TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 30 giugno 2019

Non è il vino dell’enologo. Lessico di un vignaiolo che dissente




Non è il vino dell’enologo
Lessico di un vignaiolo che dissente


Corrado Dottori è un vignaiolo che produce Verdicchio e non solo sulle colline marchigiane. È approdato alla vigna dopo essersi licenziato da un posto garantito in una grande banca internazionale. E da alcun anni fa il contadino.

Cosa significa fare ed essere un agricoltore agli albori del Terzo millennio? Come si fa agricoltura? Cos’è un ambiente? Quali sono le relazioni tra un coltivatore e un sistema vivente quale la vigna? Quale vino produrre? Questo lessico per un’altra «contadinità» ne è la risposta.

Un viaggio dentro il mondo della vigna e dentro la vita di chi se ne prende cura. Che passa per la cantina e gli scaffali di vendita. Per la critica del gusto e la storia della produzione vitivinicola nel Novecento. Per l’enologia e Luigi Veronelli. Per le grandi fiere del vino e i terroir. Una riflessione lungo i sentieri che partono dalla «natura» e sfociano in un prodotto di «artificio» quale una bottiglia.Articolato nella forma di un lessico, questo libro è anche il racconto di ciò che definisce il mondo del vino ma che non trova spazio nelle guide o nei manuali sul bere. E per leggerlo, non serve essere esperti, conoscitori, bevitori o sommelier, basta lasciarsi andare alla linfa che scorre in queste pagine e che ci trascina da un tralcio di vite a una diversa visione dell’ambiente e della natura, a un’ecologia tutta da costruire.

Non è il vino dell’enologo è un libro spartiacque per la nascita di una sensibilità oggi diffusa che, a
partire dal vino e dalla critica del gusto, ha proposto nuove forme di agricoltura e di relazione con l’ambiente. Questa ne è la nuova edizione.


Una pagina

«È la vigna a rispondere. Col suo aspetto, le sue forme, la sua vegetazione. I tralci si distendono meglio, le foglie ingialliscono dopo, il vigneto appare come un elemento vivente che è solo parte di un ambiente naturale fatto di erbe e insetti e animali. E camminarci in primavera è una meraviglia. Immagini le radici, nel buio della terra, sensitive, cercare acqua e humus e minerale. Vedi i tralci che iniziano a spingere verso l’alto, verso la luce, arrampicandosi in direzione del cielo. E in mezzo le foglie che respirano. Creando energia. Mutando acqua e anidride carbonica e luce in sostanze nutritive. Qualcosa di straordinario che l’uomo, ancora, non è riuscito ad avvicinare.

L’osservazione della natura diventa allora qualcosa di esaltante, che trascende la scienza. Non più l’uomo scisso dalla natura, scienziato, che interviene e manipola. No. L’uomo nella natura. Parte della natura. Com’è bella una foglia di vite. Com’è bella una coccinella rosso sgargiante su una foglia di favino verde fosforescente. È qualcosa di ancestrale a chiamarci. A rimettere in discussione le nostre certezze di uomini progrediti.

Non vuole essere un ritorno al passato. Al contrario. Quello che la crisi del mondo industriale, finanziario, utilitarista, ci consegna è la domanda che occupa tutta la fine del Novecento, dal ’68 in avanti: è possibile fare in modo diverso? Come abita il pianeta l’uomo contemporaneo? Come si relaziona con la natura? Qual è il senso del suo stare-al-mondo nell’epoca del progresso tecnico?».


Corrado Dottori (1972) vive e lavora a Cupramontana. È vignaiolo e consigliere comunale. Laureato in economia politica, nel 2005 ha pubblicato Benin. Economia, società e sviluppo etico (L’Harmattan Italia, 2005).

Corrado Dottori
Non è il vino dell'enologo
DeriveApprodi, 2019
15 euro

Disarmonie prestabilite di Piero Mauro Bisogno




Presso la Galleria Entr’acte, 
in via sant’Agnese 19r a Genova, 
mostra di Piero Mauro Bisogno 
Disarmonie prestabilite,
a cura di Lorenzo Penco e Sandro Ricaldone.

Inaugurazione mercoledì 3 luglio, alle ore 17, 
visitabile fino al 18 luglio
dal mercoledì al venerdì dalle ore 16 alle 19.

Piero Mauro Bisogno, opera da anni nell’ambito dell’atelier di pittura di San Marcellino, a Genova. Nel suo lavoro affronta tematiche diverse, dal collage di oggetti trovati all’autoritratto; in questa mostra viene presentata una serie di opere realizzate assemblando ritagli di stoffe, nastri, fili, tessere di puzzle e altri piccoli oggetti che danno vita a partiture nelle quali l’impianto geometrico è incrinato da una latente asimmetria e il cromatismo acceso si gioca tra armonia e discordanza.


sabato 29 giugno 2019

4. I Liberi Muratori




Ma chi erano i Massoni medievali? Come erano organizzati e come lavoravano? Quali erano i “Doveri” che dovevano rispettare? E soprattutto: cosa era una “loggia”?

Giorgio Amico

I Liberi Muratori

Secondo la ricostruzione fattane dal Pirenne, ogni corporazione era suddivisa in tre categorie di adepti: maestri, apprendisti e lavoranti. I maestri costituivano la categoria principale e dirigevano il lavoro, sovraintendendo nel contempo alla formazione professionale degli apprendisti. I lavoranti, invece, erano dei dipendenti retribuiti che, pur avendo terminato il periodo di apprendistato, non avevano potuto o saputo diventare maestri.27

Assai diversa la struttura delle corporazioni muratorie. La massoneria medievale conosceva soltanto due gradi: apprendista e compagno d'arte.

L'appellativo di Maestro non sottintedeva un vero e proprio grado raggiungibile da ogni compagno, come nella Massoneria moderna, ma definiva un ruolo particolare, quello di Maestro Architetto, ossia del Libero Muratore incaricato di dirigere i lavori del cantiere. In questa accezione il termine di maestro verrebbe ad equivalere a quello attuale di “Maestro Venerabile” che, come si sa, non designa un grado, ma una “dignità”.28

A questo proposito pare ormai storicamente accertato la derivazione monastica dell'appellativo. Negli antichi monasteri dove, come si è visto, l'abate era anche maestro architetto, egli riceveva dai suoi confratelli il titolo di Fratello Venerabile o Venerabile Maestro.29

I rituali iniziatici degli antichi Massoni ci sono in gran parte sconosciuti. Sappiamo tuttavia che l'apprendistato durava sette anni, al termine dei quali il giovane muratore, se si era dimostrato all'altezza dei compiti affidatigli e moralmente e spiritualmente degno, veniva iniziato ai misteri dell'arte.

Durante la cerimonia di iniziazione al nuovo adepto venivano minuziosamente spiegati i simboli attinenti la sua professione (squadra, compasso, livella, filo a piombo, ecc.), quindi gli venivano illustrati i suoi nuovi “Doveri”. Più tardi, durante la narrazione della storia leggendaria dell'Ordine, venivano rivelati al nuovo confratello i segni di riconoscimento e le parole di passo. Questi segni, che non dovevano per nessun motivo essere rivelati ai profani, servivano a farsi riconoscere come membro della corporazione muratoria.

«In un tempo in cui non esistevano diplomi, determinavano la qualifica professionale dell'artigiano. Essi erano tanto più necessari in quanto lo spostamento degli artigiani da un paese all'altro li costringeva a rivolgersi per lavoro e per assistenza ai fratelli di altre città».30

Al termine della cerimonia l'iniziando prestava un solenne giuramento, in cui si impegnava a non far conoscere quanto gli era stato rivelato e veniva festeggiato con un gran banchetto.

In seguito il nuovo Compagno compiva un viaggio d'istruzione, visitando numerose altre logge (ossia altri cantieri), per meglio impratichirsi del mestiere accostandosi a diverse tecniche di costruzione. Terminato anche questo periodo, gli veniva fatto l'obbligo di approfondire le fondamenta teoriche dell'arte, frequentando per circa due anni la “camera dei disegni”, dove erano custodite le chiavi simboliche e tecniche dell'arte reale.

    Prima pagina Poema Regius

Quanto ai “Doveri”, grazie alla fortuita scoperta avvenuta nel 1830 al British Museum del cosiddetto “Manoscritto Regius”, siamo incommensurabilmente più informati. Il manoscritto, consistente in 784 versi scritti in un inglese arcaico, viene fatto risalire attorno al 1400 e contiene brani delle leggende e degli ordinamenti della corporazione muratoria, oltre ad istruzioni per adempiere scrupolosamente ai “Doveri” (Charges) attinenti al rango di massone. Tali doveri riguardavano tutti gli aspetti della vita, non solo quelli della professione, ma anche minute regole di comportamento «circa il modo di stare a tavola, di comportarsi con l'ospite, la moglie dell'ospite, sua figlia».31

Alla nostra sensibilità di moderni un simile accostamento può sembrare bizzarro, in realtà esso cela una profonda saggezza ed una grande conoscenza dell'animo umano. Con queste norme gli antichi muratori volevano, infatti, testimoniare che l'appartenenza alla corporazione non era un fatto professionale, ma una vera e propria scelta di vita, intimamente rivissuta in ogni momento, anche il più banale dell'esistenza. Una specie di sigillo che a prima vista doveva contraddistinguere il Libero Muratore dal profano.

L'iniziato, infatti, in ogni circostanza doveva caratterizzarsi per la misura e la correttezza dei modi, prova della sofferta capacità di esercitare un totale dominio su se stesso.

Quanto al termine “Libero Muratore” (Freemason) non ne esiste ancora una interpretazione univoca. Mentre la parola “massone” è di origine francese, importata in Inghilterra dai normanni,32 numerose sono le versioni riguardo al prefisso”free”. Secondo la tradizione, il massone era detto “libero” (free o franc) perché affrancato dai vincoli feudali. In tempi recenti si è invece affermata l'ipotesi che i liberi muratori fossero muratori particolarmente specializzati che, contrariamente ai manovali (cowans) che muravano le pietre già squadrate, sapevano lavorare la “freestone” (pietralibera), una pietra arenaria di qualità superiore particolarmente adatta ad essere modellata. A confermare questa tesi viene un documento del 1350 in cui in un francese arcaico di fa menzione del «mestre mason de franche pere» (maestro massone della pietra libera).

Vediamo ora come doveva essere organizzato un cantiere. Sopra tutti stava il Maestro architetto che sovrintendeva all'elaborazione dei progetti e alla realizzazione dell'opera. Egli era assistito da un “Parlatore” con il compito di tramettere ai Compagni i suoi ordini. Questo assistente del Maestro curava anche la ripartizione del lavoro fra i singoli muratori e la sorveglianza dei lavori del cantiere.

Ogni singolo scalpellino squadrava la pietra assegnata e la lavorava artisticamente a seconda dell'uso a cui veniva richiesta, infine la firmava col proprio marchio personale (gelosamente custodito con gli altri nel libro dei soci della corporazione).

    Marchi medievali

Sembra che nei cantieri delle cattedrali il numero dei Liberi Muratori non fosse molto elevato. C'è chi dice dai venti ai quaranta coadiuvati da una gran massa di manovali.34 Di certo sappiamo che attorno alle associazioni muratorie si formarono, per la stessa gigantesca complessità dei lavori, delle leghe assai estese comprendenti contadini e mercanti il cui scopo era la fornitura dei materiali da costruzione e delle provviste necessarie al cantiere, pittori, lattonieri, ceramisti, vetrai, ecc.

Accanto agli edifici in costruzione veniva eretta la loggia, sempre orientata come le cattedrali da oriente a occidente. Le autorità ecclesiastiche la proteggevano dal potere civile e dalla polizia sanzionando con la loro autorità il divieto di penetrarvi per coloro che non fossero membri riconosciuti della corporazione.

Nei locali, oltre a compiere i lavori più delicati, i muratori depositavano gli utensili, tenevano le loro riunioni e prendevano i pasti. In fondo alla costruzione vi era la “stanza delle linee” o “camera dei disegni”, riservata al Maestro Architetto, dove venivano conservati i progetti e dove venivano impartite lezioni di perfezionamento ai giovani Compagni.

Anche il termine loggia (che troviamo per la prima volta citato nel 1278) è oscuro. Alcuni lo fanno discendere dal latino, altri addirittura dal sanscrito. Secondo le varie interpretazioni esso designerebbe la Luce, il Cosmo o molto più semplicemente un luogo coperto.

(Da: G. Amico, Dalla Massoneria di mestiere alla Gran Loggia d'Inghilterra, CSI, Ars Graphica, Savona 1980)

27. cfr. H. Pirenne, Storia economica e sociale del Medioevo, Garzanti, Milano 1967, p. 204.
28. Cfr. M. Moramarco, La Massoneria, ieri, oggi e domani, De Vecchi, Milano 1977, p. 93.
29. Cfr. C. Jacq, La Massoneria. Storia e iniziazione, Mursia, Milano 1978, p. 95
30. Cfr. C. Francovich,Storia della Massoneria in Italia, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 3.
31. Cfr. J.C. Pichon, L'altra storia, Rosada, Torino 1972, p. 250.
32. Cfr. E. Lennhoff, Il Libero Muratore, Bastogi, Livorno 1976, p. 40.
33. Cfr. M. Moramarco, cit., p. 100.
34. Cfr. C. Jacq, cit., p.85.

Una precisazione è doverosa: in questi quasi 40 anni la ricerca storica sulle origini della Massoneria ha fatto passi da gigante, il testo è quindi da considerarsi datato, come peraltro dimostrano i testi citati, i più recenti dei quali sono degli anni '70.

4. Continua

giovedì 27 giugno 2019

3. La nascita delle corporazioni


    Heidelberg. Portale della cappella del castello

Terzo capitolo del nostro libriccino sulla Massoneria medievale, Oggi parliamo della nascita e degli sviluppi delle corporazioni muratorie fra l'XI e il XII secolo.

Giorgio Amico

La nascita delle corporazioni

A partire dalla seconda metà dell'XI secolo, in stretta concomitanza con il rinascere impetuoso dell'economia urbana, si assiste nelle regioni socialmente più avanzate d'Europa (Inghilterra, Francia, Germania, Italia) al rapido sorgere ed affermarsi di confraternite raggruppanti i lavoratori delle varie professioni cittadine. Queste associazioni, nate con tutta probabilità ad imitazione delle più antiche gilde commerciali, rispondevano ad esigenze di ordine religioso ed economico. Erano, infatti, al tempo stesso società di preghiera e carità ed organismi di mutuo soccorso degli artigiani.

Chiamate in molti modi («officium» o «ministerium» in latino, «arte» in italiano, «metier» o «jurande» in francese, «ambacht» o «nering» in olandese, «amt» o «innung» o «handwerk» in tedesco, «craftgild» o «mistery» in inglese), le corporazioni appaiono in tutta Europa del tutto identiche nelle loro caratteristiche fondamentali, sì da essere definite «la più generale e caratteristica espressione dell'economia urbana» medievale.22

Le prime notizie certe risalgono alla fine dell'XI secolo. Nel 1099, infatti, si associano i tessitori di Magonza, nel 1106 i pescivendoli di Worms, nel 1218 i calzolai di Wurtzburg, nel 1149 i fabbricanti di trapunte di Colonia.

In Inghilterra le prome craftgild vedono la luce sotto il regno di Enrico I (1100-1135) a oxford, Huntington, Winchester, Londra, Lincoln per diffondersi presto in tutte le principali città del reame.

Quanto alla Francia, sappiamo che all'inizio del XII secolo i conciatori di Rouen formarono un gilda alla quale furono costretti ad appartenere tutti coloro che intendevano esercitare quel mestiere dentro le mura della città.

Quanto alle confraternite muratorie, la loro nascita deve essere stata, se non più antica, perlomeno contemporanea. Gli studi di Hervé Masson confermano questa ipotesi. Nel suo «Dictionaire Initiatique» (Parigi 1970) e gli scrive a questo proposito:

«In Germania i tagliatori di pietra o “steinmatzen” esistono già come associazione segreta dal XII secolo e possiedono logge, principalmente la Gran Loggia di Strasburgo che ne era tribunale supremo, ma vi erano anche altre importanti logge, come quella di Colonia, Vienna, Zurigo, ecc. Gli “steinmatzen” giuravano già sul compasso e la squadra, compiendo un viaggio tradizionale (Wanderjahre), nel corso del quale visitavano le diverse logge dell'impero. Avevano motti di riconoscimento e segni particolari». 23

    Coblenza. Portale di casa medievale di un Maestro muratore

Nel 1268 Luigi IX di Francia, reso inquieto dalla rapida crescita di prestigio delle corporazioni, diede incarico ad Etienne Baileau, prevosto dei mercanti di Parigi, di operare un vero e proprio censimento delle associazioni di mestiere raccogliendone gli statuti. Vide così la luce il “Libro dei Mestieri” nelle cui pagine vennero scrupolosamente censite tutte le notizie attinenti le corporazioni allora esistenti nel regno.

Riferendosi ai membri delle associazioni muratorie, per i quali usa l'espressione «i nostri Fratelli, i Framassoni del nostro tempo»,24 mastro Boileau afferma come essi si dichiarino detentori di un segreto attinente alla loro professione, segreto che, tuttavia, egli non sa o non vuole rivelare. Ricorda, invece, come i Maestri siano soliti festeggiare l'accoglimento rituale di un nuovo fratello con un grande banchetto.

All'incirca in questo periodo iniziano ad apparire le prime notizie storicamente accertabili. Veniamo così a sapere di un grande raduno muratorio, svoltosi a Strasburgo nel 1275, in cui, sotto la direzione del Maestro Erwin von Steinback, viene decisa la ripresa dei lavori per l'erezione della cattedrale cittadina. Convegno sanzionato da un atto dello stesso imperatore, Rodolfo I d'Asburgo, concedente particolari franchigie ai tagliatori di pietra impegnati nel cantiere.

Un altro documento, conservato nel cartulario di Notre Dame di Parigi e risalente al 1283, da invece notizia di un incidente occorso in una loggia di scalpellini.

Quanto al termine stesso “loggia”, esso, secondo il Jones, appare la prima volta proprio in quegli anni (1278), su carte riguardanti i lavori dell'Abbazia Reale di Vale. Sappiamo tuttavia che già nel secolo precedente l'erigenda cattedrale di Saint-Gatieu, in Francia, aveva annessa una «camera dei metalli» riservata ai costruttori.


    Coblenza. Portale di casa medievale di un Maestro scalpellino

Come si è già accennato le confraternite medievali non si limitavano a svolgere semplici funzioni di mutuo soccorso o sindacali, ma aspiravano ad essere qualcosa di assai superiore.

«si può anzi asserire» - scrive lo Jacq - «che il loro carattere fu soprattutto “aristocratico”, raggruppando solo artigiani altamente qualificati e che avevano dato inequivocabile prova delle loro virtù spirituali, morali e tecniche».25

Così le organizzazioni muratorie non riunivano che costruttori scelti: i semplici manovali non specializzati , impiegati in modeste opere di costruzione (case, fattorie, ecc.) o come semplice forza-lavoro nei grandi cantieri, ne erano rigidamente esclusi,

In Inghilterra i veri «massoni» davano loro il nome di «cowans», termine che ancora oggi designa nella Libera Muratoria britannica coloro che, pur non appartenendo all'Istituzione, tentano di spacciarsi per tali.26

(Da: G. Amico, Dalla Massoneria di mestiere alla Gran Loggia d'Inghilterra, CSI, Ars Graphica, Savona 1980)

22 H. Pirenne, Storia economica e sociale del Medioevo, Garzanti, Milano 1967, p. 197.
23 J.M. Angebert, Il libro della Tradizione, Mediterranee, Roma 1977, p. 328.
24 J.C. Pichon, L'altra storia, Rosada, Torino 1972, p. 35.
25 C. Jacq, La Massoneria. Storia e iniziazione, Mursia, Milano 1978, pp. 84-85
26 S. Hutin, La Frammassoneria, in “Storia delle religioni, vol. XII, Laterza, Bari 1977 p. 161.

3. Continua

Una precisazione è doverosa: in questi quasi 40 anni la ricerca storica sulle origini della Massoneria ha fatto passi da gigante, il testo è quindi da considerarsi datato, come peraltro dimostrano i testi citati, i più recenti dei quali sono degli anni '70.

mercoledì 26 giugno 2019

2. Maestri Comacini e monaci costruttori



La storia della Massoneria medievale è ricca di leggende. Oggi ne raccontiamo due, quella dei Culdei e quella degli architetti Vichinghi. Non è leggendario invece il ruolo fondamentale svolto nella preservazione della cultura classica (architettura compresa) dai monaci seguaci di San Benedetto e San Colombano, così come la derivazione monastica del termine “Maestro Venerabile” che ancora oggi contraddistingue chi dirige i lavori di loggia. Buona lettura.

Giorgio Amico

Maestri Comacini e monaci costruttori

Se per gli storici è ormai certa la derivazione delle organizzazioni massoniche dalle associazioni operaie dei muratori sviluppatesi in Europa nell'alto Medioevo, meno sicura è la genesi di queste associazioni che tuttavia dovettero essere antichissime.

Fin dall'epoca longobarda si ha notizia dell'esistenza nell'Italia del nord di una confraternita muratoria, denominata dei «Maestri Comacini», della cui perizia architettonica sono rimaste poche vestigia, sparse fra Lombardia e Piemonte. Di essi sappiamo che già nel 632 d.C., grazie all'editto di Rotari, ottennero il riconoscimento di particolari «franchigie»: i membri della fratellanza erano esenti da ogni obbligo o servitù feudali e godevano, cosa rarissima per i tempi, della più completa libertà di circolazione.

Le notizie sicure sono, tuttavia, assai scarse. Non conosciamo con certezza neppure il significato preciso del loro nome. Mentre tradizionalmente il termine «comacinus» viene fatto derivare dalla città di Como, ad indicare il luogo d'origine della fratellanza, recentemente da più parti 12 è stata proposta una diversa etimologia. Secondo questa tesi il termine «macinus» deriverebbe dalla radice europea «mag» o «mak» (fare, foggiare), la stessa che sta all'origine di «massone» ed il prefisso «co» indicherebbe invece l'organismo muratorio. Per cui «comacinus» non starebbe ad indicare il luogo d'origine dei Maestri (nel cui caso sarebbe stato più corretto «comensis» o «comanus»), ma l'appartenenza ad una compagnia di muratori.

Altrettanto misteriosa resta la fine di questa scuola artistica, di cui non si trova più traccia dopo il IX secolo; probabilmente essa assunse caratteristiche stilistiche nuove confluendo nel grande alveo, allora in piena espansione, dell'arte carolingia.

Ancora più sfocata appare la vicende dei «Culdei», un ordine di monaci-muratori irlandesi fortemente intrisi di cultura druidica.

Mentre del monachesimo irlandese antecedente al Mille gli storici hanno saputo ricostruire un'immagine pressochè completa – si conosce, ad esempio, come, partiti dall'Irlanda, San Colombano e i suoi monaci fondassero monasteri in Belgio, in Borgogna, nelle Argonne, in Piccardia, come entrassero in contrasto con Roma ed infine venissero assorbiti nel grande movimento benedettino 13 – sul particolare fenomeno rappresentato dai Culdei i dati accertati scarseggiano. A questo proposito ci serviamo delle notizie riportate dal Moreau nel suo «La tradition celtique dans l'art roman» (Bordeaux 1963), pur premettendo che la ricostruzione dello studioso francese non ci pare in qualche passaggio del tutto convincente:

“Verso il 926 – scrive il Moreau – i costruttori Kuldées ottennero una carta di franchigia e formarono una società segreta contraria al papa, ma che restava tuttavia cristiana. Essi non battezzavano nello stesso modo degli ordini religiosi sottomessi a Roma. Esisteva, anche in Inghilterra, prima del X secolo, un'altra forma d'arco diversa dal tuttotondo. Ne rimane ancora qualche vestigia in Scozia. Dopo la conquista normanna, Guglielmo il Conquistatore, cattolico romano, è meno liberale dei suoi predecessori e impone la dottrina architettonica dei costruttori romani. Molti Kuldées emigrarono sul continente, ove costituiscono società segrete per diffondere le loro idee. Si uniscono così a San Bernardo. Si sa che egli non era affatto infeudato a Roma e conservava un'assoluta indipendenza in architettura.
Certe abbazie da lui edificate, in particolare quella di Loc-Dieu nel Rouergue, sono rappresentate da una T in luogo di una croce latina. Sulla base orizzontale della T si trovano cinque absidiole. Sarebbe questo, pare, il modello che avrebbe voluto far adottare san Bernardo che sembra essere stato uno degli ultimi Kuldées a voler difendere la tradizione celto-cristiana». 14

La vicenda dei culdei, sebbene infarcita di elementi leggendari, permette tuttavia di operare un collegamento fra le prime confraternite muratorie e il grande movimento monastico antecedente al Mille. Prima, però, accenniamo di passaggio all'opera di un altro studioso d'oltralpe, Maurice Guignard, per il quale le logge massoniche dei costruttori di cattedrali discenderebbero direttamente dagli equipaggi delle navi vichinghe. Egli spiegherebbe così anche l'origine del grembiule massonico, derivato dalla fascia di tela a forma triangolare indossate dagli equipaggi dei vascelli nordici.15 È un'ipotesi a prima vista assai fantasiosa, ma che può vantare precisi riscontri storici, quali l'esistenza di una dozzina di vescovi-architetti normanni con nomi contenenti la radice «geirr» (triangolo di tela in antico norvegese). Eccone alcuni tra i più significativi: Gervold (755-788) = Geirr Waldr (Maestro del Triangolo); Sigered (1017-1022) = Sar-Geirr-Aett (confraternita del triangolo) ecc. 16

Conferme vengono anche dall'iconografia nordica: in un'incisione su pietra, rinvenuta nello Jutland, appare uno scalpellino intento al lavoro, cinto da un grembiule triangolare e impugnante un martello a punta, entrambi da sempre classici emblemi massonici. 17

Nel Nord della Francia restano chiese, erette in puro stile normanno, con il tetto costruito a forma di chiglia rovesciata secondo l'uso vichingo di riprodurre nelle costruzioni la forma dello scafo dei loro agili drakkar. D'altronde un canto dei tagliapietre francesi dell'alto Medioevo non dice forse a proposito delle cattedrali:

«Nella nave di pietra
dalla chiglia rovesciata
dalla vela scaricata
i cui alberi sono di sasso
beviamo il vino
dei tagliatori di pietra
del Santo Dovere Straniero».18






















Ma riprendiamo il filo storico interrotto. Nel 529 San Benedetto fonda il grande monastero di Montecassino, destinato a diventare uno dei centri spirituali dell'intera Europa. Nel 590 San Colombano erige assieme ai suoi monaci il monastero di Luxeuil. Nel 909 nasce il grande centro di Cluny.

Il movimento monastico rivoluziona la cultura europea, valorizzando il lavoro manuale considerato fino ad allora degradante da un'aristocrazia terriera intrisa del concetto dell'otium romano e resa altera dalle consuetudini militari germaniche.19

I monaci sviluppano la scienza delle costruzioni e proteggono le prime confraternite degli scalpellini. Nei conventi l'abate è il capo costruttore, mentre un religioso esperto nell'arte edilizia è il capo cantiere, o «caput magister», che disegna la pianta dell'edificio e dirige il lavoro ripartendolo fra i monaci e gli scalpellini laici.20

Per questi motivi l'abate dei grandi monasteri benedettini e cistercensi è stato definito «il primo Maestro d'Opera del Medioevo, il modello del Venerabile della Libera Muratoria», in quanto considera l'utensile come una forza sacra e fa del lavoro una preghiera».21

(Da: G. Amico, Dalla Massoneria di mestiere alla Gran Loggia d'Inghilterra, CSI, Ars Graphica, Savona 1980)

12. Ad esempio il Jones (Freemasons' Guide and Compendium, London 1973) ripreso in Italia dal Moramarco.
13 Vedere a questo proposito G. Pepe, Il Medio Evo barbarico in Europa, Mondadori, Milano 1949, p. 34 e sgg.
14 Marcel Moreau, La tradition celtique dans l'art roman, Atlantis, Bordeaux 1963, p. 168.
15 Maurice Guignard, Les architectes odinistes des cathedrales, 1971.
16 J.M. Angebert, Il libro della Tradizione, Mediterranee, Roma 1977, p. 362
17 Riprodotto in Gwyn Jones, I Vichinghi, Newton Compton, Roma 1977, p. 362
18 J.M. Angebert, cit., p. 330n.
19 Vedere a questo proposito Jacques Le Goff, Il Cristianesimo medievale in Occidente, in “Storia delle religioni”, vol. X, Laterza, bari 1977, p. 43 e sgg.
20 Eugen Lennhoff, Il Libero Muratore, Bastogi, Livorno 1976, p. 35.
21 Christian Jacq, La Massoneria. Storia e iniziazione, Mursia, Milano 1978, p. 79


2. Continua


Una precisazione è doverosa: in questi quasi 40 anni la ricerca storica sulle origini della Massoneria ha fatto passi da gigante, il testo è quindi da considerarsi datato, come peraltro dimostrano i testi citati, i più recenti dei quali sono degli anni '70.

martedì 25 giugno 2019

1. La Massoneria dal mito alla storia


Primo capitolo di un lavoro, scritto alla fine degli anni 70 e pubblicato nel 1980. Una precisazione è doverosa: in questi quasi 40 anni la ricerca storica sulle origini della Massoneria ha fatto passi da gigante, il testo è quindi da considerarsi datato, come peraltro dimostrano i testi citati, i più recenti dei quali sono degli anni '70.

Alla memoria del mio babbo, “uomo libero e di buoni costumi”.

Giorgio Amico

Dal mito alla storia

I rappresentanti delle quattro logge londinesi che il 24 giugno 1717 si riunirono per costituire la “Grande Loggia d'Inghilterra”, non avrebbero di certo mai potuto immaginare che la loro decisione avrebbe suscitato nei secoli a venire tali e tante discussioni e fatto versare così cospicui fiumi d'inchiostro.

Da quella data, e sono trascorsi oltre due secoli e mezzo, gli studiosi di cose massoniche non hanno mai cessato di disputare aspramente tra loro sulle autentiche origini dell'associazione libero muratoria. Anzi col trascorrere dei secoli il clamore è divenuto tale che, come è stato detto, «approfondire gli studi storici sulla Massoneria vuol dire percorrere una strada in un labirinto. Di più in un'infinità di labirinti. Perché, quanto più grande è il numero dei lavori storici sulla Massoneria, tanto più sono i pareri degli autori». 1

Sull'esiguità dei dati storici certi, leggende e miti hanno potuto proliferare, colmando i vuoti storiografici più con la fede nell'Istituzione che con i frutti di una ricerca rigorosa e documentata. Tanto che uno studioso della levatura di Giordano Gamberini si è sentito in dovere di precisare, proprio nei confronti di una tale storiografia, come il compito dei Massoni fosse di rappresentare il proprio passato e non di giustificarlo rispetto ai propri presupposti teorici. 2

A intorbidare le acque dettero, tuttavia, non poca mano gli stessi padri fondatori che, nel ricostruire le vicende della Libera Muratoria non diedero di certo prova di eccessiva prudenza. Essi, infatti, mentre da un lato non si diedero soverchia pena di spiegare come e perché le quattro logge londinesi fossero pervenute in quel lontano 1717 alla decisione di compiere un passo di importanza storica, quale la creazione di una Gran Loggia Madre con giurisdizione sul mondo intero; diedero per quanto attiene alle origini della neo-costituita associazione libero sfogo alla loro fantasia, sostituendo la leggenda alla storia, il mito alla realtà.





Già nel 1723 il reverendo James Anderson si acquistava il titolo di «primo grande storico della Massoneria», facendo seguire alle Costituzioni che portano il suo nome, un lungo documento nel quale si pretendeva ricostruire integralmente la storia dell'associazione. Nel testo si faceva risalire la fondazione della Massoneria ad Adamo, per passare poi a Seth, ai profeti, al re Salomone, agli assiri, agli Egiziani, ai greci, ai Romani che infine avrebbero introdotto l'arte reale in Inghilterra. 3

All'Anderson seguirono miriadi di “ricercatori”, animati dal fiero proposito di nobilitare la Libera Muratoria da poco fondata, riscoprendone antichissime origini addirittura situate in una sfera extra-umana. Tra tutti costoro spiccano certamente per inventiva autori quali William Preston che, nella sue “Illustrations of Masonry», pubblicate a Londra nel 1772, ne collocò le origini all'epoca della creazione; o il dottor George Oliver, autore nel 1823 di un ponderoso “Antiquities of Green Masonry”, in cui si possono leggere affermazioni del calibro della seguente:

«La nostra istituzione già esisteva in diversi sistemi solari, prima della creazione del globo terrestre». 4

Altri, in polemica con la tradizione corporativa, democratica ed egualitaria della Massoneria inglese, favoleggiarono di una discendenza aristocratica e cavalleresca dell'associazione, onde fare appello alla nobiltà europea. Così il Ramsay potè nel 1737 proclamare le origini crociate della Libera Muratoria ed il barone von Hund creare le premesse col suo Regime della Stretta Osservanza della cosiddetta Massoneria Templare.

Altri ancora, espressione dei circoli misteriosofici in voga nel XVIII e XIX secolo, videro i Massoni come gli eredi dei grandi iniziati dell'antichità, dagli Atlantidei, ai sacerdoti egizi, dai filosofi pitagorici ai mistici Rosa Croce.

Questo inconscio desiderio di nobili progenitori pervade anche ricercatori a noi contemporanei. Ne è prova tra le altre l'opera del Ventura, il quale sulla base degli studi del Keller 5, a cui tuttavia rimprovera di aver dato «all'umanesimo massonico carattere cristiano» 6, colloca la «culla della Massoneria» in Roma nell'ambito delle Unioni culturali a sfondo iniziatico sorte nel II secolo a.C. per opera di Publio Cornelio Scipione.


Oggi gran parte della critica storica è concorde nel relegare nel campo delle allegorie queste interpretazioni tradizionali, per ricercare nel concreto divenire storico-economico della società europea le vestigia dell'istituzione muratoria.





Così il Francovich che fonda storicamente l'ipotesi della derivazione della Massoneria moderna dalle antiche corporazioni, derivazione temperata, tuttavia, dall'acquisizione di «finalità umanitarie e filantropiche, le quali nulla hanno più in comune con il mestiere del muratore» 8; o l'Hutin per il quale «la stessa parola frammassoneria evoca immediatamente l'idea di costruzione, di edificazione progressiva» 9; o il Pontevia che ritiene «certa l'origine delle organizzazioni massoniche dalla associazioni operaie dei muratori esistenti in Germania ed in Inghilterra». 10

Così, per concludere, il Moramarco, per il quale «la Massoneria non è nata né dai Rosacroce, né tanto meno dai templari. L'evidenza storica depone a favore dell'ipotesi di una filiazione della Massoneria “speculativa” dalla Massoneria “operativa” con un processo di intellettualizzazione le cui tappe non ci sono note […]. Di più allo stato attuale della storiografia massonica, non si può dire e non si deve dire». 11

1. E. Lenhoff, Il Libero Muratore, Bastogi, Livorno 1976, pag. 29
2. G. Gamberini, Massoneria italiana , storia e storiografia, Rivista Massonica, n 1, 1975.
3. C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 15.
4. Citato in C. Jacq, La Massoneria. Storia e iniziazione, Garzanti, Milano 1978, p. 21.
5. L. Keller, Le basi spirituali della Massoneria e la vita pubblica, Atanor, Roma 1970.
6. T. Ventura, Massoneria alla sbarra, Atanor, Roma 1961, p. 21.
7. Ivi, pp. 27-30
8. C. Franovich, cit., p. 9.
9. S. Hutin, La Frammassoneria, in “Storia delle religioni, vol. XII, Laterza, Bari 1977, p. 161.
10. A. Pontevia, Cattolicesimo e Massoneria, Atanor, Roma 1948, p. 51-52.
11. M. Moramarco, La Massoneria, ieri, oggi e domani, De Vecchi, Milano 1977, p. 100.


(G. Amico, Dalla Massoneria di mestiere alla Gran Loggia d'Inghilterra, CSI, Ars Graphica, Savona 1980.)


1. continua

lunedì 24 giugno 2019

Letture per l'estate. Storia, miti e leggende della Massoneria medievale



Letture per l'estate

Storia, miti e leggende della Massoneria medievale

In una prima fase di vita, durata quasi dieci anni, Vento largo ha funzionato come cassa di risonanza per articoli, tesi, proposte culturali, che non necessariamente ricalcavano il mio pensiero, ma che ritenevo essere possibili buoni spunti di riflessione o validi contributi alla discussione. Questa seconda fase, determinata da una traversia legale su cui non ritorniamo, sarà invece maggiormente incentrata su quello che è, o che è stato in altri periodi del mio percorso personale e culturale, il mio pensiero. Il che ovviamente non impedirà di dare spazio ad altre voci, ma ponendo la massima attenzione a evitare il ripetersi di nuovi conflitti legati al copyright.

Non è, lo ho già detto in un'altra occasione, un attacco di megalomania, legato magari all'invecchiamento e al lento decrescere delle cellule cerebrali (fenomeni, peraltro, purtroppo in atto), ma l'unico modo per mantenere in vita, anche se in forma ridotta e sicuramente meno ricca intellettualmente, Vento largo a cui sono affezionato fosse altro che dal 2009 ha accompagnato tutti i momenti importanti della mia vita.

Vista le buona accoglienza fatta al libriccino sui Fuochi di San Giovanni, presenterò nei prossimi giorni come lettura estiva un altro libriccino, da sempre introvabile, apparso una quarantina di anni fa, in cui si ricostruisce la storia, anche leggendaria, della Massoneria di mestiere, dalle origini alla fondazione della Gran Loggia d'Inghilterra nel giorno di san Giovanni del 1717.

Si tratta di un'opera giovanile e di carattere divulgativo, oggi non la scriverei più così, ma che, credo, possa ancora risultare di un qualche interesse soprattutto per chi di questi temi conosce il poco che se ne scrive, e spesso assai malamente, sui giornali.

Iniziamo oggi con la pubblicazione della copertina, che già da sola meriterebbe un libro intero, e che  rappresenta l'iniziazione rituale di Compagni d'Arte ad opera di Pierre d'Aubusson, Gran Maestro dell'Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme. La scena si svolge nel 1480 nell'isola di Rodi, sede generale dell'Ordine, assediata dalla flotta turca che si intravvede sullo sfondo, mentre ci si affretta a rialzare e a rafforzare le mura di difesa della città e del porto.

Davanti ai Fratelli, riuniti “in piedi e all'ordine”, il Gran Maestro tocca ritualmente con il bastone, simbolo della sua “dignità magistrale”, sulla spalla un Apprendista elevandolo al grado di Compagno.

Attorno all'iniziando un carpentiere, uno scalpellino ed un muratore presentano in modo rituale i loro attrezzi. A terra fra altri oggetti, spiccano una Squadra e un Compasso, simboli cardine dell'Arte Reale.

Siamo di fronte alla rappresentazione realistica, quasi fotografica, di un passaggio di grado all'interno della corporazione muratoria. Una chiara dimostrazione, e ne esistono centinaia di altre disperse in quadri, affreschi, capitelli, libri, del fatto che, nonostante i luoghi comuni e ciò che molti ne pensano, la Libera Muratoria non ha mai nascosto la sua esistenza, né celati i suoi riti e i suoi simboli.

Buona lettura e buona estate.

Giorgio Amico

Savona, 24 giugno , giorno di San Giovanni.


Wifredo Lam. Barcellona, Surrealismo, Rivoluzione



Abbiamo dato conto recentemente di una interessante iniziativa a Madrid sul rapporto fra surrealismo e rivoluzione spagnola. Ci torniamo proponendo alcune pagine della nostra biografia sul surrealista cubano Wifredo Lam che in Spagna visse e combatté accanto a Juan Brea e Mary Low. 


Giorgio Amico

Wifredo Lam. Barcellona, Surrealismo, Rivoluzione


A Barcellona Lam entra in contatto con la più avanzata avanguardia artistica spagnola, ma anche con le dissidenze rivoluzionarie che cercano di trasformare la guerra antifascista in rivoluzione sociale. Realtà multiformi, quelle delle avanguardie artistiche e politiche, che senza essere immediatamente sovrapponibili, hanno comunque numerosi punti di contatto. In questo variegato contesto egli stringe rapporti calorosi con anarchici e poumisti, ma soprattutto con militanti trotskisti come lo scrittore surrealista francese Benjamin Peret, la poetessa australiana Mary Low e il suo compagno, lo scrittore cubano Juan Breá.

Tramite l'Istituto di Cultura Marxista, una delle più vive realtà culturali di Barcellona e di fatto emanazione del POUM, questo piccolo gruppo di intellettuali rivoluzionari, di cui fa parte anche l'italiana Virginia Gervasini, sviluppa da tempo un'intensa attività culturale dibattendo dei rapporti tra arte e lotta di classe, surrealismo e capitalismo, sessualità e proprietà privata. Temi tali da suscitare l'interesse e la partecipazione non solo degli intellettuali rivoluzionari, ma anche di buona parte degli artisti d'avanguardia.


E' difficile affermare con precisione quale sia la posizione politica di Lam in quel momento: anche se non milita in nessuno dei piccoli gruppi politici che in vario modo fanno riferimento a Trotsky né nel POUM, di sicuro non condivide lo stalinismo feroce del PCE che non tollera alcuna forma di dissidenza e violentemente si accanisce contro trotskisti, poumisti e anarchici. Agustín Guillamón nella sua fondamentale opera sul trotskimo spagnolo lo inserisce fra gli intellettuali bolscevico-leninisti assieme a Juan Breá che trotskista lo era veramente tanto da subire ripetuti tentativi di assassinio da parte degli stalinisti. Di certo si può dire che proprio nel momento in cui i trotskisti iniziano ad essere perseguitati, accusati di essere la "quinta colonna" del fascismo, incarcerati e assassinati, Lam non nasconde la simpatia che prova nei loro confronti, non rinnega l'amicizia fraterna che lo lega a loro. Semplicemente resta al loro fianco fino alla fine.

E la fine per Lam giunge nella primavera del 1938, quando le forze fasciste stanno progressivamente prendendo il controllo del paese e in campo repubblicano gli stalinisti si dedicano principalmente a dare la caccia ai pochi trotskisti e poumisti rimasti ancora in libertà. E' un momento terribile per chi ancora crede nella rivoluzione.

"A Barcellona - denuncerà nel suo grande libro sulla rivoluzione in Catalogna George Orwell, già combattente nelle formazioni del POUM - c'era nell'aria una particolare sensazione di maleficio: un'atmosfera di sospetto, di paura, d'incertezza e d'odio dissimulato.I combattimenti del maggio s'erano lasciati dietro conseguenze incancellabili."

Munito di una lettera di presentazione per Picasso fornitagli dall'amico scultore Manuel (Manolo) Hugué, Lam decide di abbandonare la Spagna e di trasferirsi a Parigi. Orwell se ne era già andato e prima di lui erano partiti Mary Low e Juan Breá.


"E' tutto frammisto, confuso con scene, odori, rumori che non è possibile rendere con la penna: l'odore delle trincee, le aurore di montagna sfumanti via a distanze incommensurabili, il secco crepitar dei proiettili, il rombo e il lampo delle bombe; la luce limpida e fredda delle mattine di Barcellona…quando ancora la gente credeva nella rivoluzione; e le file davanti alle botteghe, e le bandiere rosse e nere e i volti dei miliziani spagnoli, soprattutto i volti dei miliziani, uomini che ho conosciuto al fronte e sono ora dispersi Dio sa dove, chi ucciso in combattimento, chi mutilato, chi in carcere… Questa guerra, nella quale ho contato così poco, mi ha lasciato ricordi in gran parte dolorosi, e tuttavia non vorrei non avervi partecipato."

Così George Orwell aveva dato per sempre il suo addio alla terra di Spagna dove aveva combattuto nelle milizie rivoluzionarie del POUM. Sentimenti simili tormentavano il cuore di Lam, mentre in un giorno piovoso passava il confine con la Francia. Il desiderio di raggiungere Parigi, vero cuore pulsante dell'avanguardia artistica mondiale, il sogno che stava per realizzarsi di incontrare Picasso non gli rendevano meno triste la partenza. A trentacinque anni, al termine di un lungo apprendistato artistico ed umano, Wifredo Lam abbandonava tristemente quella terra dove era arrivato poco più che adolescente, che aveva sentito sua, dove aveva vissuto, combattuto, amato:

"Lasciare la Spagna democratica che stava per cadere nelle mani dei fascisti fu per me un grande dolore che mi accompagnò sempre e ancora mi ferisce. In quell'amata terra di Spagna rimasero il corpo di Eva e del mio primo figlio. Mi lasciai dietro anche molti compagni di lotta che amavo come fratelli. Quella tragedia fece come scendere un sipario a chiudere una fase felice della mia vita, un sipario che si sarebbe sollevato di nuovo solo con la vittoria della rivoluzione cubana".

(Da: G.Amico,Wifredo Lam, Massari editore, 2006, p. 52-54.)

(Il libro, unica biografia italiana del maggior artista cubano del 900, è ancora ordinabile in libreria o direttamente presso l'Editore).



INFINITO notturno di versi


giovedì 20 giugno 2019

I fuochi di San Giovanni. La notte delle streghe


    J.W. Waterhouse, the Magic Circle (1886)

Ultimo capitolo del libriccino sulla notte di San Giovanni. Questa volta parliamo di streghe, di quelle di Benevento, ma anche di quelle della nostra Liguria.

Giorgio Amico

I fuochi di San Giovanni

La notte delle streghe

Come ogni momento di passaggio, la notte di San Giovanni è densa di pericoli, popolata di forze malefiche. Da mezzanotte all'alba spiriti dei morti, demoni e streghe sono protagonisti di quel tempo sospeso. Nel Medioevo si pensava che in quella notte tutte le streghe d'Europa, guidate da Erodiade, Salomè e Diana, volassero nel buio per radunarsi a Benevento sotto un grande noce. Un albero, il noce, che godeva di una fama sinistra, perché considerato l’ultimo rifugio delle streghe condannate al rogo. Esse potevano salvarsi dal supplizio trasformandosi in spirito ed entrando nel più vicino tronco di noce, per poi riacquistare la libertà al momento dell’abbattimento dell’albero. Una credenza tanto diffusa che in molti luoghi il taglio di un noce doveva essere preceduto da particolari formule propiziatorie.

La leggenda aveva contorni molto sfumati. Ad esempio non era chiaro neppure agli abitanti di Benevento in quale località precisa sorgesse il noce plurisecolare attorno al quale le fattucchiere intrecciavano le loro danze sfrenate durante il solstizio d'estate. Ma tutti erano assolutamente certi che esistesse veramente e che le streghe vi giungessero in volo. Addirittura si conosceva la formula magica che queste usavano per poter volare, dopo essersi cosparso il corpo di un unguento magico:

“Unguento, unguento
mandame a la noce de Beneviento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne maltempo”.

Questa formula, universalmente conosciuta e che ritroviamo in tutti i racconti sulle streghe di Benevento, ha finito col rappresentare l'immagine di maggior potenza evocativa del rituale preparatorio al volo notturno ed è ritenuta espressione autentica del folklore popolare. (74) In realtà le cose stanno in modo molto diverso e fanno pensare che le origini di questa celebre formula siano da ricercare piuttosto negli ambienti inquisitoriali ed in particolare in un processo per stregoneria svoltosi a Todi nel 1428 nei cui atti si ritrova per la prima volta. Un processo simile a tanti altri, istruito nei confronti di una certa Matteuccia di Francesco, una contadina di circa quarant'anni, herbaria (cioè guaritrice con le erbe), nel corso del quale la poveretta rivelò sotto tortura ai giudici di essersi recata più volte in volo al grande sabba di Benevento e di averlo potuto fare proprio grazie a quella formula. E' nelle carte di Todi che si ritrova per la prima volta la celebre formula e dunque non nei cosiddetti «secoli bui» di un Medioevo barbarico, ma solo pochi decenni prima della scoperta dell'America. Esaminate con attenzione, quelle carte e quelle procedure fanno pensare che le dichiarazioni della disgraziata Matteuccia non fossero poi tanto spontanee. In sostanza la donna si sarebbe limitata, come il più delle volte accadeva in quel tipo di processo, ad ammettere ciò che le veniva richiesto, sottoscrivendo quanto, episodi e formule, gli inquisitori le sottoponevano. (75)

Qualunque sia stata la genesi della formula, essa si rivelò subito popolarissima, anche perché andava a rafforzare la credenza popolare, questa si davvero antichissima, che in certi periodi dell'anno le streghe potessero introdursi nelle case per fare dispetti o portare la malasorte. Proprio a Benevento le streghe erano chiamate Janare a causa della loro propensione a penetrare nelle case attraverso le porte («ianua» in latino) lasciate incustodite. È per questo motivo che durante la notte di San Giovanni si usava mettere sale grosso sui davanzali delle finestre o scope di saggina dietro le porte. La strega, curiosa di conoscere il numero dei chicchi di sale o dei fili di saggina, si sarebbe messa a contarli perdendo così tempo finché la luce dell’alba non l'avesse costretta a fuggire via. Una credenza diffusa anche in Liguria ancora nel Novecento, tanto che il cantautore genovese Fabrizio De Andrè la riprende nella canzone «A Cimma»:

“ti mettiàe ou brùgu rèdennu’nte ‘n cantùn
che se d’à cappa a sgùggia ‘n cuxin-a stria
a xeùa de cuntà ‘e pàgge che ghe sùn
‘a cimma a l’è za pinn-a a l’è za cùxia.”

[Metterai la scopa dritta in un angolo/ che se dalla cappa scivola in cucina la strega/ a forza di contare le paglie che ci sono la cima è già piena e già cucita]

Storie analoghe si trovano un po' in tutta Italia. Lo scrittore ottocentesco Cesare Cantù narra in un suo racconto di ambientazione medievale come nella notte di San Giovanni le campane dei villaggi lombardi non smettessero di suonare affinché le streghe "a cui, se nol sapeste, è spaventosissimo lo scampanio, non potessero cogliere le erbe nocive, nè impedire con loro malizie che fossero colte le profittevoli". (76)

Tanti erano i rimedi per proteggersi dalle streghe in quella notte. A Roma si credeva che fosse sufficiente portare dell'aglio sotto la camicia, insieme ad un mazzetto di iperico, ruta ed artemisia. Un uso che troviamo citato in un sonetto del Belli del 1834:

“Domani è San Giuvanni? Ebbè fio mio,
qua stanotte chi essercita er mestiere
de streghe, de stregoni e fattucchiere
pe la quale er demonio è er loro Dio,
se strasformeno in bestie; e te dich'io
ch'a la fisionomia de quelle fiere,
quantunque tutte-quante nere nere
ce pòi raffugrà più d'un giudio.
E accussì vanno tutti a San Giuvanni,
che lui è er loro santo protettore,
pe lo meno che sia, da un zeimillanni.
Ma a me, co 'no scopijo ar giustacore
e un capo-d'ajo o dua sott'a li panni,
m'hanno da rispettà come un zignore”. (77)

Non legato alle streghe, ma comunque connesso al carattere magico della festa, e ancora oggi diffusissimo un po' in tutta Italia, è l'uso di mangiare nel giorno di San Giovanni un piatto di lumache ritenendo che porti fortuna. Una credenza che si ricollega al simbolismo arcaico delle corna: “ Già si è spiegato – scrive Cattabiani – che il Cancro, all'inizio del quale cade il solstizio estivo, è un segno d'acqua a causa della luna. La lumaca, a sua volta, è un simbolo lunare, che indica la rigenerazione periodica con i suoi cornetti che mostra e ritira alternativamente, così come la luna appare e scompare nel suo ciclo perenne di morte e rinascita. Sicché la lumaca è simbolo di movimento nella permanenza e di fertilità, dunque di animale omologo alla porta solstiziale.” (78)

Un simbolismo che si perde nella notte dei tempi, ancora oggi tanto popolare che portare un corno o fare il gesto delle corna è considerato da molti la più efficace protezione contro la sfortuna.



E per finire... Sibilla Aleramo

Come tutte le cose anche la festa di San Giovanni non è passata indenne al vaglio del tempo. I falò continuano ad illuminare le notti di giugno, ma hanno perso quasi completamente la loro carica magica e sono diventati un semplice spettacolo, vestigia di un passato di cui nessuno comprende più l'autentico significato. E' una gioia malinconica quella dei nostri falò, che ben si adatta ad una umanità che ha perso la capacità di cogliere la magia profonda insita nel cosmo. Non è un caso se nel corso di questo nostro breve viaggio lungo i sentieri del mito abbiamo incontrato tanti poeti. Forse davvero oggi per cogliere a fondo la carica potentemente magica della festa di San Giovanni occorre avere cuore e occhi d'artista, o forse di bambino.

Matrimonio del Sole e della Luna, del Fuoco e dell'Acqua, fusione degli elementi primordiali, la notte di San Giovanni custodisce gelosamente il segreto stesso della vita e per questo non smette di affascinare anche noi, abitanti disincantati di un mondo senza più misteri. E' il fascino dolcemente malinconico delle cose di un tempo che si conservano con cura anche se non servono più. Ce lo ricorda Sibilla Aleramo in suo appunto del 1938:

"Legna che arde. Crepitio nel silenzio. Alari. Bastan due tizzi, spirito reduce, e un palpitar di fiamma azzurra. Riassunta tutta la miracolosa vivacità degli elementi. Più fresca d'un acqua corrente, più vicina del vento alla segreta gioia della terra, cuore del tempo, rosso ganglio eterno. Due tizzi fra alari anche di camino straniero, in una sosta anche di un'ora sola. O un falò sotto fredde stelle, un rombo, una scossa han destato minacciosi le case, s'esce al freddo aperto, i campi s'accendono come in una notte di San Giovanni." (79)


74. Paolo Aldo Rossi, L'unguento per volare al sabba, in: http://www.airesis.net/
75. Domenico Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di Francesco (Todi, 20 marzo 1428), CISAM (Centro Italiano studi sul Basso Medioevo) 2013.
76. Cesare Cantù, Margherita Pusterla, Torino, Stabilimento tipografico Fontana, 1843, p. 177.
77. Giuseppe Gioachino Belli, San Giuvan-de-giugno, in I sonetti, Milano, Feltrinelli, 1976, Vol. II, p. 1159.
78. Cattabiani, Calendario, cit. p. 240.
79. Sibilla Aleramo, Orsa Minore. Note di taccuino e altre ancora, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 98.

10. Fine

mercoledì 19 giugno 2019

Surrealisti nella rivoluzione e nella guerra di Spagna


Un po' distantuccio, ma di grande interesse.

I fuochi di San Giovanni. Le erbe di San Giovanni




Secondo la tradizione il solstizio d'estate è il periodo in cui le energie della terra sono al culmine, quindi la notte che lo precede è il momento migliore per raccogliere erbe e fiori che, grazie alla potenza magica assorbita, rappresentano un sicuro antidoto contro le malattie, i sortilegi di diavoli e streghe e in genere ogni tipo di sventura. Le piante, come i fuochi di mezza estate, erano ritenute in grado di trasferire agli uomini parte dei misteriosi poteri generativi della natura.

Giorgio Amico

I fuochi di San Giovanni


Le erbe di San Giovanni

Secondo la tradizione il solstizio d'estate è il periodo in cui le energie della terra sono al culmine, quindi la notte che lo precede è il momento migliore per raccogliere erbe e fiori che, grazie alla potenza magica assorbita, rappresentano un sicuro antidoto contro le malattie, i sortilegi di diavoli e streghe e in genere ogni tipo di sventura. Le piante, come i fuochi di mezza estate, erano ritenute in grado di trasferire agli uomini parte dei misteriosi poteri generativi della natura. (69)

Le erbe raccolte la notte di San Giovanni, prima del sorgere del sole quando le loro proprietà curative o magiche sono più forti, erano considerate erbe benefiche, in grado di scacciare ogni malattia, evitare il malocchio, proteggere la casa e gli animali. Le più ricercate erano però le piante cosiddette della buona salute, quelle che possedevano particolari poteri curativi: l'artemisia, l'iperico, la verbena, la ruta.



L'artemisia

Secondo la tradizione è la pianta di Artemide (l'equivalente della Diana romana), la dea protettrice della caccia e delle piante medicinali che curano i disturbi tipici delle donne. Già il nome porterebbe lontano, se solo pensiamo che dagli inquisitori Diana era considerata la Signora delle streghe, maestra delle guaritrici e delle levatrici. Ricordo di quando nell'antichità la dea proteggeva le donne dai dolori del parto e dalla febbre puerperale. E in effetti l'artemisia ha proprietà emmenagogiche, contiene cioè sostanze che regolano il flusso mestruale e ne riducono i disturbi avendo anche effetti rilassanti del sistema nervoso e degli spasmi muscolari.

Nel mondo greco-romano Diana, oltre a proteggere le partorienti, si curava anche della salute dei neonati e dei bimbi piccoli. La pianta possiede infatti proprietà antisettiche e depurative ben conosciute e dunque veniva usata come vermifugo e nelle convulsioni dei bambini.

Moltissimi erano gli utilizzi dell'artemisia. Era tradizione appenderla nelle stalle per tenere mosche e tafani lontani dagli animali. Dipinta sulle fiancate dei carri e delle carrozze proteggeva dagli incidenti stradali e garantiva ai trasportati un viaggio senza pericoli. Le sue radici, se raccolte nella notte di San Giovanni proteggevano dai fulmini e dalle tempeste se cucita sugli abiti.

Pianta diffusissima, ne esistono circa 400 specie, è conosciuta soprattutto come Artemisia absinthium, fin dai tempi più antichi apprezzata per le sue proprietà terapeutiche: è infatti antisettica,digestiva, stimolante, tonica e vermifuga. Dalle foglie e dai fiori gialli della pianta si ottiene un olio che con l’aggiunta di acqua diventa lattiginoso. Alla fine del Settecento un medico francese, Pierre Ordinaire, riprendendo vecchie ricette dell'erboristeria tradizionale, ne ricavò, mescolandolo a anice, issopo, dittamo, acoro e melissa, una bevanda dalla fortissima gradazione alcolica: l'Assenzio o Fée Verte (la Fata Verde), la droga degli artisti bohèmiens cantata da Baudelaire e Verlaine.

“Tout cela ne vaut pas le poison qui découle
De tes yeux, de tes yeux verts,
Lacs où mon âme tremble et se voit à l'envers...
Mes songes viennent en foule
Pour se désaltérer à ces gouffres amers.”

[Ma più veleno stillano i tuoi occhi, i tuoi verdi occhi, laghi dove si specchia e capovolto trema il mio cuore, amari abissi dove a frotte si dissetano i miei sogni] (70)

Così Baudelaire, rivolto alla sua amante, Marie Daubrun, attrice nota per la bellezza dei suoi occhi verdi, ma anche esplicito riferimento al potere inebriante della Fée Verte.


L'Iperico

L'iperico, detto anche erba di San Giovanni o scacciadiavoli, è una pianta officinale con proprietà antidepressive e antivirali. Cresce in grandi macchie e la sua densità di fioritura è tale da risaltare come macchia di colore giallo oro misto con rossiccio; infatti i fiori durano poco, dopo un giorno sono già appassiti, si infeltriscono e assumono un colore rosso ruggine.È ben riconoscibile anche quando non è in fioritura perché ha le foglioline che in controluce appaiono bucherellate. Da qui il nome di Hypericum perforatum.

Nel medioevo si diffuse la leggenda che l’iperico fosse nato dal sangue di san Giovanni e che il diavolo volesse distruggerla trafiggendola, ma l’unico risultato ottenuto era stato quello di perforarle le foglie. Schiacciando le foglie se ne ricava un pigmento rosso-bluastro che è il principio attivo dell’iperico e ha un odore pungente. Detta, per il suo colore «Sangue di San Giovanni», questa sostanza dona salute, protezione, forza. Si dice anche che il nome di erba di San Giovanni risalisse al fatto che all'epoca delle crociate l’ordine dei cavalieri di San Giovanni utilizzasse questa pianta per produrre un balsamo utilizzato per cicatrizzare le ferite ricevute in battaglia dai suoi membri. (71)

Per le sue proprietà lenitive veniva usato per curare bruciature, scottature, eritemi solari, ulcere, piaghe, contusioni, slogature. Raccolto alla vigilia della festa di san Giovanni e poi macerato nell'olio d'oliva veniva usato come rimedio contro tutti i problemi dovuti al sole e al caldo, ma anche per la cura dei reumatismi, sciatica ed in cosmesi per dare tono alla pelle avvizzita. Si riteneva che avesse il potere di mettere in fuga i diavoli, da qui il suo antico nome «Fugademonum». Per questo veniva spesso posto sopra la porta di casa, mentre sparso sul tetto proteggeva dai fulmini. Chi si trovava per la strada nella notte della vigilia di San Giovanni, si proteggeva dalle streghe infilandoselo sotto la camicia. Bruciato produceva un fumo odoroso simile all'incenso che proteggeva da spiriti e demoni. Era poi convinzione comune che le foglie d'iperico messe sotto il cuscino di un donna nubile le facessero apparire in sogno il futuro marito.

Sembrano sciocche superstizioni, ma oggi sappiamo che l’ipericina (il principio attivo dell’iperico) è un forte antidepressivo e un efficace regolatore del tono dell’umore e del ciclo sonno-veglia, tanto da essere ancora oggi largamente usato nella produzione di farmaci. Non avevano poi torto allora gli abitanti delle campagne nei secoli scorsi a considerarlo un efficace antidoto contro i cattivi pensieri e i disturbi del sonno.



La Verbena

E’ una pianta molto comune, infestante con, fiori piccoli, molto profumati. Cresce spontanea nei prati, nei boschi e lungo le strade di campagna. I Romani la consideravano una pianta sacra. Negli altari dedicati a Giove, veniva bruciata della Verbena per purificarli e venivano preparate delle fascine di questa erba per spazzarli. Una leggenda medievale narrava che la verbena era stata utilizzata sul Monte del Calvario per cicatrizzare le ferite di Gesù crocifisso. Per questo mentre la si coglieva si doveva recitare questa formula propiziatoria:

“Tu sei santa, Verbena,
come cresci sulla terra,
perché in principio sul Calvario fosti trovata,
tu hai guarito il Redentore
e hai chiuso le sue piaghe sanguinanti,
in nome del Padre, del Figlio
e dello Spirito Santo ti colgo.” (72)

Ancora fino a non molti anni fa il giorno della festa dell'Assunta in molte località rametti di verbena venivano benedetti durante la messa per essere poi appesi nelle case e nelle stalle. Per queste sue caratteristiche purificatrici in caso di epidemie la verbena veniva bruciata per strada e nelle case per disinfettarle.

La pianta era anche nota per le sue presunte proprietà afrodisiache. Si credeva che profumarsi di verbena suscitasse l'amore. Infusi di verbena venivano usati per risvegliare la passione amorosa. In questo caso petali di verbena erano messi a macerare con del miele in un recipiente contenente del vino, dopo sette giorni si filtrava ed ecco pronto l'elisir d'amore da offrire alla persona amata. Le giovani spose il giorno delle nozze portavano con sé un mazzetto fiorito di Verbena, che le avrebbe aiutate a superare felicemente la prima notte. Echi di queste credenze sono sopravvissuti a lungo. Ancora agli inizi del secolo scorso era uso recarsi agli incontri con la persona amata muniti di confetti di verbena con cui profumarsi l'alito.



La Ruta

Era una pianta molto usata per le sue caratteristiche, ma necessitava di molta cautela per i suoi effetti irritanti e velenosi. Per questo ne veniva sconsigliata la raccolta e l'uso a chi non fosse particolarmente esperto. Possedeva proprietà digestive e antispasmodiche. Come l'artemisia favoriva le mestruazioni poiché aumentava la circolazione sanguigna nell’utero, ma poteva anche avere effetti abortivi e anche a questo scopo veniva utilizzata dalle guaritrici. Aveva poteri sedanti, calmava il dolore, riduceva i sintomi dell’ansia e del nervosismo. Per questo si usava come cura contro l'insonnia. Per gli stessi motivi era ritenuta un rimedio efficace contro la paura. Portata addosso o tenuta in tasca aiutava a superare situazioni difficili o di pericolo.

Era convinzione diffusa che, ridotta in polvere, evitasse il contagio della peste e curasse gli effetti dei veleni e dei morsi di serpenti. Emana un odore sgradito agli insetti e ai roditori, per questo veniva sparsa sui pavimenti come insetticida e per tenere lontani i topi. Si credeva anche che la ruta fosse un potente rimedio contro il malocchio. Una credenza non solo europea. Nella Santeria cubana, frutto dell'incontro del cristianesimo con i culti yoruba degli schiavi, la ruta è usata per particolari cerimonie, veri e propri bagni di purificazione, in cui si recita questa preghiera:

“Ruta benedetta, potente e miracolosa che sul Monte Calvario alle lacrime della Maddalena unisti le tue lacrime, ottienimi ciò che chiedo.
Per questo bagno dammi fortuna, e che l’uomo che desidero possa sentire per me amore e tenerezza, e che il suo sguardo e il suo pensiero siano solo per me.

Per le gocce di sangue che versò il Re dei Re, ti chiedo di avere fortuna e l’ attenzione dei miei amici.
Per questo io chiedo, Ruta benedetta, di ottenermi tutto il bene e che entri felicità, fortuna e amore nel mio corpo, nella mia anima e nella mia casa”. (73)

La notte di san Giovanni è anche collegata al noce e ai suoi frutti che in molte zone d’Italia si usa tuttora raccogliere ancora acerbi in questa notte per preparare il nocino, liquore ritenuto possedere particolari virtù benefiche.



69. Un'esaustiva trattazione del tema in Le erbe e le piante di San Giovanni in: Cattabiani, Florario, cit., pp.205-257.
70. Charles Baudelaire, Opere, Milano, Mondadori, 1996, p.105.
71. Cattabiani, Florario, cit., p. 212.
72. Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri, 1976, p. 307.
73. Per un utile approccio alla santeria si rimanda a Giuliana Muci, La santeria cubana. Aspetti teorici, mitologici e rituali, Nardò, BESA, s.d..

9.Continua