TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 21 settembre 2021

Franco Astengo, Un tempo

 

    Manifesto per la manifestazione nazionale per la GKN

Franco Astengo

UN TEMPO

(Riflessioni a proposito della vertenza della GKN)

E' vero: qualche volta c'è un giudice magari a Firenze e non a Berlino ma non si può dimenticare:

1) come regolarmente avviene da molto tempo in Italia la magistratura ha supplito la politica;

2) la vicenda fiorentina non è isolata anzi, e nasce come tutte le altre da una dismissione dei diritti collettivi che deriva direttamente dalla costante negazione dei termini concreti della lotta sociale. Almeno dalle nostre parti non si avverte da tempo una costante presenza di impegno sociale capace di organizzarsi sul contrasto alla crescita delle disuguaglianze posta sul piano del potere e della condizioni materiali di vita e di lavoro ("un tempo" la si sarebbe definita "lotta di classe", quella che qualcuno ha scritto sia stata ormai vinta dai "padroni");

3) appare assente una rappresentanza soggettivamente rivolta verso quella che "un tempo" definivamo "contraddizione principale" . Una rappresentanza politica ("un tempo" lo avremmo chiamato partito) capace di legarne l'analisi della realtà a quella delle grandi transizioni in atto nella nostra epoca elaborando una strategia di mutamento politico e sociale ("un tempo" l'avremmo definito di alternativa, magari lavorando anche per individuarne i meccanismi di aggregazione e i passaggi politici)

4) In 11 righe ho scritto quattro volte "un tempo". Forse è bene fermarsi qui.


Chiomonte tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento. Memorie sulla vita in un villaggio alpino

 


E' disponibile un nuovo numero (il quindicesimo) de La Rafanhauda, la bella rivista di cultura e studi occitani della Associacion Renaissença Occitana di Chiomonte. Si tratta di un numero monografico, riccamente illustrato, a cura di Silvio Meyer su “Chiomonte tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento. Memorie sulla vita in un villaggio alpino”.

Il fascicolo, di cui presentiamo prima e quarta di copertina e l'introduzione esplicativa di Alessandro Strano, può essere richiesto direttamente a: larafanhauda@gmail.com


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lunedì 20 settembre 2021

Tommaso Lupi, Lotta al fascismo e impegno militante (1973)

 


Come la realtà presente evidenzia ogni giorno, la convinzione che la Memoria storica sia un antidoto alla irrazionalità e alla violenza, è una generosa illusione. Ciò non toglie che la Memoria vada ad ogni costo tenuta viva non fosse altro perché non si spezzi il filo che lega tra  loro le generazioni. Un compito quello di difendere la Memoria, che è patrimonio collettivo mentre il ricordo è esperienza personale, che è compito, se non addirittura dovere etico dei vecchi. Ai giovani il tentativo di cercare di cambiare il mondo, a chi giovane non è più da tempo, il dovere di ricordare quello che fu fatto in passato per cambiarlo. E non importa che spesso si tratti di una storia di sconfitte perché per le generazioni, come per i singoli, la sconfitta, se non rimossa o giustificata, aiuta a comprendere e dunque fortifica. A comprendere soprattutto che ciò che chiamiamo “storia” non è un percorso lineare in avanti che non ammette ritorni all'indietro anche tragici. La storia degli uomini è , e il tempo presente lo testimonia, segnata da cicli di decadenza non solo di imperi, ma anche di culture. La ragione non è eternamente vittoriosa, ma può anche generare nuove forme di oscurantismo e nuove superstizioni. Lo aveva capito Leopardi nel pieno del presunto trionfo dei Lumi, lo vediamo noi oggi con i No Vax nel pieno dell'altrettanto presunto trionfo della scienza. Per questo Vento largo ripresenterà materiali, oggi in larga parte dimenticati ma ancora utili, degli anni Settanta. Anni che non furono,come vuole la vulgata figlia della restaurazione moderata in atto,  solo“anni di piombo”, ma anche e forse soprattutto il generoso tentativo dei giovani di allora di porre concretamente le basi di un mondo più giusto e libero.

Apriamo con un documento del 1973, quando, nel pieno della strategia della tensione e delle stragi, si tenne a Firenze un convegno, i cui lavori furono poi raccolti in volume,  contro le tentazioni autoritarie di una parte della borghesia e dello Stato. Un convegno importante, organizzato del PdUP, a cui parteciparono personaggi illustri come Vittorio Foa e Padre Ernesto Balducci, ma anche meno conosciuti militanti di base, come Tommaso Lupi, giovane portuale imperiese. È la sua relazione sull'attività antifascista svolta in quell'inizio degli anni Settanta, in una piccola ma allora vivacissima città di provincia, che oggi proponiamo agli amici di Vento largo.

G.A.

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domenica 19 settembre 2021

L’occhiolino e la benda nera: dall’alchimia alla veggenza

 



Raffaele K. Salinari

L’occhiolino e la benda nera: dall’alchimia alla veggenza

«Birra e salciccia…», la parola d’ordine segreta con la quale Totò doveva farsi riconoscere in Totò sceicco per l’arruolamento nella Legione straniera, viene fatta seguire da un occhiolino bilaterale, segno di un significato intelligibile solo a chi ne conosce il codice. Senso nascosto che, ovviamente, non viene decifrato da Carlo Crocchiolo, giovane ed ebete garzone della bettola portuale, che si limita stolidamente a riferire lo strano comportamento del cliente, interpretato dal padrone come una semplice richiesta di raddoppio della porzione di… birra e salciccia. Qualche decennio dopo, dalla tolda della sua nave spaziale Arcadia, fatta di antimateria oscura, un altro gentiluomo di fortuna, Capitan Harlock, guarda il cosmo attraverso il suo unico occhio scoperto, l’altro essendo occultato da una benda nera.

L’occhio di Satana

Ora ci si potrebbe chiedere da dove nasce il gesto di fare l’occhiolino, e che connessioni ci sono tra questo e la benda sull’occhio, propria non solo di Capitan Harlock ma di una intera genealogia di pirati e avventurieri, basti pensare a Jena Plissken, (chi non ricorda la famosa battuta: «chiamami Jena»…) di 1997 Fuga da New York o a Nick Fury dello S.H.I.E.L.D. o al John Wayne de Il Grinta. In realtà, sia il gesto ammiccante sia la benda sull’occhio, hanno ascendenze mitologiche articolate e precise che si ritrovano in diverse culture con archetipi sostanzialmente analoghi.

Il punto di scaturigine comune di questa momentanea o parziale cecità, a prima vista (è il caso di dirlo) è paradossalmente quello della veggenza. Qui come veggenza si intende la capacità di vedere l’essenza immutabile delle cose e dunque poter anche anticipare gli avvenimenti (preveggenza). Ecco dunque che questo vedere risiede nella capacità di percepire non con la vista sensoriale, ma con lo «sguardo dell’anima». Ad indicare questa visionarietà simbolica Platone usa il termine «ópsis», che vuol dire a un tempo «occhio e sguardo», in altre parole il «vedere agente»; e così, attraverso l’ópsis, ciò che è immerso nell’oscurità diventa esperibile sotto forma di simbolo.

E allora, per capire le radici della veggenza e dei suoi simboli, tra i quali l’occhiolino e la benda mistica sull’occhio, dobbiamo partire dal suo opposto, cioè da una visione ad occhi perennemente spalancati: dalla fissità dello sguardo. Ecco, allora, come «due occhi fissi sull’oscurità immobile» vengono considerati, ad esempio nel sufismo iranico, quelli dell’Antagonista, privati per questa loro caratteristica del conforto dei «profondi soffi dell’eternità». A questo proposito è interessante notare come in questa tendenza dell’esoterismo islamico si dice che «Satana si fa gioco di qualsiasi minaccia. Ciò che lo spaventa è vedere una luce nel tuo cuore». E forse per non rischiare di vedere questa luce, che si manifesta solo ad occhi chiusi, come ogni fotismo spirituale, egli non chiude mai gli occhi, come opportunamente ci ricorda Henry Corbin nei suoi studi sull’uomo di luce nel sufismo iranico.

Un’immagine fantasy dall’analoga simbologia è quella espressa dall’«occhio di Sauron» l’Oscuro Signore di Mordor nel Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien che Saruman, durante una discussione con Gandalf, descrive come «sempre spalancato, senza palpebre, avvolto nelle fiamme». Lo vediamo dunque sulla sommità del monte che incessantemente scruta il territorio alla ricerca dell’Unico Anello del dominio, quello che verrà poi distrutto a Monte Fato da Frodo insieme a Gollum, l’hobbit che si è progressivamente trasmutato in un demone accecato dal suo potere. Saranno i suoi compagni della Compagnia dell’Anello, che ingaggeranno una impari battaglia con le forze del male proprio per distrarre l’occhio dalla sua ricerca inesausta. Quando il destino dell’anello sarà compiuto, disciolto nelle fiamme del vulcano, anche l’occhio malefico si spegnerà e con lui tutti gli esseri malvagi creati dalla sua necrocrazia.

La veggenza

L’assunto è quindi quello che la luce delle cose si coglie meglio ad occhi chiusi; una metafora che in fondo possiamo esperire nel quotidiano quando fissiamo direttamente il sole: se sfidiamo la sua luminosità, di quella visione ad occhi nudi non rimane che una macchia oscura. L’essenza della sapienza è dunque «invisibile alla vista», come dice il Piccolo Principe; ed è proprio questo mistero gnoseologico, la tensione verso un potenziale svelamento e la sua esperienza, che fondano l’arcano della benda (velamento) e dell’occhiolino (chiusura dell’occhio), come vedremo: chi si avventura, seppure per un momento all’interno di questo buiore momentaneo ed autoindotto, dicono gli antichi, ritrova ed esprime un significato nascosto o, come intuisce Goethe, ci si sofferma quando la chiarezza esaurisce le proprie risposte; basti pensare a quante volte si chiudono gli occhi per riprendere il dominio di sé.

«C’è una grande differenza, se mi spingo dalla chiarezza verso l’oscurità oppure dall’oscurità verso la chiarezza; se, quando la chiarezza non mi promette più nulla, tendo ad avvolgermi con una certa oscurità o se, convinto che il chiaro si basa su un fondamento profondo difficile da esplorare, mi adopero tuttavia per trarre il possibile anche da questo fondamento, ancorché difficilmente esprimibile».

Analogamente, evitare che l’accecamento insito nelle forme del divenire potesse impedire la percezione della loro comune essenza, era lo scopo e la caratteristica dei veggenti dell’antichità classica: nella Tragedia greca, infatti, troviamo in Edipo e Tiresia le figure emblematiche dell’uomo immerso nell’oscurità del sensibile per poter riacquistare la visione dell’intelligibile. Anche Omero, «il più saggio tra i greci» secondo Eraclito, sarà cieco. Veggenza (óran to afanés) significa, dunque, letteralmente, «vedere l’oscurità»: non semplicemente vedere nell’oscurità ma coglierne l’essenza stessa; e questa è sapienza, perché in essa si coglie il limite estremo ed ineludibile, ma allo stesso tempo glorioso, dell’esistenza umana: la morte. La visione nell’oscurità si sovrappone così a quella della sapienza, è la sapienza stessa ma, come per Edipo e la Sfinge, svela il suo enigma solo ad uno sguardo che ha come intento la verità sull’essere ultimo del veggente.

Il fabbro alchimista

A questo punto possiamo introdurre, per così dire, l’archetipo dell’individuo con le benda sull’occhio, che non è un pirata, bensì una figura oramai pressoché scomparsa: il fabbro che protegge l’occhio con una benda nera. In alcune culture ancora fortemente tradizionali, nelle quali cioè tutti i gesti quotidiani sono la rammemorazione di quelli compiuti in origine dagli antenati fondatori, com’è o dovrebbe essere proprio di ogni civiltà che abbia ancora un qualche senso spirituale, la figura del fabbro è centrale. Chi opera sui metalli, infatti, opera sul corpo stesso della terra, cioè degli elementi dei quali è formato lo stesso corpo umano. Dunque nelle pietre, nei metalli, nella loro composizione e scomposizione, è racchiuso il segreto della vita, una serie di arcani trasmutatori che mostrano il continuo trapasso da una forma ad un’altra; chi possiede questi segreti, come gli alchimisti, comprende i fondamenti dell’esistenza perché, semplicemente, la accompagna, la assiste, la cura, trasmuta con le cose.

Per vedere configurate concretamente queste visioni ci si può ancora spingere, con molta umiltà, alla soglia di una fucina Dogon.

Qui vedremo ancora il fabbro ergersi dinanzi all’incudine come fosse un officiante di fronte ad un altare, e di fatti lo è, poiché il fuoco che gli divampa dietro, nella forgia, alimentato dai quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco, è il risultato di una attenzione costante alle loro intime relazioni. Per creare il fuoco, inoltre, egli ha dovuto scegliere il legno adatto, e dunque incantare l’anima delle piante con melopee lente e tortuose, come le loro radici. Poi, una volta accesi i carboni, è stata l’aria ad alimentarli, pompata dai mantici, mentre solo l’acqua ha potuto temprare la terra metallifera, come se il fuoco incandescente della fusione fosse stato imprigionato, mercé il suo potere fluido, nel metallo stesso.

E dunque, quando il fabbro ritrae incandescente il ferro e lo depone sull’incudine, egli deve rapidamente dare forma al quel fuoco con i suoi battiti ritmati, mentre il metallo sprigiona scintille, come piccole comete, ricordando comuni origini celesti. Da questo l’antico nome greco delle stelle (sideros) e dell’arte metallurgica (siderurgia). Ecco che dunque egli porta sull’occhio una benda nera, a protezione. Ma questa benda, oggi sostituita dagli occhiali a lenti di un blu profondo, oltremarino, che mantengono per certi versi intatto lo stesso fascino arcano della benda nera, non serve solo da protezione, ma da lente attraverso cui vedere l’anima dei metalli. Dall’altra parte, alla polarità opposta, troviamo gli occhiali totalmente neri, da iettatore appunto, che Pirandello descrive come componente fondamentale della sua vestizione nella Patente; anche qui l’interpretazione di Totò è superlativa. Estrema propaggine di questa genealogia delle lenti è certamente il fascino che ancora esercita il monocolo o caramella, che di fatto per essere portato costringe l’occhio ad una potenziale occhiolino permanente. L’occhio che guarda al divino è dunque benevolo, mentre è funesto quello che guarda invidiosamente il mondo o semplicemente che ad esso guardi (in videns).

Tornando a Capitan Harlock e alla sua benda nera, non dimentichiamo che egli è il solo a poter governare l’Arcadia, la cui costruzione è un arcano di segreti orami perduti per l’umanità; costituita da materia oscura, dunque corrispondente alla prima fase dell’Opera alchemica, l’Opera al nero, essa è soprattutto animata da uno spirito che la dirige e si fa dirigere da lui perché entrambi sono mossi dagli stessi ideali di giustizia. Ancora una volta, l’operatore opera la materia operata tanto quanto essa opera sull’operatore.

L’occhiolino divino

L’occhiolino ha origini apotropaiche ancora più lontane nel tempo, risalenti alle prime civiltà organizzate, come quella egizia. Qui troviamo l’Occhio di Horus, l’Occhio divino, la fiamma del quale annienta il Male chiudendosi e riaprendosi sul mondo; e l’occhiolino non è forse ancora oggi un gesto apotropaico? Non serve a stabilire un legame occulto tra chi lo agisce e chi lo osserva?

Nell’antico Egitto, ma anche nelle mitologie Vichinghe ed Irlandesi arcaiche, troviamo dunque l’originale dell’occhiolino come gesto che, al tempo stesso, vuole riprodurre la collera del dio o la sua magnanimità. Anche nell’induismo vive l’idea cosmogonica che Brama apre e chiude gli occhi su un universo sempre differente. D’Altronde, sintetizza Borges nella sua Storia dell’eternità: «Se l’occhio del Signore si distraesse un solo secondo da questa mia mano destra che scrive, essa ricadrebbe dal nulla, come fulminata da un fuoco senza luce».

In tutte queste mitologie troviamo dunque il gesto, non solo espresso singolarmente, ma inserito nel complesso di gesticolazioni magiche attraverso le quali si voleva diventare l’icona stessa del dio che apre o chiude l’occhio dispiegando il suo terribile potere. Nell’Egils saga ad esempio, ci ricorda Elémire Zolla, si narra di un eroe vichingo che stronca il coraggio e lo spirito combattivo della corte inglese facendo l’occhiolino in modo impressionante: «E come si sedette, aggrottò fin contro la gota l’un ciglio e l’altro lo sollevò sino alla radice dei capelli… fu come se gli si martellassero nel cranio tutti i capelli a uno a uno. Avresti giurato che da ciascuno sprizzava una scintilla. Un occhio strizzò a cruna di ago e l’altro slargò come la bocca di un’urna. Snudò le gengive su fino all’orecchio, ripiegò indietro le labbra fino ai denti sotto l’orecchio mostrando il fondo della gola. Gli si alzò sopra la testa l’alone degli eroi».

Forse anche il potere spaventevole di ciclopi derivava dal loro essere monocoli. Ulisse acceca Polifemo non solo per salvarsi, ma anche per decretare la fine di quel mondo titanico, che traguardava le cose verso l’orizzonte, a beneficio dello sguardo totalmente umano, e limitato, sul mondo.

Anche Odino, per restare nella mitografia nordica, è monocolo, o meglio fa sempre l’occhiolino dato che la storia racconta come egli avesse ceduto un occhio in pegno «schiacciandolo perennemente sotto le ciglia», dato che un dio non può essere orbato, per attingere con esso alla Fonte interiore della conoscenza che è ispirazione e mania: al gigante Mimir, che è presente anche nelle bevande fermentate. E quando si beve qualcosa di particolarmente apprezzato, non si strizzano forse gli occhi alla bevanda stessa?

L’Occhio divino è anche centrale nell’iconografia cristiana, come in quella Libero Muratoria che campeggia anche sulla moneta da un dollaro. L’Occhio onniveggente è il suo simbolo stesso. I saggi taoisti, a questo proposito, come gli asceti indiani, si esercitano nell’unificazione dei due occhi alla radice del naso, oppure rovesciandoli indietro per raggiungere il «campo di cinabro», la pietra da cui si estrae il mercurio, simbolo paracelsiano dell’anima.

Per concludere attiriamo l’attenzione su un altro gesto che con l’occhiolino e la benda nera è profondamente imparentato: lo stropicciarsi gli occhi. Anche in questo si cela, per chi ne fosse consapevole, una possibilità di trasmutazione interiore. È ciò di cui ci parla l’ermetista Giulio Camillo Delminio nell’Idea del theatro, recentemente ristampato da Adelphi con le splendide tavole originali. Ebbene, il nostro sostiene che: «Quel raggio di fuoco che dentro di noi risponde all’occhio, il quale noi assai sovente fregandoci alcun degli occhi col dito vediamo internamente in similitudine di fiamma in rota, per la qual rota fiammeggiante spesse volte avviene che noi svegliati, discerniamo le cose».

E così, in conclusione, gesti che un tempo erano carichi di significato, oggi ridotti all’ombra di se stessi, e noi con essi, possono, mercé queste brevi rammemorazioni, tornare almeno a donarci una piccolo scintilla della loro antica funzione, con l’augurio che la luce della sapienza possa raggiungerci sempre mentre facciamo l’occhiolino.

Il Manifesto/Alias – 18 settembre 2021

martedì 7 settembre 2021

Fabio Damen, Il capitalismo è crisi

 


Il marxismo nasce come tentativo di dare una spiegazione dei meccanismi fondamentali (l'accumulazione, lo viluppo, le crisi) della società capitalistica, alternativa a quella fornita dagli economisti liberali. Per questo nella tradizione politica del movimento operaio, prima socialista e poi comunisti, la costante analisi dell'andamento dell'economia capitalistica era considerato fondamentale. Oggi non è più così. Basta scorrere anche velocemente la stampa o i siti della sinistra che ancora si richiama al marxismo e al comunismo, per accorgersi di come questo aspetto fondamentale dell'agire politico sia largamente se non totalmente trascurato a favore di  una politique politicienne condotta sui media. Insomma, anche in campo rivoluzionario, la politica spettacolo la fa da padrona. Per questo sono da segnalare libri come quello di cui oggi presentiamo un estratto dell'introduzione. Un libro importante per comprendere le dinamiche profonde di ciò che vediamo ogni giorno accadere e che tocca la vita di tutti,ma di cui sfuggono le cause autentiche.


G.A.


Il capitalismo è crisi. Considerazioni e verifiche sulla caduta del saggio medio del profitto


Il libro che pubblichiamo è una raccolta di scritti apparsi nel corso degli anni sulla nostra rivista teorica “Prometeo”. Alcuni di essi sono stati rivisti qui e là, al fine di precisare e meglio definire qualche passo che, nella radazione originaria, poteva dare adito – agli occhi di critici più o meno prevenuti – a interpretazioni non del tutto coerenti con la critica marxiana dell'economia politica. Ma gli interventi in tal senso sono stati davvero minimi, anche per i saggi più in là nel tempo, che hanno conservato il loro interesse e la loro efficacia teorico-politica nel mettere a nudo i meccanismi del modo di produzione capitalistico e lo sbocco inevitabile a cui conducono, ossia la crisi, con gli effetti per niente collaterali che essa produce. Effetti sulla classe proletaria, sui rapporti interimperialistici, sull'ambiente, cioè sull'accelerazione impressa alla rapina delle risorse naturali e alle devastazioni che ne conseguono. Effetti drammatici e che promettono di aggravarsi mano a mano che la crisi, al contrario di quanto affermano economisti “di regime” e governanti di ogni colore, non si risolve e detta l'agenda dei governi, di miliardi di esseri umani e del Pianeta in generale.

Il fatto che la crisi imponga alla borghesia le proprie spietate necessità, non significa scadere in un ottuso determinismo, in cui la dialettica delle altre forze materiali – prodotti e agenti dalla e nella società – sia cancellata da un economicismo di matrice secondinternazionalista: al contrario, e gli scritti qui raccolti lo dimostrano. Significa “solo” guardare la realtà così com'è, individuare, auspicabilmente con meno errori possibile, il terreno che esprime il mondo in cui viviamo, determinato – questo sì – dai suoi rapporti di sfruttamento, di dominio e di oppressione. Si tratta di una determinazione storica, cioè prodotta dagli esseri umani collocati appunto in precisi rapporti di classe, che quindi può essere cambiata, fatta saltare per aria con tanta più efficacia quanto più si hanno chiari gli elementi che costituiscono la base materiale della determinazione stessa ossia le leggi del capitale. Leggi sociali, certo, ma pur sempre leggi, che indicano la direzione, dal punto di vista economico, a cui questo sistema di produzione – e conseguentemente di distribuzione – va incontro. Tra queste leggi, il ruolo di protagonista è interpretato da quella che Marx, oltre un secolo e mezzo fa, aveva già individuato chiaramente, benché allora solo in Gran Bretagna e parzialmente in pochi altri paesi, il capitalismo avesse spiegato le ali: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Nel suo “laboratorio” rivoluzionario infatti scriveva:

«Questa è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. È una legge, che ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente».

Questo, la sua scarsa o nulla comprensione, era vero non solo ai tempi in cui Marx affilava le armi della critica rivoluzionaria stendendo i suoi appunti, ma lo è per tutta la storia del movimento operaio e comunista, fino ai nostri giorni, come si vede, per esempio, da uno dei saggi qui radunati. Persino una grande rivoluzionaria come Rosa Luxemburg aveva frainteso aspetti fondamentali della critica marxiana, ritenendo erroneamente che “la legge più importante” cominciasse a operare “catastroficamente” solo in presenza della saturazione dei mercati costituiti da “terze persone” (né capitalisti né operai), cioè mercati extracapitalistici. In pratica, contro l'impostazione di Marx aveva spostato l'origine della crisi dalla produzione alla distribuzione, cioè al consumo. Errore non nuovo e destinato, come vedremo, a lunga vita; ma almeno la Luxemburg partiva da un obiettivo corretto, più che mai condivisibile, vale a dire mostrare come il capitale vada verso il crollo non per fattori esterni, ma per le contraddizioni impresse nel suo codice genetico.

Si potrebbe qui aprire una parentesi sulla discussione, un tempo molto accesa, se in Marx sia presente una visione “crollista” del processo di accumulazione capitalistico, discussione che non ha risvolti accademici – anche se molti intellettuali a questo hanno voluto ridurla – ma direttamente politici, rivoluzionari, purché il “crollo” non venga inteso in termini meccanicisti. Ancora una volta, i fattori economici sono uno dei due aspetti della questione: fondamentali, certo, ma senza l'altro elemento non meno importante, la lotta di classe, il crollo del capitalismo, il superamento della società borghese possono essere sempre rimandati a data da destinarsi. Lenin metteva in guarda sul fatto che, in sé, il capitalismo può sempre avere una via d'uscita, sia essa la guerra imperialista, l'aumento dello sfruttamento operaio o tutte e due le cose insieme. In breve, che senza l'intervento cosciente del proletariato rivoluzionario e della sua avanguardia politica (il partito), la società borghese può tirarsi fuori anche dalle crisi economiche più devastanti a spese del proletariato, dei diseredati e, oggi, dell'ambiente, cioè dei prerequisiti biologici della vita.. Nella nostra epoca, si sta concretamente profilando il rischio che l'incapacità finora dimostrata dalla nostra classe di essere all'altezza dello scontro con una borghesia sempre più aggressiva, porti all'ipotesi quanto mai drammatica della “comune rovina delle classi in lotta”, adombrata da Marx e da Engels nel “Manifesto del Partito Comunista”: la guerra generalizzata e la catastrofe ambientale sono possibilità tutt'altro che campate per aria.

Possibilità, non un destino già segnato, ma che non lo sia dipende appunto dallo svolgimento della lotta di classe, fortemente influenzato, per non dire condizionato, dal modo e dall'intensità con cui si esprimono quelle contraddizioni di cui si è parlato più indietro. In quest'ottica si deve dunque collocare la questione del crollo del capitalismo, sulla scorta di Marx stesso:

«Queste contraddizioni conducono, naturalmente, a esplosioni, cataclismi, crisi, in cui una momentanea sospensione di ogni lavoro e la distruzione di una gran parte del capitale, lo riportano violentemente al punto in cui esso può continuare ad andare avanti impiegando pienamente le sue capacità produttive senza suicidarsi. Inoltre, queste catastrofi regolarmente ricorrenti conducono alla loro ripetizione su più larga scala, e infine al crollo violento del capitale».

Crollo violento, non automatico: da nessuna parte Marx lascia intendere che ci sia un automatismo, anzi, indica con precisione le misure (cioè le controtendenze) messe in atto dalla borghesia per rallentare il più a lungo possibile il cammino obbligato verso l'inceppamento del processo economico-produttivo. Nella sostanza, in più di centocinquant'anni sono le stesse e i saggi di questa raccolta lo documentano, seguendo sistematicamente l'andamento della crisi, apertasi nei primi anni '70 con la fine del più intenso ciclo di “prosperità” economica della storia del capitalismo, incominciato dopo la seconda guerra mondiale. Non una di quelle misure individuate da Marx (3) è stata trascurata dai rappresentanti del capitale e dai loro “commessi”, vale a dire dai governi che, a dispetto del nome impresso alla fase attuale, cioè “neoliberismo”, hanno continuato come prima a “intromettersi” nella gestione dell'economia, seppure con modalità diverse rispetto alla fase “statalista”.


domenica 5 settembre 2021

Pellegrini e pellegrinaggi


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sabato 4 settembre 2021

Diego Gabutti, Bordiga era un ideologo svagato

 



Diego Gabutti

Bordiga era un ideologo svagato


Fondatore e primo segretario del Pc italiano, espulso con ignominia dal partito, qualche anno di confino dietro le spalle, Amadeo Bordiga non fu mai un oppositore del regime. Voleva abbattere il capitalismo, e del fascismo non poteva importargli di meno. Pertanto, una volta scontata la pena, si ritirò a vita privata senza neppure sognarsi di combattere la dittatura del suo ex amico Benito Mussolini.

A differenza degli altri comunisti – che scesero sul sentiero di guerra contro l’ex direttore dell’Avanti autoproclamatosi Duce, un po’ come Stalin s’era autoproclamato Padre dei popoli e Togliatti «il Migliore» – Bordiga era «bordighista» abbastanza da lasciare che il fascismo passasse, come un’emicrania della storia. Aspirina e santa pazienza. Non serviva altro. Con «bordighismo», del resto, s’intendeva proprio questo: se all’ordine del giorno c’era la palingenesi sociale, bene, perché no, ma se c’era soltanto da distribuire volantini e da rendere testimonianza d’antifascismo, allora no, grazie, i bordighisti in generale e Amadeo Bordiga in particolare non erano disponibili. Agli occhi di Bordiga il regime dei salti nel cerchio di fuoco, del manganello e dei pugni sui fianchi non era che un’increspatura sull’onda della storia. Sull’orizzonte, ancora invisibile, si stava già sollevando lo tsunami della rivoluzione socialista, uno sconquasso dell’ordine universale che si sarebbe abbattuto, secondo profezia, sul «bagnasciuga» del vecchio mondo, devastandolo e trasfigurandolo. Era tutto scritto. Inutile scalmanarsi, pensava Bordiga. Tempo al tempo, e il capitalismo avrebbe avuto il fatto suo. Così era scritto nei testi sacri con l’evidenziatore rosso fuoco.

Di questa singolare e bizzarra epopea tra Marx e Balzac rende conto l’ultimo libro di Giorgio Amico: Bordiga, il fascismo e la guerra. Storico delle eresie comuniste, autore di testi importanti sulla storia dell’ascesa e caduta dei movimenti goscisti nel Novecento, Giorgio Amico racconta il «ventennio» di Amadeo Bordiga nel dettaglio e senza condividerne le scelte, a suo giudizio poco coraggiose. Ma qui non è questione di coraggio. Come Marx, che passò la vita a parlare del capitale senza che gli ballasse una sterlina in tasca, Bordiga non fece che disquisire per tutta la vita della Storia maiuscola – dove presto o tardi ma infallibilmente avrebbero finito per scontrarsi gl’immani eserciti di classe chiamati a contendersi il mondo dal Manifesto del partito comunista – mentre a lui personalmente non toccarono che storie minuscole. E dire che nel 1921 aveva fondato la sezione italiana dell’Internazionale comunista e che col suo estremismo e le le sue intemerate antiparlamentari aveva ispirato a Lenin L’estremismo, malattia infantile del comunismo, uno dei suoi pamphlet più chiacchierati. Qualche anno dopo, nel 1926, aveva ridotto Stalin a balbettare: «Non avrei mai creduto che un comunista potesse parlarmi così. Dio vi perdoni, compagno Bordiga». Sempre nel 1926, tornato a Roma da Mosca, venne arrestato e gli fu sequestrata una borsa piena di dollari del Comintern destinati al partito italiano. A Ustica, dove venne confinato, organizzò insieme a Gramsci, suo amico e rivale, una scuola di partito. Ma una volta lasciato il confino, cacciato dal partito, si ritirò nell’ombra. Ingegnere, badò a tenersi lontano dai guai, e dai piani alti della storia, dove per un po’ era stato di casa.

Trotsky, cacciato anche lui dal partito, gli mandò un messaggio dall’esilio turco, dov’era stato confinato dal Corifeo delle Scienze: «Lascia l’Italia, e raggiungimi qui a Prinkipo. Organizziamo insieme la grande rentreé della rivoluzione proletaria». Bordiga lasciò cadere l’offerta. Grazie, ma grazie no. Lasciò cadere, in effetti, ogni offerta militante, quale ne fosse la provenienza. Non era aria, da come la vedeva lui, per la guerra di classe, né lui si sarebbe impegnato per meno. Napoletano e fatalista, attendeva che passasse «’a nuttata» della «fase controrivoluzionaria». Venne a patti col fascismo? Be’, non lo affrontò a petto nudo, con un coltello tra i denti, invocando la democrazia o il ritorno del parlamento, irriducibilmente antidemocratico e antiparlamentarista com’era (ben più di Mussolini o di qualsiasi altro fascista). Si rivolse ai tribunali borghesi, trattò con la polizia, ebbe parole d’elogio (forse sincere, ma forse no) per le imprese coloniali del DUX, dichiarò di preferire il Führer (e qui fu sincero) alle democrazie occidentali. Detestò la Resistenza, della quale si fece beffe fino all’ultimo, (e qualche ragione, dal suo punto di vista d’«ostinato e immobile marxista», certamente l’aveva, o almeno la fantasticava). Non s’ammorbidì nemmeno nel dopoguerra, quando gli si raccolse intorno una clacque di seguaci: il Partito comunista internazionalista, progenitore d’ogni gruppuscolo goscista a seguire. Ancora non era passata la nottata. Venne a patti con la democrazia come nel Ventennio era venuto a patti col fascismo: ignorandolo, da quello snob che era.

Viveva nell’Italia e nel mondo reale da marziano. Non partecipava, era fuori dal gioco, e comunque non ne conosceva le regole, né intendeva impararle. Più naif che discreto, gli piaceva guidare il suo gruppuscolo d’illuminati senza mostrarsi in pubblico. Ciò «ricorda molto da vicino» – postilla Amico – la storia di Robert Barcia, importante industriale farmaceutico parigino, morto nel 2009, che i suoi colleghi della Confindustria francese conoscevano come uomo di grande simpatia, fin quando in seguito a un’inchiesta giornalistica dei primi anni 2000 si scoprì che, col nome di battaglia di “Hardy», era in realtà il capo incontrastato di Lutte ouvrière, la principale organizzazione trotskista francese». Anche Amadeo Bordiga, come Barcia e i supereroi, che sotto la mascherina nera sono degl'incorreggibili esibizionisti, ebbe dunque un’identità segreta.

Non era perfetto, naturalmente. Tutt’altro. Una volta scrisse che «contenuto originale del programma comunista è l’annullamento della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti e attore della storia umana». Sono solo parole, d’accordo, e lui non le mise mai in pratica (lungi da lui mettere qualunque cosa «in pratica»). Ma quest’attenuante, che non fu uomo d’azione ma d’opuscoli e di «riunioni generali», varrebbe anche per Pol Pot, se il macellaio maoista si fosse fermato a Parigi a filosofare davanti a un pernod con i suoi amici esistenzialisti del Café Voltaire, e non fosse tornato in Cambogia a far danni. Bordiga, ideologicamente parlando, fu un cattivo soggetto, un «malamente» della politica.

Proclamò la nobiltà dell’«anonimato»: la funzione della personalità nella storia era meno di zero. Ma il suo fan club ne fece un’icona, e lui non fece niente, salvo schernirsi un po', come le primedonne nelle conferenze stampa, contro questa deriva da rock star (altro che «anonimato»). Fu anche profeta, come i Padrini di Scientology o dei Testimoni di Geova. Scrisse che nel 1975, cinquant’anni dopo l’età del Comintern e dell’Armata rossa, sarebbe immancabilmente tornata la «fase rivoluzionaria, anonima e tremenda. Ne sono passati altri cinquanta, e niente.


Giorgio Amico
Bordiga, il fascismo e la guerra (1926-1944)
Massari Editore 2021
pp. 240
15,00 euro

Italia Oggi, 4 settembre 2021