Si è tenuto ieri alla
Ubik, con gran successo di pubblico, la presentazione del libro ,
voluto e curato da Giovanni Burzio, 1944. L'anno della storia. Il
libro, una graphic novel curata dagli studenti del Liceo Artistico
Martini di Savona, contiene anche una serie di contributi sulla
Savona della guerra e del dopoguerra. Proponiamo il nostro, dedicato
a tre figure importanti della Savona del dopoguerra, e ne
approfittiamo per fare a Giovanni i più fraterni auguri per i suoi
prossimi 90 anni.
Giorgio Amico
Vivere un mondo e
sognarne un altro. Tre vite controcorrente nella Savona del
dopoguerra
«Come è la stirpe
delle foglie, così quella degli uomini. Le foglie il vento le
riversa per terra, e altre la selva fiorendo ne genera, quando torna
la primavera; così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra
declina».
Così Omero nell'Iliade,
e nulla di più bello è stato poi scritto sul succedersi delle
generazioni che una dopo l'altra passano, spesso ignare del mondo in
cui è toccato loro in sorte di vivere. In questo fluire di vite,
esperienze, sentimenti, sempre uguali eppure ogni volta nuovi e
diversi, ci sono uomini che hanno saputo convivere a pieno con il
loro tempo, tanto da diventarne testimoni e interpreti. Uomini
consapevoli del fatto che, come ebbe a scrivere Francesco Biamonti, è
destino di un uomo è di vivere un mondo, ma di sognarne un altro.
Uomini capaci di sognarlo a tal punto da vivere ogni giorno come se
quel mondo davvero ci fosse, secondo i valori (la solidarietà, la
giustizia, il rispetto della dignità altrui) che quel mondo diverso
sostanziano. E questo in un mondo come è invece il nostro, retto
dalla competizione, dall'apparenza, dal denaro.
Portatori di un sogno
che, grazie alle loro fatiche, ha saputo diventare azione politica,
movimento sociale, farsi storia. E dunque, come dicevamo, testimoni e
interpreti di un'epoca.
Non parliamo di grandi
personaggi, spesso miti senza sostanza, ma di uomini semplici,
persone che abbiamo conosciuto, con cui abbiamo lavorato, condiviso
esperienze, insomma che sono stati una parte della nostra vita.
Come Giuseppe
Vallerino, nato e cresciuto a Savona negli anni difficili e bui
del fascismo. Figlio di una città, la Savona operaia che da tempo
non esiste più e di un quartiere, Villapiana, che comunque,
nonostante tutto conserva ancora qualcosa di quel mondo, come
dimostra la recente spontanea mobilitazione popolare contro l'arrivo
dei fascisti di Casa Pound.
Crescere negli anni Venti
a Villapiana in una famiglia operaia voleva dire miseria, qualche
volta addirittura fame, soprattutto se non ci si piegava alle
direttive del regime, se non si accettava il mito di una Italia
“proletaria e fascista”, fatta di sfilate e di uniformi, avviata
a un futuro di gloria e benessere come mai si era visto prima. Il
risultato fu la guerra, i bombardamenti, la fame, i giovani partiti
per il fronte e mai tornati, l'occupazione tedesca, le deportazioni,
le fucilazioni, la paura.
Questo il mondo in cui
Giuseppe Vallerino, nato nel 1928, fu destinato a vivere, ma un altro
il mondo che sognava. Un mondo di pace, di giustizia e di libertà,
dove gli uomini fossero davvero fratelli. Quel mondo per Giuseppe
aveva un nome, Unione Sovietica e una bandiera, rossa come il sangue
dei partigiani trucidati, che era anche la bandiera di tutti i
lavoratori, qualunque fosse il loro paese o la loro razza.
Giuseppe amò tanto quel
sogno da passare clandestinamente le Alpi a piedi e da affrontare
giovanissimo pericoli e disagi di ogni tipo pur di poter andare in
Russia a studiare, a appropriarsi di quel sapere che il fascismo in
Italia gli aveva negato. Una cultura che fosse strumento non di
privilegio sociale e di carriera economica, ma di emancipazione
personale e di dignità. Una cultura, mai ostentata, ma profonda che
ne fece un uomo politico e un amministratore locale attento alle
esigenze del momento, ma capace di ragionare in prospettiva.
Il suo fu un sogno tanto
forte da reggere alla prova del disincanto, agli anni della denuncia
dei crimini di Stalin, degli errori e degli orrori di quel regime.
Certo, il socialismo vero era una altra cosa, Giuseppe lo sapeva
bene, lo aveva visto con i suoi stessi occhi, ma sapeva altrettanto
bene che quell'esperienza aveva rappresentato l'unica speranza per
milioni di uomini al momento del dilagare in tutta Europa delle
armate hitleriane e poi ai tempi della guerra fredda e della minaccia
dello sterminio nucleare, della guerra di Corea e poi della
rivoluzione cubana e infine della guerra di liberazione nel Vietnam.
E per questo, nonostante
dubbi e forse delusioni, al suo sogno restò fedele e cercò di
vivere come pensava che un comunista dovesse fare, affrontando sempre
ogni problema a partire dal “noi”, dall'interesse collettivo, e
non dall' “io”, dal tornaconto personale. E di questo anche gli
avversari politici dovettero sempre dargli atto.
Come Silvio Ricci,
nato nel 1940 e dunque della generazione del luglio '60 e
dell'autunno caldo. Cresciuto in una Italia diversa, libera dal
fascismo, ma dove le contraddizioni restavano profonde e i diritti
democratici e civili sanciti dalla Costituzione ancora in larga parte
da conquistare. Il suo fu il destino di vivere in un mondo dove, se
si era comunisti, si rischiava di perdere il posto di lavoro, dove,
come nel luglio '60 a Genova, la polizia interveniva a difendere i
fascisti, dove le lotte operaie e contadine finivano spesso con
l'uccisione di lavoratori colpevoli solo di voler conquistare un
avvenire migliore per sé e per i propri figli. Il suo sogno fu
invece , quello di un paese moderno e civile, rispettoso delle
differenze e dei diritti, a partire da quelli delle donne, dove la
classe operaia non lottasse solo per condizioni salariali più
dignitose, ma anche per riforme che trasformassero alle radice la
società e la politica, che assicurassero davvero una eguaglianza
sostanziale e non solo formale fra i cittadini.
Un sogno nato in
fabbrica, dove era entrato giovanissimo e dove aveva fatto un
apprendistato che ricordava duro, ma formativo. E la fabbrica,
l'Italsider, era stata, lo ripeteva spesso, la sua università, una
scuola di solidarietà e di vita i cui insegnamenti non aveva mai
dimenticati, soprattutto nella stagione delle bombe e della vigilanza
antifascista, quando i lavoratori si erano fatti carico in prima
persona di assicurare in città una sicurezza democratica che le
autorità non parevano in grado di garantire.
Di nuovo troviamo il
sogno di rapporti diversi fra gli uomini, non fondati sull'utile
individuale, ma sull'interesse collettivo. Una società che non sia
un semplice insieme di persone, un mero dato statistico, ma la
prefigurazione di una comunità autentica dove la libertà e dignità
di ciascuno è la premessa della dignità e della libertà di tutti.
Una società inclusiva, diremmo oggi, capace di riscoprire la
gratuità dei gesti. E così Silvio, già Segretario generale della
FIOM e poi Confederale, una volta andato in pensione continuò fino
alla sua improvvisa scomparsa a impegnarsi come semplice volontario
nelle strutture di base dello SPI, il Sindacato pensionati della
CGIL, di cui era stato per anni Segretario.
Come Ugo Tombesi,
nato nei primi anni del dopoguerra e dunque testimone della
transizione dell'Italia da paese agricolo arretrato a paese
industriale pienamente conquistato all'ideologia del consumo. Il suo
fu il destino di vivere in un mondo “all'americana”, dove il
successo individuale era l'obiettivo da raggiungere e la
competitività il motore di tutto, già a partire dagli anni della
scuola, che era scuola rigidamente classista, pensata per escludere i
figli degli operai da studi che non fossero propedeutici all'andare a
propria volta a lavorare in fabbrica. Ma non per tutti era così,
qualcuno, anche nel mondo cattolico da cui Ugo proveniva, ebbe il
coraggio di alzarsi in piedi e denunciare l'ingiustizia profonda di
questo mondo che garantiva ormai quasi a tutti la 500 e il
frigorifero, ma continuava a negare dignità al lavoro.
Il sogno di
Ugo fu quello di Don Milani e della Scuola di Barbiana: impegnarsi
dalla parte degli ultimi, dei senza voce, dei senza volto e senza
potere. Da qui la scelta di laurearsi in Sociologia e di lavorare non
nelle strutture, remunerative e prestigiose della fabbrica del
consenso (giornali, centri studi padronali, università), dove pure
avrebbe potuto, ma nelle strutture del movimento operaio. Non senza
contraddizioni, ché in nome di una coerenza, che noi amici un po'
scherzosamente chiamavano “calvinista”, perse nel 1972 un
incarico a tempo determinato per l'Inas-CISL, a cui teneva
particolarmente e non solo perché era la sua fonte di sostentamento,
per una ricerca sulla salute nelle fabbriche della Val Bormida tanto
coraggiosa da disturbare molti anche in ambito sindacale.
Una vita impegnata,
schierata, senza tentennamenti e rimpianti, con la convinzione
profonda che l'uomo, ogni uomo, può essere migliore e la certezza
che un giorno lo diventerà davvero. Un sogno che non lo ha mai
abbandonato.