.

Marco Aime *

La via del latte

Fino a circa trent'anni fa, verso la fine di settembre, la piazza di Roaschia veniva invasa dalle pecore; ce n'erano persino davanti alla porta della chiesa. I pastori erano scesi dalla montagna e si preparavano a partire, a piedi, verso la pianura: nell'Astigiano, in Lomellina, nella pianura Emiliana. Viaggiavano con il "cartun", un carro ricoperto da un telo dove dormivano i bambini e gli agnellini, gli altri dormivano fuori. Lungo la strada raccoglievano un po' di legna, accendevano un fuoco e si preparavano da mangiare. Sarebbero ritornati in primavera, verso la metà di maggio, per incamminarsi nuovamente lungo i sentieri dei pascoli.

Roaschia è posta in una conca delle Alpi Marittime, al termine di un vallone laterale della Valle Gesso. Il paese è dominato dalla cima rocciosa del Casternaut, mentre più lontano si intravvede il Bec d'Ourel che deve il suo nome alla leggenda secondo la quale il figlio del re di Francia, innamorato della bellissima Reino Jano (Giovanna d'Angiò) la inseguiva per le vallate della terra d'Oc sperando di conquistare il suo cuore. La regina fuggendo si rifugiò nel vallone di Palanfrè e, il principe, giunto a Roaschia, si scontrò contro il silenzio dei suoi abitanti. Nessuno volle rivelare dove la regina si trovava.

Questo affronto gridava vendetta, ma prima di pensare quale punizione avrebbe inferto ai Roaschiesi, salì sulla vetta più alta per cercare di avvistare la fuggitiva. La montagna improvvisamente si spaccò facendo precipitare il principe e tutto il suo seguito. Da allora quel picco venne chiamato "Bec dou Rei", poi trasformato in Bec d'Ourel. Questa è leggenda, la realtà di Roaschia è quella di quasi tutti i comuni montani, segnata da uno spopolamento che ha causato un grande impoverimento delle valli. Il paese, che prima dell'ultima guerra vantava oltre mille anime, è oggi abitato da un'ottantina di persone.

In passato gli abitanti di Roaschia si dividevano in due gruppi: i "Gratta" (così venivano chiamati i pastori, per la loro abitudine a "grattare" ciò che trovavano sulla loro strada) e i "Vernenc", i contadini, così chiamati poiché erano i soli a trascorrere l'inverno al paese. «Ci chiamavano "gratta" - dice Toni, un ex pastore - perchè in fondo vivevamo anche sulle spalle degli altri. Poi per strada, se non ti vedevano, qualcosa "grattavi". Se c'era un po' di nebbia ti guardavi attorno e poi lasciavi che le pecore mangiassero, magari dove c'era della bella "medica". Ogni tanto si grattava!».

Non c'è mai stato troppo accordo tra i due "partì" come li chiamano qui: «Rispetto ai contadini la nostra vita era più brutta. Loro lavoravano e faticavano tutto il giorno, ma poi andavano a dormire nella loro stanza. Noi avevamo una tenda vicino al carro e basta. Adesso la Comunità montana ha rimesso a posto gli alpeggi e ne ha fatti di nuovi, ma una volta portavamo su un telo, poi alzavamo un muretto a secco, mettevamo dei colmi e ci rifugiavamo sempre lì. per quattro mesi, dalla fine di maggio alla fine di settembre. Ci si dava un po' il cambio a stare su. Un po' stavamo io e mio padre, poi dopo 15 giorni andava su un mio fratello e così via perchè làssù è la "vita del ribelle". Sempre in montagna, sempre, sempre. La montagna è bella per farci una gita, ma stare lassù: tuoni, fulmini, di tutto ... Portavamo su il pane ogni 15 giorni e dopo una settimana era duro così» dice Toni battendo la mano sulle pietre del muretto. «C'è gente che adesso ha delle ville, ma allora mandava i bambini a "garsun" da noi. Ci davano i bambini da tenere e noi li mantenevamo e qualche volta davamo soldi o formaggi alla famiglia. A noi servivano sempre degli aiutanti. Anche con un bambino era meglio che stare soli»

«Roaschia era il "posto dei pastori". Era l'unico paese del Piemonte dove c'era la scuola per i figli dei pastori. D'inverno, quando eravamo in pianura, andavano alla scuola normale, poi verso San Giuseppe si partiva. Arrivati a Roaschia il comune organizzava la scuola e i bambini potevano finire l'anno scolastico, a settembre davano l'esame e in ottobre si partiva di nuovo».




Il mestiere del pastore è quasi scomparso, solamente tre famiglie, fino agli anni della guerra erano 175, esercitano ancora la pastorizia, la grande tradizione sta scomparendo ingoiata da un'economia che non lascia più spazio alla vita del pascolo. I pastori arrivavano in paese verso la metà di maggio, risalivano la strada che da Roccavione conduce alla Villa con tutto il loro seguito di pecore e, sul carro, le loro poche masserizie. La Villa, come veniva chiamato il paese per distinguerlo dalle frazioni che erano i Tetti, era invasa dalle greggi e dai cani che le tenevano a bada. Ricordano alcuni montanari, che allora erano bambini, di come i pastori si arrabbiavano se si giocava con un cane: il cane non deve imparare a giocare, deve lavorare.

Le pecore venivano ospitate dai contadini, nei loro prati, che ricevevano così in cambio un ottimo concime per i campi. Poi i pastori prendevano la via dei pascoli, lunghe teorie di uomini e animali si snodavano lungo i sentieri che portano in alta valle. Il piccolo territorio di Roaschia non poteva sopportare tutti quegli armenti e così ci si divideva. «Andavamo verso Limone, Entracque, in Val Maira, in Val Varaita, fino in val di Lanzo! Si andava un po' dappertutto. Ogni famiglia aveva più o meno centocinquanta pecore e a Roaschia non c'era si e no posto per due famiglie. C'è stato un periodo che per portare le pecore dalla pianura facevano addirittura le tradotte, C'era la riduzione e costava meno. Si caricavano tutte le pecore a Tortona e si facevano tre o quattro treni. Il primo era all'inizio di maggio, per quelli che "avevano le montagne più basse". Gli altri venivano dopo a seconda dove avevano il pascolo. Quelli che andavano al colle della Maddalena dovevano aspettare fino a giugno.

A Limone le montagne sono "matinere": al Cros, San Giovanni, Capanna Chiara. Si andava su e si saliva per primi. Facevano un treno di 50 o 60 vagoni. Madonna! Quando arrivava a Cuneo dovevano mettere due motrici, una davanti e una dietro che spingeva. Era carico da fare paura!».
I pascoli venivano assegnati tramite un incanto:«Esponevano i "tilet", i manifesti, che c'erano dei pascoli per esempio a Tenda e chi voleva concorrere andava all'asta. L'appalto era per tre anni. L'incanto si faceva in municipio, a buste chiuse o a candele. Si mettevano dei cerini, si accendevano e si aprivano le offerte:" ... chi c'è ancora che dice, chi c'è ancora che dice lire e il cerino era ancora acceso. Arrivava un altro e diceva 310.000 all'ultimo momento, prima che si spegnesse e ti fregava. A volte te lo fregava un amico, non ti diceva niente e alzava l'offerta. Quando il cerino era bruciato finiva l'asta. Se prendevi una montagna dove ci stavano più pecore di quelle che avevi, allora cercavi un socio e "pagavi il male" a metà. Poi d'inverno ci si separava e si ritornava insieme in primavera».

«Non era una vita di fatica come quella del contadino. Per esempio verso fine stagione c'era poco da fare, stavi coricato tutto il giorno. C'era solo tanta noia. Il pascolo andava gestito bene. In genere si facevano tre "gias". All'inizio si pascolava più in basso, poi si saliva e si faceva un altro gias più in alto. Intanto l'erba maturava anche in alta quota. Così si aveva sempre l'erba migliore. Le bestie non devono camminare tanto per trovare il pascolo. Si stava 15 o 20 giorni in un posto e poi ci si spostava. la montagna si mangiava così: dai piedi alla testa. Alla testa ci arrivavi in luglio, salivi finché c'era erba. Più si sta in alto più l'erba è buona. Se vai a Roccavione l'erba viene alta, ma non è buona. L'erba alta va bene per le mucche, ma le pecore preferiscono quella corta. Quella dei pascoli alti la pecora la mette tutta nella schiena. E' una cosa a cui il pastore tiene. Se è
stata bene in estate, la pecora rende anche d'inverno. Le pecore vogliono una montagna pulita. Non sono come le mucche che sono di bocca buona. Per esempio le pecore preferiscono il secondo taglio, non il maggengo che è il primo, il secondo è più basso. Qui le montagne sono cattive, c'è solo erbaccia. Se vai al colle del Mulo o alla Gardetta allora sì. Ci sono montagne che tirano su le pecore. Anche in Francia o a Limone, in val Pesio, al Marguareis, le montagne sono favolose».



C'era però un giorno, l'unico durante il periodo del pascolo, in cui i pastori abbandonavano le loro bestie e scendevano in paese: era il 20 di agosto, S. Bernardo, patrono di Roaschia. Arrivavano le bancarelle, sulla piazza montavano il ballo e le osterie si riempivano di uomini che giocavano a carte, bevevano vino e, spesso attaccavano lite. Non sempre i Gratta erano ben visti in paese e vecchie rivalità familiari a volte scoppiavano in risse violente. Un triste episodio, legato al giorno della festa, viene ancora oggi ricordato a Roaschia: i Titun, una famiglia di pastori, che era al pascolo presso il Passo del Van, scese in paese per la festa. Improvvisamente il tempo peggiorò e le pecore, spaventate dal temporale, si diressero verso la cresta rocciosa della montagna. Furono centoventi a precipitare giù dal burrone che dà sulla Valle di Entracque, un disastro immenso per quella famiglia. A volte i pastori prendevano dei "famij", ragazzini che le famiglie mandavano a lavorare con loro in cambio di qualche moneta o di qualche derrata. Il bambino restava lontano per tutto il periodo del pascolo, poi veniva riportato alla sua famiglia assieme alla "paga", che potevaessere un sacco di grano o qualche pecora.

Le storie degli anziani pastori si intrecciano in un'unica trama fatta di solitudini, vita randagia e fame. Fino all'arrivo della seconda guerra mondiale. Questa epoca, di grandi ristrettezza per quasi tutta la popolazione, vide i pastori in posizione privilegiata: i loro prodotti divennero ricercatissimi e sempre più rari. La pecora offriva notevoli risorse: dalla lana alla pelle e tutti i derivati del latte. «Nel Piacentino la nostra merce era ricercata, valeva oro, soprattutto la ricotta, andava che era un piacere. I formaggi andavamo a venderli ad Asti, a Moretta o a Sommariva Bosco. Osella c'era già allora, non era famoso come adesso, ma comperava delle grosse partite di formaggio. Noi ci radunavamo i tre o quattro, caricavamo i formaggi sul "cartun" e andavamo per lì ad Asti per fare un "mercato". Quello veniva e comperava tutto ciò che gli serviva». Fu in quel periodo che i pastori di Roaschia riuscirono ad accumulare un certo quantitativo di denaro che servirà a porre le basi delle loro attività future. Poi gli anni sessanta, il boom industriale, la corsa alla città e allo stipendio fisso calano come un falco sulle greggi dei pastori. Le nascenti produzioni di latte e formaggi a livello industriale mettono in crisi il prodotto artigianale dei montanari. La qualità del cibo sarà un concetto che si verrà a scoprire molto più tardi, e ai gustosi formaggi dei "Gratta" vengono preferiti asettici latticini avvolti in carta colorata. Intanto l'asfalto corre sempre più veloce a ricoprire le antiche strade e i prati di pianura e le pecore diventano un ingombro che il nascente traffico stradale non può più sopportare. E sopportare non vogliono neppure più gli uomini; il relativo benessere dovuto ai guadagni recenti permette di affrontare in modo diverso la vita, si vogliono dimenticare le fatiche, la solitudine e la vita nomade, da zingaro.



I "cartun" lentamente entrano nelle stalle per non uscirne più e i pastori di Roaschia iniziano anche loro, come la maggior parte dei montanari, a scegliere la città in cui trasferirsi. Torino, Cuneo, Savona, sono le mete principali, la scelta spesso avviene perchè in quella città c'è un parente o si conosce qualcuno. Abili nel maneggiare il latte e nel ricavarne tutto ciò che è possibile, i "Ruas-cin" puntano subito sulle latterie e dopo poco tempo, con il denaro accumulato in tutti quegli anni di risparmio e privazioni, aprono dei nuovi negozi. La solidarietà che univa i pastori quando erano in montagna e si aiutavano uno con l'altro nei lavori, si traduce nelle città in prestiti vicendevoli che permettono a tanti di loro di iniziare la nuova attività. «Noi siamo venuti qui nel '58 - dice una lattaia di Roaschia - e abbiamo preso questo negozio, poi sono venuti i nostri cugini e altri dal paese. Sai, uno tirava l'altro e se c'era una latteria da vendere noi lo dicevamo a qualcuno di Roaschia». Da produttori a rivenditori, ma sempre di latticini. Dopo tutto "marghè" si
chiamano i pastori in dialetto e "marghè" sono anche i lattai. La tradizione sembra continuare, dagli ampi pascoli delle Marittime agli spigoli geometrici dei palazzi urbani, ma è sempre il latte a tenere legati questi montanari alla loro terra di origine, ai "ciabot" dove si riparavano durante i temporali estivi, al bestiame con cui convivevano tutto l'anno.

Quello che sembra quasi un segno del destino è in realtà solamente il frutto di quelle dinamiche sociali che gli uomini muovono spesso inconsciamente, ma che nascono da quel profondo legame che unisce l'uomo al proprio lavoro. Soprattutto quando questo lavoro è in realtà una forma di vita, come lo era quello dei pastori, un lavoro che non occupa solamente le classiche otto ore, ma che coinvolge l'esistenza intera delle persone. I Roaschiesi, oggi lattai, non rimpiangono la vita lungo le strade, quando percorrevano la pianura in cerca di un po' di erba per le loro pecore. C'è nostalgia per il paese, per la montagna e per l'aria pulita, ma c'è anche il ricordo di una vita passata "cuma i singher" (come gli zingari) a dormire accanto al carro e mangiare polenta e formaggio. «La vita era dura, eppure il mondo sembrava più bello di quello di oggi: la gente si accontentava. C'erano un sacco di divertimenti nelle frazioni allora, ogni sera c'erano i suonatori. Adesso vanno in discoteca, ma la differenza è solo che ci sono più soldi. Il mondo allora era più tranquillo, adesso ci sono troppi fastidi».

(Da: http://www.comune.roaschia.cn.it/storia/storia.html)

*Ricercatore di Antropologia culturale presso l'Università di Genova

mercoledì 9 novembre 2011

Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario


Una nuova traduzione, filologicamente corretta, dell'opera più importante di Victor Serge, corredata da un imponente apparato di note e di una stimolante introduzione critica di Roberto Massari. Ne presentiamo l'incipit.

Roberto Massari

L'utopia rossa di Victor Serge


C’è un Victor Serge anarchico che, reduce dal carcere e dall’internamento, raggiunge il movimento rivoluzionario nella Russia del 1919, divenendo il Serge «bolscevico» che nell’estate del 1920 scrive un panegirico molto poco libertario del processo ivi in corso:«Chi dice rivoluzione dice violenza. Ogni violenza è dittatoriale. Ogni violenza impone una volontà che spezza le resistenze... Ammetto di non concepire che si possa essere rivoluzionari (se non in modo puramente individualistico) senza riconoscere la necessità della dittatura del proletariato... Pena la morte, pena cioè l’essere immediatamente messi a morte dalla vittoria di una dittatura reazionaria, bisognerà che i rivoluzionari instaurino subito la dittatura»

E c’è un Victor Serge - sfuggito eccezionalmente allo sterminio dei vecchi bolscevichi, dopo un triennio d’internamento siberiano (Orenburg negli Urali), esule in Messico e conquistato ormai all’idea che sia indispensabile una sintesi rivoluzionaria di pensiero marxista e libertario - che scrive nell’estate del 1947, a pochi mesi dalla morte:«Il totalitarismo, così come si è instaurato in Urss, nel Terzo Reich e debolmente abbozzato nell’Italia fascista e altrove, è un regime caratterizzato dallo sfruttamento dispotico del lavoro, dalla collettivizzazione della produzione, dal monopolio burocratico e poliziesco (meglio sarebbe dire terroristico) del potere, dal pensiero asservito, dal mito del capo-simbolo...

In questo senso, la rivoluzione proletaria non è più, ai miei occhi, il nostro fine; la rivoluzione che intendiamo servire non può essere che socialista, nel senso umanistico del temine, e più esattamente socialisteggiante, democraticamente, libertariamente compiuta»

In mezzo ci sono le grandi vicende del Novecento (burrascoso dopoguerra, Rivoluzione russa, ascesa dello stalinismo, tentativi insurrezionali in vari Paesi, fronti popolari, guerra civile in Spagna, patto Hitler-Stalin, Seconda guerra mondiale, spartizione del mondo in due blocchi, sconfitta storica del movimento operaio organizzato) vissute in prima persona da un grande scrittore belga-russo, naturalizzato... apolide.

(Il testo integrale dell'introduzione può essere letto su: http://utopiarossa.blogspot.com)


martedì 8 novembre 2011

Altare: Antica Fiera di San Martino

domenica 6 novembre 2011

Ciao, Claudio



Claudio Gianetto 1952-2011

Addio vecchio amico,
compagno di quarant'anni di battaglie, di ragionamenti e di bevute.
Ci mancheranno il tuo sorriso, la tua intelligenza, la tua amicizia

martedì 1 novembre 2011

Da leggere: "Ballata per la figlia del macellaio" di Peter Manseau




Giorgio Amico

Se il destino si chiama Sasha

Prendete la pittura di Chagall, l'ironia dissacrante di Woody Allen, la saggezza antica di Moni Ovadia e le storie yiddish di Isaac Bashevis Singer. Mescolate il tutto e avrete un'idea di che cos'è "Ballata per la figlia del macellaio" di Peter Manseau, scrittore irriducibile ad ogni classificazione già a leggerne la biografia. Figlio di una monaca e di un prete che hanno abbandonato i voti (storia che narrerà nell’esilarante autobiografia "Vows: the Story of a Priest, a Nun and Their Son" ) , restauratore di antichi testi yiddish presso il National Yiddish Book Center, oggi insegnante di scrittura creativa alla Georgetown University.

Un romanzo vasto e complesso che racconta con toni a volte lievi, a volte drammatici, un secolo di storia (dai pogrom antisemiti nella Russia zarista di inizio secolo all'America degli anni Ottanta), fatto della materia, impalpabile e tenace, di cui sono fatti i sogni. Soprattutto quelli fatti a occhi aperti, la vera porta sull'inconscio secondo Jung.

Un romanzo che si fonda sulla certezza incrollabile del potere delle parole e della letteratura, unica zattera a cui aggrapparsi per sopravvivere alle tempeste della vita. Come nell'invocazione dell'oste-editore Minkovsky:

“Fa’ che la tua patria siano le tue parole.
Falle diventare il tuo amore. Ti giuro che, se lo farai,
non sarai mai senza una casa e non sarai mai disperato.
Ti alzerai ogni mattina sapendo che il mondo è tuo,
non importa in quale angolo ti sveglierai”

Un romanzo, articolato su più piani (almeno tre), fatto di storie che si intrecciano: quella di Itsik Malpesh, "il più grande poeta yiddish vivente d'America", quella di un giovane cattolico costretto per amore a fingersi ebreo ortodosso e quella, indimenticabile, di Sasha, la figlia del macellaio, la donna/bambina capace di fermare la violenza cieca degli uomini e degli eventi. Un personaggio capace fin dalle prime pagine di entrare nel cuore del lettore, di suscitarne la curiosità e l'interesse.

Storie che si intrecciano, dicevamo, pur se poste su piani temporali e spaziali diversi (la Moldavia di inizio secolo, il porto di Odessa, la Palestina dei primi pionieri sionisti, l'America degli anni venti e di oggi) a delineare i contorni di un mondo tragicamente reale, ma anche in qualche modo magicamente surreale. Proprio come l'opera di Chagall che illustra la copertina.

"L'anno venturo a Gerusalemme", diceva l'antico augurio degli ebrei della diaspora. Metafora di un sogno e insieme progetto di vita individuale e collettivo. Il ritorno alla patria degli avi, alla terra promessa. In fondo questo è "Ballata per la figlia del macellaio" che riprende attualizzandolo il tema archetipico del nostos, del ritorno a casa.

Un viaggio procelloso, contro venti e maree, alla ricerca del senso profondo della vita e della propria autentica individualità da ritrovare nell'incontro misterioso e salvifico con l'altro.



Peter Manseau

"Bashert"

Il suo libro è la biografia poetica di un poeta che non esiste. Ma lei ha mai scritto poesie? Magari per conquistare un amore, come il protagonista del suo libro?

"Ebbene, confesso: ho scritto davvero qualche poesia, e tutte per mia moglie. Una era il regalo per il nostro primo anniversario. All’epoca stavo scrivendo il mio libro ma – si sa come sono le vite degli scrittori esordienti – lavoravo anche come falegname. La mia specialità? I tetti. Piantavo chiodi sui tetti altrui otto ore al giorno, tornavo a casa e piombavo addormentato. Così intitolai la poesia "Ballata per la moglie di un conciatetti"; per farle capire che, anche arrampicato su un tetto con un martello in mano, pensavo a lei".

Lei scrive romanzi, e ha una vita da romanzo: è figlio di un’ex monaca e un ex prete, e l’ha raccontato, in modo leggero e divertente, nel suo libro, non ancora tradotto in italiano, "Vows: The story of a priest, a nun and their son". Ha più volte dichiarato di aver usato questa storia per abbordare le ragazze alle feste… E’ stato così che ha conosciuto sua moglie?

"No, quando l’ho conosciuta avevo abbandonato da tempo questa tecnica di abbordaggio, anche perché onestamente non aveva molto successo. A dir la verità per far colpo sulla mia futura moglie le dissi che ero uno scrittore, e lei rispose: "Ah sì? E che cosa hai pubblicato?". Peccato che all’epoca i miei romanzi fossero ancora nel cassetto. Diciamo che ho passato gli ultimi anni della mia vita a cercare di essere all’altezza di quello che ho raccontato a mia moglie nei nostri primi cinque minuti insieme!"

Nel libro lei parla di "bashert", termine yiddish che spiega così: "è il destino e, quindi, può significare tante cose. In questo caso bashert è la persona con cui sei destinato a trascorrere la vita". E’ questa la sua parola yiddish preferita?

"Bashert in effetti significa destino, ma in yiddish ha una dimensione più interpersonale che in altre lingue. Parlare di bashert non vuol dire parlare solo del proprio destino, ma della persona a cui il nostro destino è legato. E’ una parola intrigante, ma non è la mia preferita. Che è invece "luftmensch", letteralmente "uomo d’aria": qualcuno che sembra vivere solo d’ossigeno. Un sognatore, insomma. Senza doti apparenti, ma con molte idee. Come il protagonista del mio libro".

Lei non è ebreo, non parla yiddish, però ha scritto un libro il cui protagonista è un poeta yiddish, completamente immerso nella cultura yiddish. Ed è stato così convincente che ha vinto un premio letterario, il National Jewish Book Award.

"Non solo: quando il libro è uscito ho avuto reazioni davvero sorprendenti! Le faccio un esempio. Il padre del protagonista lavora in una fabbrica di piumini, fatti con piume d’oca, a Kishinev, e inventa una particolare tecnica di lavorazione. Tutto frutto della mia immaginazione. Eppure sono stato contattato da una donna, che mi ha raccontato che la sua famiglia aveva allevato oche per decenni in Russia, e che sicuramente mi ero ispirato a loro! L’ho rassicurata: i segreti del commercio di famiglia erano salvi, mi ero inventato tutto…".

(Da un'intervista di Lisa Corva all'autore, apparsa su "Il Piccolo" di Trieste)

Peter Manseau
Ballata per la figlia del macellaio
Fazi, 2009
19.50 euro

domenica 30 ottobre 2011

Partito della Nazione Occitana: Per un Paese Basco libero



Riceviamo dai nostri amici del Partito della Nazione Occitana (PNO) questo comunicato che volentieri pubblichiamo.

Per un Paese Basco libero

Il Partito della Nazione Occitana si rallegra della saggia decisione dell'organizzazione indipendentista clandestina basca, ETA « Euskadi Ta Askatasuna, Paese Basco e libertà», di rinunciare definitivamente all'uso della violenza.
D'ora in avanti la lotta per l’indipendenza della nazione basca verrà condotta con mezzi democratici come accade da molto tempo per la Catalogna.
La via democratica, quando ciò è possibile, non permette certo di giungere rapidamente all’indipendenza ma è preferibile alle sofferenze e ai lutti causati da una lotta armata.
Noi speriamo che la Spagna saprà rapidamente cogliere questa occasione di concludere la pace e di aprire senza spirito di rivincita negoziati con il Paese Basco riguardo alle sue rivendicazioni nazionali.

Guardare avanti



Il disastro di Monterosso rimanda alle rovine ben maggiori di un'Italia sull'orlo del collasso, segnata da un degrado economico, politico e civile che pare inarrestabile. Ma i volti puliti e sorridenti dei ragazzi e delle ragazze accorsi per spalare il fango ci ricordano che dopo l'inverno arriva la primavera e ci invitano a guardare avanti con la certezza che les mauvais jours finiront.

Niccolò Zancan

La meglio gioventù con le mani nel fango di Monterosso


La vita vince sempre. Per quanto sia retorico, succede ogni volta. Ti sorprende quando tutto sembra perduto, e in particolare in Italia, specialità della casa: emergenze, rinascite. Prima lacrime, poi sudore e generosità. Succede quando Giulia, Eliana, Federico e Lorenzo escono di casa alle nove del mattino. Hanno diciotto anni. E invece di godersi le scuole chiuse sulla spiaggia di Levanto - c’è ancora un sole caldo, turisti tedeschi, bambini e cani - aspettano un piccolo traghetto al molo. Hanno preso tutto quello che serve: focaccia, stivali, una maglietta di ricambio. Oggi vanno a Monterosso, perché Monterosso ha bisogno d’aiuto. Arrivano in tanti. Hanno facce stupende. Voci ancora acerbe, ma sogni concreti.

«Fare il cuoco». «Vorrei diventare capitano di lungo corso sulle navi». «Io vorrei fare la traduttrice». «A me piacerebbe diventare insegnante d’asilo, se si può...». Loro non lo sanno, ma questa colazione in mezzo al mare ha un gusto che non dimenticheranno più. Si mischierà per sempre anche l’odore schifoso del fango, ma non importa. Sono la meglio gioventù. Monterosso vuole rinascere. Prova a farlo anche grazie alle braccia esili di Giulia, pallida e senza esitazioni: «Non mi piace restare a guardare un disastro simile alla televisione». Tiziano, 17 anni: «Sarò un geometra. Magari un architetto». Francesco: «La mia aspirazione è iscrivermi a Ingegneria». Greta: «Io voglio aiutare i disabili». Damiano: «Studio all’alberghiero, poi non so». Intanto sono insieme, e per tutti si tratta di spalare.

Il fango è ovunque, non sai dove metterlo. Ti si attacca ai vestiti, impasta i capelli. Manca l’acqua. Non si riesce a pulire. Si può solo togliere il grosso. Ma il centro del paese di Monterosso è un autentico spettacolo. Tutto è in movimento. Uno sforzo umano perpetuo fra le casette rosse.

Andrea spazza la chiesa. Maria aiuta a sgomberare il bar. Svuotano i negozi. Francesco porta la carriola gialla fino alla montagna di fango. Avanti e indietro. E in mezzo ai ragazzi, le ruspe in manovra, gli alpini di Fossano, i volontari della protezione civile, carabinieri e residenti. Uno scambio continuo di urla e cenni d’intesa, per non finire triturati nella macchina dei soccorsi.
C’è il dottor Francesco Tani, direttore sanitario del distretto 17, con sulle spalle una bombola di ossigeno. C’è Matteo, 19 anni, da Quiliano: «Sono qui per aiutare. Da grande vorrei fare l’idraulico». Nella piazzetta hanno allestito una cucina da campo. In genere serve per una sagra di mezza estate: oggi sfama il paese intero. Il pomodoro condito è buonissimo, dopo giorni di pasta e panini. I cuochi si chiamano Carlo e Saverio. Stanno facendo il sugo con i gamberi di un ristorante costretto a scongelare tutte le scorte. Rumore di cingoli. Sugo di pesce.

Marco che fa avanti e indietro da casa sua portando caffettiere bollenti. I ragazzi con gli stivali mangiano in piedi, a piccoli gruppi. Qualcuno si abbraccia. Poi tornano a spalare. Ogni minuto succede qualcosa, anche se non è facile vederlo. Forse sul cumulo di detriti davanti alla chiesa, per esempio, sta nascendo un amore. I due spalatori volontari si sono appena dati la mano per presentarsi, molto eleganti nel disastro generale, ora sorridono e svangano. Tutti i ragazzi si assomigliano. Per i vestiti senza marchi. Per i capelli spettinati. Però alcuni hanno uno sguardo diverso. Sono quelli che non si fermano nemmeno per una fotografia. Sono i giovani di Monterosso.
«Grazie davvero - dice Giammarco Giuntini, 23 anni, barista nella zona è bello vedere tanta solidarietà. Non lo dimenticheremo». Milleduecento residenti più altri mille, fra volontari e soccorritori. Il paese brulica sotto al sole. «E qualcuno osa ancora criticare i giovani d’oggi...» dice il vicesindaco Marisa Cebrelli. Dai discorsi è quasi scomparso il racconto dell’accaduto. Non c’è tempo. Si parla di come risolvere i singoli problemi. Tutti in preda a una specie di febbre. Cosa fare, per esempio, dei banchi della chiesa? Li portano fuori, cercano di pulirli, poi li mettono al sicuro, mentre altri combattono con il pavimento.

All’improvviso arriva una notizia. «Hanno trovato Sandro!» «Sì, hanno avvistato Sandro al largo di Rio Maggiore». «Davvero?». Un anziano scuote la testa: «Le correnti...». Ma non è vero. Non l’hanno ancora trovato. Hanno scambiato un tronco in mezzo al mare - scaricato giù dall’alluvione - per il corpo di Sandro Usai, 38 anni, ristoratore e volontario del Comune di Monterosso. Martedì era andato ad aprire i tombini, quando l’onda di piena si è presa le strade. Subito si ricomincia a spalare. Al molo sta attraccando un’altra barca. Scaricano bottiglie d’acqua, pane, caffè e altri ragazzi con gli stivali di gomma. Che il dio delle belle speranze abbia cura dei loro sogni.

(Da: La Stampa del 29 ottobre 2011)