TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 27 febbraio 2016

Mia madre femminista


giovedì 18 febbraio 2016

“Liguria magra e ossuta”. Il Ponente ligure di Italo Calvino e Guido Seborga

    Guido Seborga

Il 13 febbraio 1990 moriva Guido Seborga. Con Calvino ci ha insegnato a vedere la Liguria con occhi diversi.  Noi lo ricordiamo così.

"Dietro alla Liguria dei cartelloni turistici, dietro alla Riviera dei grandi alberghi, delle case da gioco, del turismo internazionale, si estende, dimenticata e sconosciuta, la Liguria dei contadini".
(Italo Calvino)

"Dalla parte di Savona la costa è brulla, severa, coi comignoli delle fabbriche; e non c'è demarcazione tra Vado e Savona, ma un susseguirsi ininterrotto di casoni grigi e tristi".
(Guido Seborga)

Venerdì 19 febbraio 2016
ore 15.00
Sala Conferenze Opera Pia Siccardi-Berninzoni
Via Verdi 33
Spotorno

Liguria magra e ossuta”
Il Ponente ligure di Italo Calvino e Guido Seborga
Conversazione a cura di Giorgio Amico



martedì 16 febbraio 2016

Giulio II Della Rovere, il papa guerriero



Il papa guerriero

A poco più di cinquecento anni dalla sua morte, il savonese Giulio II Della Rovere ritorna in un lavoro di Massimo Rospocher: studioso attento a indagare la storia politica attraverso il caleidoscopio dei molti aspetti culturali che la compongono. L’opera ha un titolo – Il papa guerriero – che richiama una radicata tradizione storiografica: le pape terrible, il papa con l’archibugio, e – appunto – the warrior pope sono alcuni altri titoli sulla figura di questo importante pontefice del Rinascimento.

Non una rappresentazione stereotipata e falsa; ed è lo stesso Rospocher ad accogliere quella visione del pontefice in armi. Ma il titolo non deve ingannare: muovendo dalla mera res bellica, Rospocher innesta l’operato di Giulio II in un ampio “spazio pubblico europeo”, nel quale le politiche decisioniste e certamente bellicose di quel pontefice suscitarono speranze di segno opposto: di pace e di liberazione; ma anche di rovina e di blasfema mondanità.



La comunicazione politica e propagandistica sono gli strumenti privilegiati per una disamina di queste contrastanti reazioni al rumoroso operato del papa savonese. E il profilo controverso della figura di Giulio II restituisce la grande importanza del suo protagonismo negli eventi che segnarono l’Italia e l’Europa durante i dieci anni del suo pontificato. Un libro appassionante e di scorrevole lettura; ma complesso e ambizioso quanto la personalità e la tempra di Giulio II.

Il volume di Massimo Rospocher – Il papa guerriero. Giulio II nello spazio pubblico europeo, Bologna Il Mulino, 2015 – sarà presentato a Savona il 19 febbraio 2016 (sala Rossa del Comune, ore 16.00).




lunedì 15 febbraio 2016

Il culto pagano delle streghe come sopravvivenza della Società dell’Antica Europa



Pubblichiamo l'intervento di Gabriella Freccero al Convegno di Albenga del 7 dicembre 2015 su “Quando la diversità spaventa...”.

Gabriella Freccero

Il culto pagano delle streghe come sopravvivenza della Società dell’Antica Europa

“Secondo le ipotesi degli archeologi e degli storici la civiltà implica un’organizzazione politica e religiosa di tipo gerarchico, un’economia bellica. […] Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche. Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini, nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i sessi”. (M. Gimbutas, La civiltà della dea, 1991)

L’antropologa inglese Margaret Murray già nel 1921 con la pubblicazione del volume The witch cult in western europe formulava l’ipotesi che alla base del culto occidentale delle streghe vi fosse una antichissima religione pagana che risaliva a tempi molto più remoti dell’insediamento indoeuropeo nel vecchio continente, al cui centro vi era l’adorazione di una dea madre e di un dio cornuto (Horned God) da parte di una congregazione femminile di sacerdotesse ed adepte con diversi gradi di iniziazione, un culto aperto a donne e uomini che credevano in una profonda connessione tra le forze della natura, gli esseri umani e le forze soprannaturali preposte al culto della rigenerazione cosmica.



La Murray nasce come egittologa e al momento dell’uscita del libro ha alle spalle due decenni di pubblicazioni, in qualità di assistente del professor William Flinders Petrie, di resoconti delle campagne di scavo ad Abido e Saqqara che le diedero successo e celebrità e contribuirono a diffondere nel regno britannico l’egittomania. Mentre nel mondo accademico svolgeva un ruolo di mentore per altre donne che incoraggiava a dedicarsi alla professione archeologica era impegnata nel movimento femminista con marce, dimostrazioni e volantinaggi.

Nel 1933 con Il dio delle streghe ripropone in uno stile più adatto al grande pubblico i risultati degli studi sul folclore britannico; lo scetticismo con cui viene accolta la sua teoria dal mondo accademico contrasta nettamente con il favore del pubblico che consacra lo studio della Murray alcuni decenni dopo come la base ideologica del movimento neopagano della Wicca.

La ricostruzione della Murray, per quanto ispirata da una solida conoscenza sul campo delle culture antiche che comprese dopo l’Egitto anche scavi a Malta e nell’isola di Minorca, era tuttavia priva di una concreta base documentaria; solo con il lavoro pionieristico di Marija Gimbutas prese davvero corpo l’ipotesi che in Europa si fosse perpetuata in tempi storici lunghi anzi lunghissimi e all’interno di culture rurali più che urbane una religione basata su un divino immanente centrata sul corpo femminile, la natura e i cicli cosmici di eterno rinnovamento.



La biografia di Marija Gimbutas è fondamentale per studiare il suo metodo rivoluzionario di lavoro. Nata a Vilnius in Lituania nel 1921 da due medici appassionati di tradizioni folcloriche che decisero di non iscrivere la figlia alle scuole pubbliche ma di darle un’educazione privata che comprendesse l’approfondimento dell’arte, della musica e delle tradizioni popolari, che l’occupazione russa prima e quella polacca poi avevano tentato di sradicare. Marija perse il padre a 15 anni e decise di continuare la sua opera, in particolare lo studio dei riti funerari precristiani; a 16 anni registrò personalmente più di 5000 canti popolari con cui i contadini lituani accompagnavano i lavori, le feste e gli eventi della vita.

L’invasione tedesca della Lituania nel 1939 e l’anno dopo quella sovietica la convinsero a lasciare l’Europa; appena laureata con la prima figlia per una mano e la tesi nell’altra emigrò negli Stati Uniti. Iniziò la carriera universitaria alla Harvard University come traduttrice dalle lingue slave ed in seguito, riconosciuta la sua competenza nel mondo preistorico, pubblicò diversi volumi dedicati alle antiche civiltà dell’Europa centrale. Nel 1963 ottenne una cattedra presso l’Università della California a Los Angeles ove svolgerà il suo insegnamento fino al 1989 come titolare della cattedra di Archeologia Europea e Studi Indoeuropei.

Durante le campagne di scavo condotte tra il 1968 ed il 1980 nei siti neolitici lungo il bacino del Danubio, nella Grecia nordorientale, in Macedonia, Bosnia e nell’Italia meridionale rinvenne più di 2000 manufatti databili tra il 6000 e il 3000 a.C. tra ceramiche dipinte, modellini di templi, altari, vasellame per le offerte; più del 90% degli oggetti erano statuine antropomorfe femminili, spesso con maschere animali sulla testa (uccello, orso, serpente, rana), decorate con un complesso sistema simbolico a spirali, zigzag, cerchi, a X oppure a onde.



Si trattava comunque di reperti totalmente diversi da quelli rinvenuti fino ad allora nelle sepolture indoeuropee; gli stessi siti individuati d’altronde presentavano ubicazione, insediamento, resti delle abitazioni totalmente diversi da quelli di epoche successive. La Gimbutas si rese quindi conto che tali materiali non erano da considerare poco più che curiosità della storia dell’arte, da immagazzinare nei depositi dei musei senza alcun ordine né classificazione, ma che erano vere e proprie chiavi utili a riportare alla luce una civiltà europea tanto remota da essere ormai totalmente dimenticata. In assenza di una qualsiasi chiave di lettura già codificata costruì un suo metodo di lavoro cui darà il nome di archeomitologia e nominò questa perduta civiltà Società dell’Antica Europa.

Per l’analisi dei reperti sviluppò un approccio fortemente interdisciplinare utilizzando gli strumenti della linguistica, dell’archeologia, dell’etnologia, della paleografia che lei padroneggiava dai tempi delle sue precoci ricerche sul folclore lituano, in controtendenza rispetto alla eccessiva specializzazione del sistema accademico moderno. Partendo dall’assunto che le cosmologie sacre rappresentano il centro di tutte le società antiche e che le credenze fortemente radicate sono soggette a trasformazioni lentissime e tendono a riaffiorare come substrato culturale anche in tempi in cui risultano ufficialmente abbandonate, le immagini non rimangono mute ma forniscono la testimonianza di contesti sociali viventi, il loro studio va fatto per raggruppamenti a seconda dell’intima coerenza oppure per classi di significato e di occupazione di un ben specifico posto nell’immaginario sacro dei popoli che le crearono.

Marija Gimbutas vide così riaffiorare nei misteriosi manufatti disseppelliti in Europa Centrale i testimoni di un sistema di credenze estremamente familiare, legato all’adorazione della terra come madre fonte di ricchezze e nutrimento inesauribili che i contadini baciavano all’alba andando ai campi e al tramonto ritornando dal lavoro. L’idea è riproposta dalle innumerevoli rappresentazioni femminili della Dea come contenitore, recipiente, brocca, utensile per conservare cibi e dalle statuine della dea gravida della vegetazione.

Le maschere animali che coprono il viso dell’idolo fanno riferimento alla forma immanente dell’eterno ciclo del rinnovamento: il viso di uccello evoca le migrazioni dei volatili che partendo e ritornando secondo cicli ben precisi scandiscono il succedersi delle stagioni; la dea serpente accovacciata in posizione yoga con le estremità avvolte in spirali è un potente simbolo di rigenerazione suggerito dal cambiamento della pelle dell’animale; l’orsa suggerisce con il letargo invernale e la riapparizione primaverile con i piccoli il simbolo della nuova vita ed anche la presenza divina durante il parto (credenza trasmessa anche alla Grecia storica).

Le immagini della Dea a postura rigida o a forma di uccello rapace dai grandi occhi aperti nella notte testimoniano che da quelle popolazioni la morte era venerata al pari della vita, come un passaggio senza il quale il ciclo eterno vita-morte-rigenerazione sarebbe cessato. “Il concetto di rigenerazione e rinnovamento è forse il più sorprendente e drammatico tema che percepiamo in questo simbolismo” scrisse la Gimbutas nel 1989.



Il nome di dea che l’archeologa attribuì alle statuine scoperte suscitò la perplessità degli studiosi abituati a riconoscere come tali ben individuabili figure dei pantheon divini dei tempi storici e timorosi che si intendesse rinnovare l’interesse per un generico culto della fertilità ed un matriarcato mitico quanto indimostrabile. Gimbutas sostiene che il termine dea vuole esattamente intendere il contrario, cioè che la simbologia femminile presiede agli aspetti tanto creativi che distruttivi dei cicli cosmici, andando ben al di là del puro culto della fertilità; la dea è tale in quanto distrugge tanto quanto crea: è la dea avvoltoio che scarnifica le carni dei cadaveri per finire il lavoro della distruzione e rimettere in circolazione il nutrimento, ma è anche la dea della vegetazione nel cui impasto di terracotta sono ritrovati i semi di cereali che garantiscono la sopravvivenza degli umani.

Dagli scavi sono venuti alla luce resti di villaggi che fanno pensare ad una struttura sociale piuttosto egualitaria. Non si vedono abitazioni più ricche ed altre più povere, appaiono invece tutte addossate le une alle altre come alveari con i morti seppelliti al di sotto per consentire agli antenati di continuare a proteggere la famiglia e la casa. Il tempio non risulta in posizione dominante o appartata rispetto alle case ma si trovava in mezzo ad esse con dimensioni appena di poco più grandi; dai modellini di templi in terracotta e dagli scavi emerge una struttura templare a due piani: al piano terra grandi forni per cuocere le offerte a base di grano, torte e focacce oppure il vasellame cultuale, al piano superiore si trovavano altari, oggetti sacri, simboli di rigenerazione come soli, serpenti, uova, spirali, centri concentrici, con resti di pittura alle pareti in ocra rossa simbolo di vita; dai modellini in ceramica si riconoscono tamburelli, troni sedili, tavoli e sedie che fanno pensare ai templi come ritrovi in cui la musica avesse un ruolo importante.

Nelle sepolture non sono state rinvenute armi né resti di individui che facciano pensare a re o principi per la ricchezza del corredo come nelle successive inumazioni indoeuropee; le sepolture più ricche di oggetti cultuali sono di donne, spesso anziane, quelle maschili hanno corredi di oggetti legati al lavoro come asce di pietra per lavorare i metalli o di conchiglie che alludono a commerci con paesi lontani, in entrambe le sepolture si trovano attrezzi per frantumare il grano, facendo pensare alla condivisione dei lavori destinati alla sopravvivenza del gruppo tra i sessi.



Dal quinto millennio a.c. iniziano a trovarsi negli stessi siti le enormi sepolture a tumulo il cui nome indoeuropeo è Kurgan, col quale la Gimbutas denomina le popolazioni centro europee che mano a mano sostituirono la civiltà dell’Antica Europa. Nelle grandi tombe i corredi funerari splendidi di potenti guerrieri a cavallo suggeriscono la comparsa di nuovi valori: il culto per la ricchezza, la gerarchizzazione della società, la svalutazione del femminile, l’esaltazione della forza e delle armi. Alla fine del terzo millennio a.C. il passaggio è completato.

I risultati di decenni di studi sul territorio europeo sono contenuti nell’ultima grande opera di Gimbutas La civiltà della dea che in Italia appare in traduzione solo tra il 2012 e il 2013 per i tipi di Stampa Alternativa di Viterbo. Anna Schgraffer recensendo l’uscita del primo volume nel 2012 sottolinea che la pubblicazione non a caso avviene ad opera di una casa editrice che non si chiama “Stampa di Regime o Taci e Acconsenti”; evidenziandone i contenuti rivoluzionari fa notare come la disponibilità al pubblico italiano solo dopo ben 21 anni dall’edizione originale segnali il ritardo culturale del nostro paese e la miopia della classe intellettuale italiana (editori compresi) rimasta sostanzialmente indifferente a ciò che nelle accademie non è materiale più che accreditato in quanto innocuo e non certo innovativo.

La stessa Gimbutas si era d’altronde meravigliata che le pubblicazioni delle sue prime ricerche negli anni ‘70 e ‘80 piuttosto che dagli studiosi e dai colleghi venissero acquistate da donne, spesso non specialiste della sua materia ma che intravedevano in questa accurata ricostruzione di un passato tanto diverso dalla loro condizione attuale una formidabile possibilità di ispirazione culturale e di critica al patriarcato, non più condizione storica immutabile ma databile storicamente.



Mariagrazia Pelaia, curatrice dell’edizione italiana de La civiltà della dea, in un intervento sulla rivista Le simplegadi dell’Università di Udine, attribuisce all’archeologa lituana Gimbutas il merito di aver dato nome a materiali e simboli totalmente incomprensibili ai nostri tempi poiché andato distrutto l’universo di significato che essi esprimevano; quando conia le espressioni Dea Uccello, Dea Avvoltoio, Dea Civetta oppure Dea Occhio, Dea della morte e rigenerazione, Dea gravida della vegetazione, o lo stesso nome di Antica Europa, rinomina interamente un mondo perduto e lo rimette al mondo; condizione assai simile a quella del movimento femminista quando si trovò a costruire da capo un soggetto femminile perduto senza avere parole per significarlo. Gli stessi termini di matrismo o società matristica furono inventati e adottati dalla Gimbutas al posto di matriarcato, per rimarcare che nelle società da lei scoperte non vigeva l’opposto del patriarcato, cioè il dominio delle donne sugli uomini.

Gimbutas inoltre scopre una vera e propria forma di scrittura sui reperti neolitici, che oltre ai simboli già menzionati di zig zag, spirali, cerchi e losanghe in alcuni casi presentano un vero script di simboli collegati in stringhe o grappoli a formare evidentemente una paleo-scrittura ancora indecifrata. Interessanti somiglianze sono state evidenziate con la scrittura antico-cipriota e antico-cretese per cui ancora manca una decodificazione; la nascita della scrittura parrebbe pertanto non risalire al mondo mesopotamico, ma al vecchio continente nascendo sotto una spinta religiosa anziché per scopi archivistici e burocratici come ci è stato insegnato.

A Marjia Gimbutas va riconosciuta non soltanto la rivoluzionaria opera scientifica ma anche il grande esempio di fedeltà al suo sguardo femminile, che si è tradotto nella capacità di fare ricerca tenendo insieme tutta se stessa, il mondo degli affetti con lo spirito scientifico, come ha dimostrato riconoscendo, nel modo in cui fanno le bambine per istinto, valore e verità alle parole della madre e del padre e attendibilità ai loro racconti; proprio quei racconti cui spesso agli studiosi viene chiesto di rinunciare in nome di una obbiettività razionale senza radici, senza sesso e quindi anche senza fondamento.




sabato 13 febbraio 2016

Raffaele K. Salinari, Abbagliati dalla Luce. Il saluto militare



La luce del divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli, la luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto della mano che sale alla fronte, diventato poi l'attuale saluto militare. Uno straordinario saggio di Raffaele K. Salinari sul rapporto simbolico dell'uomo con il sacro.

Raffaele K. Salinari

Il saluto militare



Chi visitasse il museo di Heraklion a Creta, potrebbe posare lo sguardo su di una serie di statuette votive risalenti al periodo cosiddetto prepalaziale (IV-III millennio a.C.) effigiate in una strana posa: rigide sull’attenti sembrano intente a fare il «saluto militare», portando la mano di taglio sulla fronte.

Il gesto si ripete identico in diverse figurine bronzee, alcune delle quali sono inclinate, ora in avanti ora indietro rispetto al loro baricentro, quasi fossero fotogrammi isolati da uno stesso film. L’insieme si compone così nell’effetto di un continuo movimento oscillatorio, come di chi tenesse una postura religiosa quale ancora oggi è possibile vedere durante alcune preghiere o processioni, ad esempio quelle ebraiche davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme.

    Statuine di Heraklion

La prima riflessione che queste statuine sollecitano è proprio quella della coincidenza tra il loro gesto ed il «saluto militare». Com’è noto la spiegazione comunemente data è che l’atto marziale sia collegato all’usanza di alzare la celata dell’elmo per mostrare il volto. In realtà ritroviamo la stessa gestualità molto prima che venissero in uso le armature, dato che già gli antichi centurioni romani usavano salutare i superiori in questo modo.

Il sostanziale isolamento del mondo militare da altri contesti, resosi indispensabile sia per mantenere la compattezza gerarchica, sia per preservarne la logica e le tradizioni da influenze esterne, è d’altra parte un fenomeno che si ritrova, anche con le stesse definizioni, in altre «istituzioni totali», a partire da quelle religiose: basti pensare alle «legioni di Cristo» o ai «Generali» del vari Ordini.

Dalle forti analogie tra mondo militare e mondo ecclesiale, possiamo così risalire alla genuina natura di questo gesto che, come abbiamo visto nelle statuette votive di Candia, appartiene certamente in origine all’ambito della sacralità estatica caratteristica della civiltà minoica, mentre oggi rimane come puro formalismo, svuotato cioè di quella carica visionaria che probabilmente lo ha generato.



D’altronde, come dice giustamente Roger Caillois nel suo I giochi e gli uomini, ogni volta che una grande cultura riesce ad emergere, nel nostro caso quella Greca, patriarcale, imperialista e guerriera, nel suo soppiantare l’antica civiltà minoica, si riscontra una sensibile regressione delle forme della religiosità estatica: esse vengono svuotate della loro antica importanza, respinte alla periferia della vita pubblica, ridotte a ruoli sempre più modesti e intermittenti, se non addirittura clandestini e illeciti, oppure confinate nell’ambito limitato e regolato dei giochi.

Qui scorgiamo un aspetto centrale del passaggio storico dalla civiltà minoica, che poggiava le sue basi su un matriarcato «più che di autorità, di comprensione e di prestigio muliebri», a quello «brusco e buio» di tipo patriarcale dominato dai Dori – «barbari senza remissione» – come li definiva Momolina Marconi. Per l’evoluzione storico-mitologica di queste diverse fasi, dal neolitico sino all’invasione achea del XIII secolo a.C., rinviamo all’introduzione a I miti greci del «bardo» Robert Graves, cantore della Dea Bianca, che disegna mirabilmente il passaggio da un mondo ed una religiosità matrilineare, ad una patriarcale – dalla Grande Dea a Zeus – per poi arrivare alle religioni monoteiste attuali. Ma è proprio in questo particolare tipo di religiosità, e della visione che da essa scaturiva, che dobbiamo ricercare le origini sacre del gesto di portare la mano di taglio alla fronte.

      La Grande Dea

La visione della Dea

Per ricostruirne la scaturigine, dunque, dobbiamo necessariamente partire dal momento cultuale in cui queste statuette sono state forgiate: era il tempo in cui nell’area del Mediterraneo dominava il culto della Grande Dea che, al tempo stesso, emanava e raccoglieva in sé, componeva e ricombinava dentro una figura unificante, tutti gli aspetti della creazione, delle cose visibili così come di quelle invisibili: la pánton genéthla della religiosità arcaica.

Nella Creta minoica il numinoso, cioè la percezione del Principio generatore universale, non era separato e neppure separabile dalla vita di ogni giorno: le sue manifestazioni, a partire da quelle che nella cultura greca verranno poi attribuite a Dioniso, il dio-archetipo della «vita indistruttibile», erano immediate, in altre parole visionarie e mistiche.

Kerényi riporta nel capitolo Gestualità minoica del suo Dioniso, un giudizio di H. A. Groenewegen-Frankfort che, per così dire, illumina, attraverso un’analisi delle forme d’arte, la concezione religiosa da cui sarebbero poi nati i gesti originati da queste visioni e che ritroveremo, «civilizzati», in quelli profani odierni, «saluto militare» compreso. L’arte cretese, dice lo studioso, non conosceva quella tremenda distanza fra l’essere umano e il trascendente, che poteva indurre nell’uomo la tentazione di cercare una via d’uscita dallo spazio e dal tempo.

Altrettanto poco conosceva la magnificenza e la vanità delle semplici azioni umane che sono legate al tempo e allo spazio. A Creta gli artisti non hanno conferito consistenza al mondo dei morti facendone un’ombra del mondo dei vivi, non hanno eternato gesta superbe, e neppure hanno elevato attraverso i loro templi una modesta pretesa ad essere presi in considerazione dagli dei. Questa concezione dell’esistenza che include la morte impediva, come vedremo più avanti, l’emergere di quella forma di malessere diffuso nelle nostra civiltà di aspiranti immortali che Freud denominò Das Unheimliche, il «perturbante».

Là, e là soltanto – contrariamente a quanto accadde in Egitto e nell’Asia Minore – la pretesa umana di svincolarsi dal tempo fu disprezzata, dando luogo alla più totale adesione alla leggiadria della vita che il mondo abbia mai conosciuto. Poiché vita significa movimento, la bellezza del movimento era intessuta in quella trama di forme viventi che si definiscono «scene naturalistiche»; questa bellezza si mostrava nei corpi umani occupati nei loro giochi severi e ispirati da una presenza trascendentale, giochi liberi e insieme conformi alle regole, senza alcuno scopo, proprio come senza scopo è il tempo ciclico.

Tra questi giochi spiccano l’altalena e le acrobazie con i tori, ma soprattutto il dondolamento su se stessi o appesi ad un albero sacro: la forma più semplice di produrre una condizione estatica. Roberto Calasso, nelle Nozze di Cadmo ed Armonia, sottolinea come il «mistero a Creta, era palese, e nessuno tentava di nasconderlo». Le «cose innominabili» erano spalancate dinanzi agli occhi di tutti. E così, se continuiamo a risalire verso la fonte della gestualità legata al culto della Grande Dea, troviamo che il gesto su cui stiamo indagando è esattamente uno di quelli determinato dalla sua visione estatica, per cui si potrebbe dire che un tale movimento – contemporaneamente spontaneo e limitato – sia ispirato dalla sua presenza trascendente, anzi, sia in qualche modo questa stessa presenza.

    Dondolamento rituale

La visione smeraldina

E infatti, come dice Pavel Florenskij nel suo saggio sulle icone, Le Porte regali, tradotto in italiano da Elémire Zolla, l’immagine iconica è quella che permette a chi la guarda di riconnettersi con l’invisibile luce che permea tutte le cose: la luce del sacro, per lo studioso russo segnatamente quello «incarnato» della tradizione cristiana. È dunque nello sguardo dell’Icona che si concentra la sua capacità simbolica, quella cioè di costituirsi come vera e propria «soglia» ontologica che l’osservatore può traguardare per accedere all’essenza immutabile dell’Anima Mundi.

Un esempio, nell’arte cristiana, è certamente quello della Madonna con Bambino e Santa Margherita del Parmigianino (1530), attualmente presso la Pinacoteca di Bologna. Qui l’intensità dello sguardo che si scambiano il piccolo Gesù e la Santa restituisce la possibilità stessa della Visione ma, forse, la chiave di volta del dipinto è quella dell’Angelo che guarda lo spettatore come ad attirare il suo sguardo.

Chi sia questa figura angelica è ancora oggetto di controversia; noi azzardiamo una ipotesi seguendo le connessioni cabalistiche proposte da Giulio Camillo che, nel suo Theatro, stabilisce una corrispondenza tra le Sefiroth e le schiere angeliche, in particolare tra la terza detta Bina, e Metatron, il «principe del volto divino». Chi meglio di lui potrebbe, in effetto, sostenere nei confronti della nostra visione il ruolo di messaggero, di anghelos, mediatore tra l’attuale e l’eterno?



Egli ci guarda come attraverso la sua aura, e dunque ci ri-guarda, così come la Santa attira verso di sé il volto del piccolo Gesù sostenendone il mento con la mano affusolatissima e sensuale per essere tutta nel fuoco dei suoi occhi. Per restituire la carica simbolica di questi gesti Francesco Giorgio Veneto, nel suo In Scripturam sacram problemata, trattando della visione immediata di Dio, usa l’espressione «visio facie ad faciem».

In altre parole se ci identifichiamo con questi sguardi ne veniamo illuminati noi stessi: lo sguardo «è» la visione. Ma, non essendo noi dei Santi, anzi, come diceva Melisso seguace di Parmenide, «noi essendo anime volgari che non sopportano i raggi della divinità», lo sguardo a tutti possibile è invece quello «ermetico», da Ermes dio del mutamento e degli scambi, che permette di trasmutare la realtà fenomenica nel suo ris/volto, individuare quei nessi, la «trama nascosta» eraclitea, che unisce tra loro tutte le cose, trovare la correspondance di cui parla Baudelaire.

Come annuncia Florenskij qui, come in altre questioni metafisiche, il punto di partenza e ciò che già sappiamo dentro di noi: infatti anche in noi la vita nel visibile si alterna a quella nell’invisibile, come nel sogno, anche se questa percezione può essere totalmente e lucidamente vissuta solo «nell’attimo del tempo». E non è forse questo «attimo» che l’artista coglie e riverbera nei momenti di ispirazione, come nelle figurine votive di Candia? E, come nello sguardo di Santa Margherita, non è forse la significanza del gesto stesso a dirci che la Dea esiste? E non è allora il nostro modo trasmutante e trasmutato di guardare le cose che può restituircene il volto nascosto, cioè quella sostanziale unità che le unisce e che ci unisce ad esse?



Di sguardo ermetico parla in termini felicemente «sovversivi» Paolo Mottana, Direttore del Master in Culture simboliche della Bicocca che, nel suo La visione smeraldina, delinea le coordinate per una vera e propria «pedagogia dell’Immaginale», come ad indicare una pratica per la quale Platone usa la parola greca ópsis, che vuol dire a un tempo «atto del vedere, visione, occhio e sguardo». Attraverso l’ópsis ciò che è immateriale, l’anima, l’essenza, che così diventa reale e visibile ci fa tornare in noi: «ritorna in te stesso e guarda», dice Plotino (Enneadi I,6,9,4-8).

È dunque la luce del divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli. È stata la l’oscillazione, documentata dalla postura delle statuette votive di Candia, a farlo entrare in contatto con l’epifania; ma la luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto. Nel caso della Grande Dea della Zoé, e qui sta l’arcano, è questa unità tra umano e divino che viene simboleggiata dall’atto di schermarsi gli occhi al cospetto della sua luce incommensurabile: il gesto stesso diviene così una sua ipostasi.

È dunque la sua essenza simbolica a presupporre la possibilità di epifanie: tutti i gesti che si compiono nell’esperienza visionaria di una epifania sono autentici, non ripetitivi, genuinamente simbolici, diversamente da quelli stereotipati del culto, che non possiede più il carattere originario della visione, anche se cerca di suscitarla. Da qui l’attuale meccanicità del «saluto militare», che riprende solo l’aspetto secolarizzato della sottomissione gerarchica al superiore e la necessità che questi, per mantenere il suo carisma, sia visto, ma da lontano.

    Klee, Angelus Novus

Il tramonto del gesto sacro

Ma essere immersi nel ciclo della Vita, essere esposti all’estatica visione della Dea, intesa come prismatica ipostasi della Zoé, porta certamente a confrontarsi con l’irrazionale che vi regna, con l’angoscia dell’imponderabile. Torna qui la riflessione di Valéry quando diceva che ogni vera metafisica esige che l’uomo sia partecipe di uno spettacolo che in qualche modo lo esclude.

La ricerca della trance visionaria, dice ancora Caillois, assoggetta nell’uomo discernimento e volontà, ne fa il prigioniero di estasi esaltanti, di rapimenti mistici che lo dispensano dall’essere «solo un uomo» ma, proprio per questo, rischiano di annientarlo.

Basterebbero, a questo proposito, le parole di Maria Maddalena de’Pazzi, la mistica visionaria che, alla fine del ‘500, colloquiava con Dio, quando descrive, con le sue parole trasgressive, lo stato d’animo dell’estasi come: «una quiete crudele e furiosa». Non a caso i mistici sono sempre stati tendenzialmente emarginati, se non chiaramente perseguitati, in ogni religione; specie in quelle dove il clero ha voluto amministrare la spiritualità, essi rappresentano infatti un pericolo potenziale proprio per la loro immediatezza.



Che siano i Sufi islamici o i mistici cristiani, essi sono invisi alla gerarchie ecclesiali, esattamente come un soldato che discute gli ordini lo sarebbe ai ranghi dell’esercito. Dalla volontà di sottrarsi al potenziale pericolo dell’immediatezza sarebbe dunque nata la nostra civilizzazione, figlia del pensiero Greco con la sua razionalità, per quanto sempre intrisa di ascendenze irrazionali, come ci fa notare Dodds nel suo I Greci e l’irrazionale. Da questa progressiva razionalizzazione, e gerarchizzazione, del pensiero occidentale sul Mondo, arriviamo alla sfida che segna la nostra modernità tecnologicamente orientata, il grande esperimento che ora si rivela un inganno tragico: la sostituzione del divino con l’umano, il superamento del limite della vita, il diniego della morte come parte costitutiva della vita.

E così che si edifica la «grande rimozione» che oggi alimenta l’enorme macchina edonistico-consumogena con la conseguente trasformazione della natura in un insieme di materie prime inanimate, da utilizzare per il nostro crescente controllo sulla biosfera, e non certo come un insieme animato col quale vivere in con/senso, e dal quale trarre suggerimenti per orientare il nostro stesso modello di civiltà. Giorgio De Santillana, nel suo saggio sul Fato antico, sintetizza che la gravità di questo percorso non risiede tanto nel distacco dalla Natura, per certi versi consustanziale all’intelligenza umana ed alla sua volontà di comprensione, quanto nell’aver cancellato dalla nostra visione il Cosmo che ci contiene ed esprime – il Fato degli antichi appunto – nel quale le leggi di natura erano da conoscere perché immutabili nella loro perfetta interazione.

In questa visione delle relazioni uomo mondo non c’è posto per il numinoso, certamente non per la sua visione diretta, immediata, e dunque, non avendo luogo, questa visione semplicemente «non ha luogo»: non c’è allora nessuna necessità di «schermare lo sguardo dell’anima».

Ma questa assenza del numinoso dalla nostra percezione diretta, estatica, se ci mette al riparo dall’esposizione alla sua terribilità, ogni Angelo è tremendo ci ricorda Rilke, produce a sua volta altre perturbazioni. In definitiva il decadimento del sacro dal nostro orizzonte visuale, ed il conseguente svuotamento simbolico dei suoi gesti ricongiungenti, genera a sua volta una visione «perturbata» delle relazioni natura-cultura, che mette a repentaglio il nostro stesso equilibrio psichico, ammorbato dalla volontà di affermazione prometeica e di sottrazione all’ordine superiore delle cose.

Freud, nel suo saggio sul «Perturbante» (1919), cita a proposito una definizione di Schelling secondo cui questo sentimento sarebbe legato a qualcosa di segreto che torna a galla, rimarcando, da padre della psicanalisi, come nulla di più segreto permane nell’anima dell’uomo della paura della morte e dunque sia proprio questa rimozione, che continuamente riaffiora, a perturbare tutta la nostra psicosfera.

E allora, se il «progresso» è questo passaggio da una visione, ed organizzazione, della società governata dall’estasi e dalla consapevolezza di una comune appartenenza alla Zoé, ad una in cui ci si affida alle scienze esatte ed al pensiero raziocinate – per sua natura incapace a comprendere l’Ombra e dunque tutto ciò che si muove seguendo ragioni diverse da quelle della pura razionalità economica – ebbene non possiamo meravigliarci che il Mondo dentro e fuori di noi sia ridotto a ciò che nella Cabbala viene definito in termini spirituali klippoth, guscio, una pseudorealtà privata della comunione tra le sue molteplici anime, un insieme di Idoli, di Loghi, che giocano con la nostra percezione a sembrare Simboli.



Apollineo e dionisiaco

«L’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell’invisibile – questa è l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile. Sollevata che si sia in alto, nell’invisibile, essa cala di nuovo nel visibile e a questo punto le vengono incontro ancora le immagini simboliche del mondo invisibile – i volti delle cose, le idee: questa è la visione apollinea del mondo spirituale». Cosi ci dice Florenskij e sembra che solo le droghe, oggi, possano ricondurci verso quella strada: una scorciatoia in realtà impervia e molto pericolosa, dato che sul cammino psichedelico sono molte le Maschere che si spacciano per Volti. Anche in questo caso ci vuole una robusta disciplina immaginale, in altre parola un intento di visione, una fede cioè, come dice ancora Florenskij: una «certa convinzione di cose invisibili», che riesca a combinare apollineo e dionisiaco, per sollevare la mente dalle immagini agli archetipi.

Ora, le droghe, quelle psicotrope in particolare, sono sempre state supporti importanti per la comprensione umana del mondo; hanno contribuito a tendere il nostro arco sensorio sino a rompere con le loro frecciate le false dualità che ci opprimono, ma al contempo ci proteggono: conscio/inconscio, persona/cosmo.

Le droghe psicotrope e psichedeliche agiscono come un processo alchemico interiore, immaginale: fluidificano le concrezioni della mente mentre fissano in immagini i pensieri volatili, «poste all’incrocio tra senziente e sensibile», come scriveva Merleau-Ponty. Nulla a che vedere con i composti chimici «da sballo» che servono l’effetto opposto.

Nietzsche, nella Gaia scienza, propone una storia delle droghe come storia del sentire; ogni periodo dell’umanità ha avuto le sue droghe, i suoi stupefacenti di riferimento, spesso identificati con le divinità del ciclo vita/morte. Coleridge, un frequentatore del laudano, così poetizza il ruolo ricongiungente degli stupefacenti, nel suo L’arpa eolia: «E che dir poi se tutte le cose della natura animata, non fossero che arpe vere e proprie di diversa foggia, il cui brivido si traducesse in pensiero mentre sovra esse passasse, plastico e immenso lo stesso soffio intelligibile, anima di ciascuno ed al contempo Dio di tutti?». Questa sinestesia aiuta il transito della soglia, il ricongiungimento, la visione del sacro.

Anche le luci psichedeliche che emanano dalle vetrate colorate delle cattedrali, unite al salmodiare ininterrotto dei fedeli ed ai loro digiuni, sono ancora oggi i residuali strumenti della stessa visionarietà sacramentale. Non abbiamo lo spazio per analizzare qui le deviazioni contemporanee da questi cammini, ma possiamo dire che l’uso odierno degli stupefacenti è tutto all’interno del mondo secolarizzato che ci circonda e ci attraversa, e dunque che l’effetto prodotto da questi operatori non può che essere degenerato, come tutto ciò che oramai afferisce al «Regno della quantità», secondo la celebre definizione dell’Occidente desacralizzato coniata da René Guènon.

Ecco perché, già nel passaggio epocale, paradigmatico, da una visione immediata della Zoé, ad una mediata dalla presenza della soggettività umana nel mondo, vediamo emergere l’emblematica figura di Dioniso, il dio dell’ebbrezza, con la sua droga, il vino.

«Cosa è Dioniso», cosa simboleggia a quel punto della storia del sacro nel Mediterraneo? A quale esigenza culturale e cultuale risponde il dio della Zoé? Una risposta possibile nasce non solo dall’ipotesi accademica che egli rappresenti il punto intermedio nel processo di progressiva soggettivazione della bios umana che, lentamente, smette di essere solo spettatrice estatica della visione divina – di «giocare per la Dea» – per prendere posto da protagonista sulla scena del mondo, ma dalla necessità attuale di avere una divinità alla nostra portata per sperimentare ancora la via dell’ebbrezza, della visione estatica. Non a caso il cristianissimo Padre Florenskij lo inserisce tra le sue figure di riferimento insieme al «gemello» Apollo.

   Dioniso

Se la danza minoica sul toro, la «vertigine» del dondolio, portavano l’uomo più vicino alla divinità anche a prezzo del rischio mortale, adesso la bios umana, nel suo processo di soggettivazione, ha bisogno di una divinità «umana» che combini estasi ed archetipo della «vita indistruttibile» con la presenza dell’uomo nella storia; che faccia da specchio, con il suo ciclo, non solo a quello della Natura, ma della vita umana caratterizzata, che vuole essere anch’essa celebrata. Così nasce Dioniso e si afferma il suo avvento: nelle celebrazioni, nel culto del dio che nasce, muore e rinasce, si rispecchia finalmente l’umanità.

Ognuno di noi allora può sempre cercare e vivere momenti dionisiaci, la cui determinante essenziale altro non è che la percezione immediata ed istantanea di tutti gli opposti che la vita contiene: un precipitarsi nella totalità dell’essere senza frapposizioni di sorta. A questa dimensione, seppure per un solo momento, si accede però solo attraverso quella che Florenskij chiama la «visione apollinea del mondo spirituale», in altre parole l’intento deliberato e la consapevole disciplina immaginale del ricercare il ricongiungimento con l’Anima Mundi. Evidentemente nulla a che fare con lo sbattere dei tacchi degli scarponi mentre si porta la mano alla fronte salutando un qualsiasi Generale.

il manifesto Alias – 6 febbraio 2016


venerdì 12 febbraio 2016

Nicla Vassallo, Del femminile come oggetto



Le donne rimangono sotto più punti di vista oggetti, mentre gli obiettivi femministi e delle filosofie femministe non sono stati conseguiti”.Una riflessione della filosofa Nicla Vassallo.

Nicla Vassallo

Del femminile come oggetto

Presso i Musei Vaticani, al cospetto della Scuola di Atene di Raffaello, la presenza di maschi/uomini risulta netta, netta se non fosse per un “ambiguo” individuo, a fianco di Parmenide: forse si tratta di Ipazia – non tutti concordano. Ipazia, certo, non era una donna oggetto, e così l’hanno brutalmente uccisa. Anche Diotima, prima di Ipazia, non raffigura, unica donna nel Simposio di Platone, nient’affatto una donna oggetto. Tuttavia, di tali donne la storia della filosofia ne ricorda ben poche: le donne sono state martoriate dai filosofi, con qualche eccezione a parte – Cartesio e John Stuart Mill, ad esempio.

Prendiamo Aristotele: le donne rimangono maschi menomati o mutilati; il loro essere femmine si deve alla mancanza di potenza; la loro femminilità coincide con la passività, e da passive vanno trattate, al pari di oggetti. E via di seguito con le generalizzazioni: rispetto agli uomini, le donne si attesterebbero impulsive, doppie, gelose, petulanti, spudorate. Avremmo potuto confidare in Tommaso, il santo, che invece in proposito si fa anche lui portatore dei pregiudizi aristotelici.

Pregiudizi che si replicano, con variazioni sul tema, nei cosiddetti “grandi” filosofi: stando a Kant, le donne non risultano in grado di azioni genuinamente etiche per carenza di senso del dovere (del resto, che etica può possedere un oggetto?); per Hegel, esse debbono venir rinchiuse in casa, in quanto prive di ragionamento universale, che si esige invece in ambito politico e pubblico (del resto, di quale ragionamento universale dispone un oggetto?); secondo Schopenhauer le donne permangono “per natura” inferiori rispetto ai maschi, in quanto, decretate perennemente infantili, manipolatrici e bugiarde, esse mancano di intelligenza e senso di giustizia (donne, pur sempre, oggetti); a parere di Nietzsche le donne sono un gingillo, utile solo a procreare e a rappresentare un mero passatempo per gli uomini (sono strumenti, proprio come alcuni oggetti).

Le donne simboleggiano dunque irrazionalità, o, se va bene, una razionalità che dipende dagli uomini. Non ritengo infatti causale che tra le filosofe si esaltino (con o senza ragione?) donne legate a filosofi di sesso maschile: basti menzionare Eloisa (con Abelardo), Simone de Beauvoir (con Jean-Paul Sarte), Hannah Arendt (con Martin Heidegger).

Alle emozioni, invece, specie se emozioni legate alla follia, le donne, poetesse, non filosofe, vengono destinate. Saffo (solo per menzionare qualche esempio) canta amori sublimi, per poi gettarsi da una rupe. La timida e sensibilissima Antonia Pozzi, divisa tra amori, sceglie la morte con barbiturici, a ventisei anni; scrive di eros e thanatos, con selvagge siepi/di amori: morire è questo/ ricoprirsi di rovi/ nati in noi. Sylvia Plath si uccide a trent’anni, con la testa nel forno (la testa della poetessa e il forno della moglie-madre) dopo aver cantato la morte:

Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale
io lo faccio che sembra un inferno
io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho vocazione.



Anne Sexton “sopravvive” più a lungo, ma a quarantacinque anni in un garage si intossica col monossido di carbonio. E, infine, non posso che menzionare lei, Virginia Woolf, non poetessa, bensì scrittrice poetica e folgorante, che opta a cinquantanove anni per una morte “tecnicamente” difficile: con le tasche ricolme di sassi, si lascia annegare nel fiume Ouse. Lei che aveva scritto Al Faro, e di acqua s’intendeva.

Se le filosofe prima menzionate si accoppiano e associano a uomini, con le poetesse il tutto non è immediato. Di Saffo si narra che amasse le donne. Sylvia Plath cosa c’entrava davvero con Ted Hughes? E chi si ricorda di Alfred Muller Sexton? Mentre di Virginia Woolf diremmo che nutrisse una reale passione per il marito Leonard, o per Vita Sackville-West?

Le donne che rifiutano categoricamente di essere considerate donne oggetto non hanno forse alcuna scelta se non il suicidio?

E, invece, gli omicidi? Si uccide, come distruggono gli oggetti. Prendiamo Dante che nel Canto V del Purgatorio, con Pia De’ Tolomei, ci porta nel girone di coloro che, a causa di una morte violenta, trovano il pentimento, una sorta di riabilitazione, in fin di vita. Che tipo di pentimento? Di Pia De’ Tolomei, uccisa dal marito, entro un contesto familiare, ci viene comunicata la dolcezza, insieme alla volontà di venir ricordata per una qualche sua fede. Benché in relazione al mondo terreno la sua indifferenza e il suo autocontrollo rimangano sospetti, perlomeno agli occhi odierni, il suo “ricorditi di me” ci addolora: Pia suscita in noi un desiderio, una necessità di protezione. Pia De’ Tolomei invoca aiuto, così come si dovrebbe fare. Anche se non fosse mai esistita e la sua fama si dovesse solo a Dante, la Pia rimane l’emblema di un entusiasmo divorato dalla violenza. Quante e quali Pie incontriamo quotidianamente senza saper nulla di loro, e senza che nulla ci raccontino? Le sconcertanti violenze degli uomini sulle donne, nel mondo, specie all’interno delle mura domestiche, si traducono raramente in denunce. Quali le loro cause e i loro significati? Se non sei una persona, bensì un oggetto di mio possesso, mi è lecito far di te quanto mi pare. E le donne sono persone?



A rispondere negativamente è una «femminista immutata», Catharine MacKinnon, che si domanda proprio se le donne siano oggetti o esseri umani, per concludere seccamente che non sono esseri umani.

Perché? Semplice la ragione. Se le donne fossero esseri umani, non sarebbero spedite in container dalla Tailandia ai bordelli di New York, o rapite in sperduti villaggi nigeriani e gettate poi sulle strade italiane; non sarebbero sessualmente schiavizzate; non lavorerebbero tutta la vita senza salario o con salari indecenti, costrette a svolgere mansioni pesanti, pericolose o avvilenti per troppe ore al giorno; non verrebbero infibulate, percosse, stuprate; non si pretenderebbe che sposino il proprio stupratore, né sarebbero accusate di rapporti sessuali fuori del matrimonio quando denunciano l’uomo in questione; non sarebbero indotte a suicidarsi per riparare l’onore della propria famiglia; non dovrebbero nascondersi dietro burka o simili indumenti; non sarebbero costrette nelle loro case come in prigioni; non subirebbero molestie sessuali e mutilazioni genitali (nella sola Africa vi sono tuttora tre milioni di bambine ancora a rischio di subirle, nonostante l’ONU abbia recentemente e finalmente bandito dette mutilazioni); non verrebbero messe a tacere, torturate, lapidate, decapitate, o uccise appena nate (l’infanticidio delle figlie femmine è ancora praticato). La lezione che occorre ricavare da questo elenco non è onorevole: le donne rimangono sotto più punti di vista oggetti, mentre gli obiettivi femministi e delle filosofie femministe non sono stati conseguiti. «Una stanza tutta per sé» e «cinquecento sterline annue» rimangono chimere.



MacKinnon si riferisce a cosa accade nel mondo in generale. Dando un’occhiata a cosa accade solo nel mondo cosiddetto occidentale, le immagini di donne da cui si viene bombardati/e sul piano mediatico si condensano troppo spesso in donne “leggere”, la cui reale consistenza è il corpo, non una mente ragionante; sono immagini normative che esplicitano chiaramente “questo è come la donna deve essere”; sono immagini che certo possono mutare e, difatti mutano, ma che rimangono sempre centrate sul corpo. Sull’oggetto.

Difficile fuggire dalla trappola. Non tutte le donne sono intelligenti, d’accordo. Ma molte tendono effettivamente a esaltare un’apparenza fisica “femminile”. E se ci pone come “cattiva ragazza”, ovvero si trasgredisce la norma maschile eterosessuale, nel non corrispondere (almeno in qualche senso) al concetto di donna vigente, si corre il rischio dell’esclusione, e l’esclusione non è facile da sostenere.

Il concetto di donna vigente nella nostra civiltà, specie in Italia, da una parte regala in effetti mere illusioni di stabilità e d’identità, e dall’altra è rigidamente monolitico: deve così essere in una società androcentrica, razzista, eterosessista, votata alla “normalità”. Come è sostenuto, giustamente a mio avviso, il rimedio alla donna oggetto non può che consistere nel delegittimare «a priori l’esplorazione della continuità esperienziale e della base strutturale comune tra le donne».

Del resto, molte donne, ma non tutte, cedono a venir meticolosamente assoggettate sotto diversi profili: economico, legale, politico, professionale, psichico, religioso, sessuale, sociale, e via dicendo. In modo diretto o indiretto, in misura maggiore o minore, ogni donna eterosessuale subisce commerci, devianze, etiche, leggi, identità, molestie, pratiche, politiche, violenze sessuali, oltre a doveri erotici, procreativi e riproduttivi, all’insegna di schemi rappresentazionali dettati da interessi sessuali. Ancora oggi. Che cosa specificare di più sulle donne oggetto?

Una certa normatività rimane deleteria e si converte comodamente in forme di vero e proprio autoritarismo sulla sessualità, in cui a rannuvolarsi rimane la sessualità delle donne. Diviene allora quasi scontato affermare con Monique Witting che, per esempio, le lesbiche non sono donne, perché il concetto di donna giunge a una piena elaborazione e assume un valore determinato solo nell’ambito di un atteggiamento normativo che obbliga la sessualità entro i rigidi schemi di un’eterosessualità in cui le donne vengono categorizzate, all’unico scopo di essere vessate. Si può anche concedere che si vessino gli oggetti, non le persone o gli esseri umani.

Ben si sa che, nel caso in cui non ci si comporti da donne oggetto o ci si consideri con consapevolezza donne non eterosessuali, sbalordisca sentirsi dire “tu non sei una donna”. Inquieta perché “tu non sei una donna” equivale spesso a “tu non sei una vera donna”, ove il termine “vero” maschera approvazione e disapprovazione. Proprio come quando affermiamo “la verdura di oggi non è vera verdura” intendiamo dire che tale verdura non è buona, quando diciamo “Valeria non è una vera donna” intendiamo dire che Valeria non è una donna “buona”: biasimiamo certi suoi atteggiamenti, comportamenti, ruoli che non rientrano nel concetto di donna “valido” e in uso in una certa cultura, a un determinato tempo, per considerazioni simili sul termine “real”).

“Tu non sei una vera donna” comporta essere disapprovate, e lo si è perché non si corrisponde al concetto di donna vigente, di cui fanno parte parecchi pregiudizi (e allora che concetto è?) sulle differenze tra donna e uomo, a partire dalle differenze sessuali. È possibile che tu non sia una vera donna solo a causa dei tuoi desideri sessuali, che non corrispondono a quelli che la donna dovrebbe normativamente nutrire. Dunque, tu non sei una vera donna poiché rifiuti di oggettificarti.

È allora errato decretare, se non si esigono donne oggetto, che la differenza sessuale sia una componente essenziale del desiderio sessuale, è cioè errato consentire il desiderio sessuale solo tra donna e uomo, o tra femmina e maschio – tra la donna e l’uomo, tra ilmaschio e la femmina. Eppure è forse proprio il fine di circoscrivere il desiderio sessuale al rapporto eterosessuale che rende la differenza sessuale necessaria al desiderio sessuale, a partire dal presupposto che il rapporto sessuale deve essere finalizzato alla riproduzione, piuttosto che all’amore e alle varie rappresentazioni vissute che dell’amore si possono offrire.

Il punto è che il maschio e la femmina, l’uomo e la donna hanno poca ragione d’essere, se con l’articolo determinativo intendiamo richiamarci a entità universali, al fine di catturare essenze maschili e femminili, che proseguono a incidere sulle donne rendendole oggetti. Tali entità/essenze possono trasformarsi in fonti di veri e propri azzardi, nell’azzerare la comprensibilità tra le tante differenze che corrono tra femmine e tra donne, così come le tante differenze che corrono tra maschi e tra uomini. La logore banalità dovrebbe venir sempre denunciata dalla buona filosofia, a partire dalle differenze tra femmine e maschi, tra donne e uomini, che la società rischia vieppiù di enfatizzare indebitamente, allo scopo di condizionare comportamenti e competenze declinate al “maschile” e al “femminile”, con donne oggetto in primo piano.

In fondo la donna rimane pura apparenza, una finzione al servizio dell’androcentrismo, del razzismo, dell’eterosessismo, della “normalità”, uno strumento normativo utile per imporre agli esseri umani di comportarsi in determinati modi, per avallare determinate pratiche e delegittimarne altre. L’idea che tutte le donne presentino similarità essenziali serve, per esempio, a legittimare il fatto che alle donne e agli uomini vengano assegnati ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti, che le donne debbano attenersi a canoni di genere cognitivamente diversi rispetto a quelli degli uomini, che i tratti fisici e psicologici delle donne debbano essere femminei, mentre quelli degli uomini mascolini.

L’essenzialismo ha senz’altro legittimato un certo convenzionalismo femminile, costringendo le donne al perbenismo, vietando loro la realizzazione completa delle loro potenzialità. Del resto, le donne rimangono oggetti. Ma esso ha soprattutto ratificato il dualismo uomo/donna, da cui sono aristotelicamente zampillati altri pericolosi dualismi: mascolino/femmineo, razionale/irrazionale, attivo/passivo, culturale/naturale, oggettivo/soggettivo, e così via.



Torno ancora, in conclusione, a MacKinnon sulle donne oggetto, una conclusione dura, eppure realistica, che tratta di pornografia:

«We define pornography as the graphic sexually explicit subordination of women through pictures and words that also includes (i) women are presented dehumanized as sexual objects, things, or commodities; or (ii) women are presented as sexual objects who enjoy humiliation or pain; or (iii) women are presented as sexual objects experiencing sexual pleasure in rape, incest or other sexual assault; or (iv) women are presented as sexual objects tied up, cut up or mutilated or bruised or physically hurt; or (v) women are presented in postures or positions of sexual submission, servility, or display; or (vi) women’s body parts—including but not limited to vaginas, breasts, or buttocks—are exhibited such that women are reduced to those parts; or (vii) women are presented being penetrated by objects or animals; or (viii) women are presented in scenarios of degradation, humiliation, injury, torture, shown as filthy or inferior, bleeding, bruised, or hurt in a context that makes these conditions sexual». (Non traduco, poiché questo inglese possiede una forza che in italiano si smarrirebbe.)

Alle donne la scelta, in quei luoghi, societari e civili, in cui la ragione è concessa.


giovedì 11 febbraio 2016

Gli spagnoli a Finale ligure. La Strada Beretta via di collegamento fra Milano e la Spagna.


Gli spagnoli nel Seicento costruirono una grande strada per collegare Finale ligure (che per un secolo funzionò da porto per la Spagna) con Milano. Da Finale passarono soldati, funzionari, mercanti e anche la figlia dell'imperatore. Giuseppe Testa ne racconta la storia in un libro di grande interesse.

Giuseppe Testa

La Strada Dorata

Questo era il nome che il Beretta aveva scelto per la “sua” strada, mentre il Governatore di Milano, come premio per l’opera straordinaria, impose il nome del suo progettista e costruttore.

Dalla caduta dell’Impero Romano dovettero passare circa 1250 anni prima che, nelle nostre zone, venisse nuovamente realizzata una strada carrozzabile a lunga percorrenza. Mentre la via romana era parallela alla costa, questa ne era perpendicolare.

La Strada Beretta funzionò a fasi alterne, prima che iniziasse il dominio genovese sul Marchesato (1713): in una prima fase si ebbe notizia di varie interruzioni praticate dagli stessi Spagnoli; successivamente, di un suo probabile riattamento, oggetto della perizia ordinata nel 1693 dallo stesso governatore di Milano; ed infine, di ripetuti interventi di ripristino ordinati alla comunità finalese. Gli interventi avvennero nel 1702, 1707, 1708 e 1711. Altri computi estimativi dei lavori di ripristino sono stati fatti nei primi anni del governo genovese.



Questa strada, meravigliosa per i tempi, definita bella, comoda e soda, riusciva a permettere l’incrocio di due carrozze senza problemi. Fu costruita in sole tre settimane, con il lavoro di tutti gli uomini di tutte le compagne. Il suo tracciato fu preferito alla vera arteria commerciale, la via di Rialto, per evitare problemi in quanto, visti i tempi ristrettissimi, non c’era la possibilità di attivare le procedure d’esproprio, essendo la zona altamente abitata e la terra coltivata. Vi erano, inoltre, alcune abitazioni che avrebbero impedito di raggiungere la larghezza minima del progetto. Il tracciato scelto, invece, attraversava generalmente prati da pascolo, in una zona praticamente disabitata (il Beretta annota solo tre costruzioni in venti chilometri). 

Come si può notare dalle frequenti riattazioni, soprattutto nel primo decennio del ‘700, essa venne risistemata solo in casi eccezionali, come per il passaggio di Reali, o per motivi strategici (trasporto di grossi pezzi d’artiglieria, ecc.). 



Era quindi “congelata”, ma sempre in condizione di essere recuperata in caso di vera necessità. La sua costruzione fu dettata da esigenze di “immagine”. 

La Spagna voleva, infatti, dare un segno della sua potenza: scartò la proposta genovese di far approdare la nave su cui viaggiava l’Imperatrice in un porto della Repubblica, per dimostrare alle Cancellerie europee di non essere in declino, trasformò un fatto mondano (uno dei tanti matrimoni incrociati tra gli Asburgo), in una dimostrazione di potenza. 

“…l’acquisto spagnolo del Marchesato è un episodio della gigantesca contesa franco-ispanica; la costruzione di questa strada alternativa è per tutelarsi in caso di crisi con Genova. Nel contempo un passaggio diretto tiene sotto controllo il Monferrato e blocca ogni velleità di espansionismo Sabaudo in Liguria attraverso Oneglia…..La realizzazione della strada, anche se non ottimale e con un punto di attracco, alla Marina, certamente non paragonabile al porto di Genova, avrebbe messo un freno alle eventuali velleità politiche e alle richieste finanziarie di Genova e dei genovesi. Era inoltre una posizione di prestigio economica e militare…”. 

Per concludere, l’importanza di questa strada fu soprattutto politica; la Spagna la sfoggiò davanti ai potenti d’Europa; Genova la temette soprattutto per motivi economico-commerciali; per gli altri Stati, soprattutto per la Francia e la Savoia, era un’opera che avrebbe potuto velocizzare e, quindi, migliorare, a loro discapito, le potenzialità militari spagnole. Interrotta dopo pochi mesi la Strada Beretta, si continuò a circolare come prima: i soldati sulla Via di San Giacomo; il transito commerciale, per la maggior parte da Rialto per Bormida, una minore per il Passo di San Giacomo.



Il libro può essere richiesto al seguente indirizzo: CENTRO STORICO DEL FINALE
Piazza S. Caterina, 11 - 17024 Finale Ligure (SV) Tel./Fax +39 019 690112 http://www.centrostoricofinale.it/