TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 30 aprile 2020

Ceti medi o moltitudine? Riflessioni sul Primo Maggio




Si pensa che la questione dell'impoverimento delle cosiddette classi medie e della precarietà della vita sia un problema dell'oggi, addirittura determinato dalla particolare situazione che stiamo vivendo. Non è così.
Grandissima parte delle "classi medie" è fatta di lavoratori salariati, in quanto tale assimilabili alla classe operaia. Altri, pensiamo alle partite IVA, sono autonomi solo di fatto. Ma,  nonostante l'uso enfatico che viene fatto del termine "imprenditore", anche chi come il piccolo commerciante o il piccolo artigiano vive del suo lavoro non se la passa meglio. Sembra un dato recente, in realtà è parte integrante da sempre del sistema economico-sociale in cui viviamo, il capitalismo. Edmondo De Amicis, che fu, non dimentichiamolo, uno scrittore socialista, lo scriveva a chiare lettere già all'inizio del secolo scorso. Riprendiamo una pagina del suo opuscolo "La quistione sociale", rivolto esplicitamente ai giovani, che sembra scritta per denunciare la precarietà dell'oggi.
Per questo, non va mai dimenticato che il Primo Maggio non è la festa del lavoro,una sorta di Natale laico, ma una giornata di lotta degli sfruttati, la presa di parola degli "invisibili" che ricordano nelle piazze e nelle strade che in questa società la ricchezza dei pochi si regge sullo sfruttamento del lavoro delle moltitudini, ceti medi compresi.

Edmondo De Amicis

La quistione sociale

Non dovrei ribattere nemmeno coloro che vi consigliano di lasciar da un lato la quistione sociale dicendovi che essa riguarda una classe sola, o certe classi, non la vostra; poichè son certo che voi non siete tanto sdegnati dell'egoismo miserabile di quest'argomento quanto mossi a pietà dell'insensatezza di chi considera come una parte trascurabile della società la parte di lei più importante per il suo numero, più necessaria per la sua funzione, più benemerita per le sue fatiche; quella, senza di cui la nazione non ha fondamento, la patria non ha difesa, e il mondo non ha nè vesti, nè tetto, nè utensili, nè pane. Ma l'argomento, pure intrinsecamente, è falso.

La quistione sociale abbraccia ormai tutte le classi, poichè anche le classi medie, sebbene con minore intensità, per ora, e con effetti meno visibilmente dolorosi, risentono già tutti i danni di cui le inferiori si lagnano.

Vi è già una gran parte della borghesia per cui l'esistenza non è meno minacciosamente precaria che per le classi chiamate con maggior proprietà lavoratrici; vi sono in tutti i campi del commercio e dell'industria le mezze fortune oppresse nella lotta disperata con le grandi; vi è un popolo di possidenti che mendica; v'è una concorrenza di cento paria per ogni stipendio che basti appena alla vita; vi sono migliaia di giovani d'ingegno e di studio a cui non è possibile di guadagnare quanto un bracciante prima dei trent'anni; v'è la vecchiezza pensionata che disputa il posto alla gioventù esordiente, la donna che lo contende all'uomo, l'uomo che lo contrasta al ragazzo; v'è una tal ressa di naufraghi intorno a ogni trave galleggiante, che quando uno per negligenza o per forza lascia andare la sua, non gli resta quasi più speranza d'afferrarne un'altra, e annega le più volte nella miseria.

venerdì 24 aprile 2020

25 Aprile 2020. Contro il sovranismo populista delle destre per una Europa unita, democratica e antifascista




25 Aprile 2020

Contro il sovranismo populista delle destre per una Europa unita, democratica e antifascista


Il 31 maggio 1944 a Saretto, frazione di Acceglio, in Valle Maira i rappresentanti dei Movimenti di Liberazione italiano e francese firmavano un patto di unità d'azione militare e di fratellanza europeista. Solo un'Europa unita, democratica e repubblicana, poteva garantire un futuro di pace e di libertà. Solo un'Europa unita, solidale ed inclusiva può oggi impedire che la crisi sanitaria diventi una crisi economica e sociale devastante. campo d'azione di una destra sovranista e fascistoide.

I Patti di Saretto

“Dando seguito a cordiali conversazioni avvenute in un quadro di mutua comprensione; esprimono, a nome delle organizzazioni che rappresentano, la soddisfazione per una ritrovata base comune di intesa; dichiarano che tra i popoli francese e italiano non vi è alcuna ragione di risentimento e di urto per il recente passato politico e militare, che impegna la responsabilità dei rispettivi governi e non quella dei popoli stessi, tutti e due vittime di regimi di oppressione e di corruzione; affermano la piena solidarietà e fraternità franco – italiana nella lotta contro il fascismo e il nazismo e contro le forze della reazione, come necessaria fase preliminare per l’instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale, in una libera comunità europea; riconoscono che anche per l’Italia, così come in Francia, la forma migliore di governo per assicurare il sostegno alle libertà democratiche e la giustizia sociale, è quella repubblicana; si accordano per impegnare le forze delle rispettive organizzazioni per il conseguimento dei fini suddetti, in uno spirito di piena intesa e su un piano di ricostruzione europea”

Il Capo della R.2 M. Juvenal
Il Delegato del CLN del Piemonte Dante Livio Bianco



mercoledì 22 aprile 2020

Ancora uno sforzo, cittadini, se volete essere liberi. Considerazioni impolitiche sul 25 aprile




Considerazioni impolitiche in attesa di un 25 aprile senza celebrazioni pubbliche

Giorgio Amico

Ancora uno sforzo, cittadini, se volete essere liberi


"Français, encore un effort si vous voulez être républicains", titolava nel 1795 Donatien-Alphonse-François de Sade un opuscoletto destinato a mantenere vivo lo spirito rivoluzionario in una Francia in piena crisi. C'è venuto da pensarci riflettendo sul presente e sull'avvicinarsi di una festa della Liberazione che si annuncia insolita.
Per la prima volta il 25 aprile sarà celebrato nell'intimità della propria casa, una necessità dovuta all'emergenza sanitaria che il paese sta vivendo e che impedisce ogni tipo di cerimonia pubblica. Un'esperienza nuova, non piacevole e non solo per l'isolamento forzato e la gravità della situazione, ma anche perché, come il Primo maggio, il 25 aprile era spesso l'unica occasione di rivedere amici e vecchi compagni. Quest'anno questo non sarà possibile e ciò contribuisce ad alimentare il senso di spaesamento che un po' tutti viviamo. La sensazione di un tempo sospeso in attesa di un futuro che si intravvede con difficoltà e che sicuramente sarà molto diverso dal nostro recente passato a partire proprio dalle consuetudini quotidiane.
Un'esperienza nuova e non positiva ma che può, anzi, dovrebbe, essere occasione di riflessione sul senso della Resistenza, sulla sua attualità, sul valore che può avere non tanto per noi nati in quegli anni o immediatamente dopo, ma per le giovani generazioni per le quali i 75 anni che ci dividono da quegli avvenimenti sono una era geologica e di quei fatti non hanno spesso più neanche il ricordo dei nonni. Che i nonni ormai siamo noi che quella storia non la vivemmo, ma la sentimmo raccontare dai nostri genitori che l'avevano vissuta sulla loro pelle.
Insomma, un 25 aprile domestico senza la retorica inevitabile delle celebrazioni pubbliche, una occasione di riflettere sul senso profondo di quegli avvenimenti,su quello che furono, ma anche avrebbero potuto essere. Un'occasione di andare oltre il mito, che, lo sappiamo bene, è fondamentale nella formazione di una identità collettiva, ma che se si cristallizza in luoghi comuni rassicuranti rischia di perdere la sua carica propulsiva.

"Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l'esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima: cose sempre più piccole e più lontane, e un'astratta passione, sempre uguale".

Difficile trovare una riflessione più amara e più lucida di questa che Carlo Levi, ex partigiano ed ex dirigente del Partito d'Azione, tira nel 1950 nel suo romanzo L'orologio, resoconto realistico e assai poco romanzato della sua esperienza politica di rivoluzionario giacobino nella Roma del 1945-46, al momento della caduta del governo Parri e delle prime manifestazioni di quello spirito di normalizzazione che avrebbe portato alla restaurazione del vecchio apparato statale monarchico-fascista, alla riabilitazione dei suoi funzionari di polizia, dei suoi giudici e dei suoi generali criminali di guerra in Etiopia e nei Balcani.

Dunque, la Resistenza come rivoluzione mancata, ma non, intendiamoci subito, nel senso romantico e del tutto immaginario che gli attribuivamo da ventenni nel 1968. Parliamo di una rivoluzione non politica, ma civile, che poteva esserci, che doveva esserci e non ci fu. Di un cambiamento radicale del Paese, del suo modo di pensare, a partire dai rapporti dello Stato con i cittadini. E non ci si venga a parlare della Costituzione, che sarà pure come qualcuno dice la più bella del mondo, ma che fu fin da subito viziata da quell'articolo 7 che, recependo i Patti Lateranensi, manteneva (e per certi versi pure rafforzava) il carattere confessionale di una Repubblica che avrebbe dovuto prima di tutto essere integralmente e radicalmente laica. Una Costituzione che per iniziare ad essere applicata concretamente dovette attendere per vent'anni una nuova grande ondata di lotte popolari che imponesse al potere con la forza dei gesti e non la retorica delle parole di prendere sul serio il diritto costituzionale al lavoro, all'istruzione, alla salute, alla casa. Diritti tanto proclamati quanto inapplicati a vantaggio di un sistema che sul basso costo del lavoro e la mancanza di tutele sociali aveva fondato prima la ricostruzione e poi il boom economico.

Una rivoluzione che guardasse più a Mazzini, il grande sconfitto del Risorgimento, che a Stalin. Una iniezione di etica in un paese che non aveva vissuto, a differenza della parte più avanzata d'Europa, né una vera rivoluzione borghese, né la Riforma protestante. Insomma, un paese dove il senso dell'appartenenza manteneva allora (e ancora largamente mantiene oggi) l'aspetto sordido della consorteria o del familismo, dove il "mi manda Picone" è la parola d'ordine che apre tutte le porte e l'idea di una società civile fondata sulla partecipazione collettiva e una cittadinanza attiva, fatta di diritti e doveri, rischia di restare mera retorica o aspirazione da "anime belle".

La Resistenza avrebbe potuto essere questo tipo di rivoluzione, ma non lo fu. Gli Azionisti, i soli a crederci davvero, sparirono subito dalla scena politica. Gli altri si accontentarono di sedersi al tavolo del governo, rimandando a un domani indefinito cambiamenti che allora il vento partigiano che soffiava dal Nord rendeva possibili: la compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, una autentica riforma agraria al Sud, la sburocratizzazione dello Stato, una epurazione radicale, la religione ricondotta alla sua natura di fatto interiore, un forte decentramento che valorizzasse le autonomie locali. Già nel 1947, con l'estromissione delle sinistre dal governo, era chiaro che quel domani non ci sarebbe più stato.

Di nuovo ci troviamo oggi di fronte ad una grande sfida. La crisi sanitaria rischia di trasformarsi in una crisi economica ancora più devastante di quella del 1929 che, non va dimenticato, condusse alle barbarie del nazismo e alla tragedia immane della seconda guerra mondiale. È evidente a chiunque rifletta sul presente che della crisi di una civiltà si tratta. Stiamo assistendo al declino probabilmente irreversibile di un modello sociale, fondato sulla produzione di beni di massa spesso inutili se non nocivi, la distruzione dell'ambiente, l'esaurimento delle risorse naturali. Come ne usciremo? A livello individuale ha ragione chi sostiene che, come sempre nelle situazioni di crisi, i migliori ne usciranno migliori e i peggiori peggiori. Lo si vede già oggi, nel modo di reagire alle limitazioni imposte dalla situazione. All'eroismo quotidiano del personale sanitario, all'impegno del volontariato e al senso civico di molti, si affiancano gli egoismi di tanti, per non parlare delle furberie di chi prova comunque a lucrarci su , dalla vendita a peso d'oro delle mascherine alla richiesta di contributi pur non avendone necessità.

Il problema è allora di capire come se ne uscirà a livello Paese. E proprio in questo ci pare essenziale la rimeditazione della Resistenza come occasione, allora mancata, di trasformazione radicale della società, come grande riforma prima di tutto della moralità di un popolo. In quest'ottica ci piace pensare ai medici come a nuovi partigiani, combattenti in prima linea per un'Italia migliore, più solidale, più inclusiva, più ecologica. Un'ecologia della mente, come già vent'anni fa profetizzava Bateson, capace di superare la frammentazione crescente di un mondo ormai fuori controllo. Sta a ciascuno di noi impedire che di nuovo questa Resistenza sia tradita, che di nuovo si debba parlare di occasione mancata.

martedì 21 aprile 2020

Storie di pirati liguri




Continuiamo la nostra navigazione nell'Oceano sconfinato (che proprio di quello si tratta) di antichi volumi e riviste ora reperibili on line. Questa volta navighiamo per davvero, essendo il nostro argomento la pirateria endemica sulle coste liguri. Genova non aveva la forza di difendere i suoi commerci e qualche volta da contrabbando e pirateria riusciva comunque a ricavare un guadagno, magari a spese dei suoi concorrenti.  Il testo che proponiamo è tratto da un lungo studio apparso nel 1927 sul Giornale storico e letterario della Liguria.

Emilio Pandiani

Storie di pirati liguri

Quando si pensa ai tempi nei quali i viaggi per mare erano effettuati soltanto da navi a vela, si divaga sulla bellezza di quelle navigazioni placide con grandi vele bianche e gonfie dal vento, sulle lente, quasi solenni traversate, sugli approdi a terre lontane, ricche di forti aromi, di frutti meravigliosi, di genti bizzarre e si sogna la strana vita fra cielo e mare, sotto il sole splendente, le stelle scintillanti, e si invidia la vita semplice e poetica del marinaio nella solitudine delle grandi acque, dinanzi agli spettacoli meravigliosi delle albe diafane, delle aurore sorridenti, degli infuocati tramonti, mentre sfilano silenziosi scenari sempre mutevoli di isole, di promontori, di coste boscose o ferrigne.
A ben pochi vien fatto di pensare alla vita durissima e spesso assai triste su quei poveri gusci di noce, alla mancanza di ogni comodità, ai cibi grossolani e sempre gli stessi, alla calme di vento, alle traversie, ai pericoli di ogni sorta, posti in agguato dovunque e in ogni momento, alle minacce dei mare non solo, ma anche degli uomini.

Chi parla oggi di corsari ? pensavo sfogliando certe vecchie carte dell’Archivio di Stato di Genova, ove trovavo come suol dirsi ad ogni piè sospinto tracce di assalti e di depredazioni, lamenti di mercanti che avevano perso tutti i loro averi per opera di pirati lungo la loro navigazione. La lettura di quelle carte mi faceva tornare in mente le antiche novelle che contengono tanto spesso le vicende romanzesche di abbordaggi e di rapimenti di corsari e che sono così piacevoli a leggersi, mentre in queste vecchie carte di Archivio v’era il fatto puro e semplice senza orpelli, v’era la prepotenza brutale, il furto, la perdita delle robe, gli insulti, le percosse, le ferite e qualche volta la morte del povero navigante.
È veramente impressionante la quantità di lettere che il governo genovese dirigeva a comunità ed a principi per i beni perduti da genovesi, in conseguenza di incontri con corsari. Nel solo periodo di una trentina di anni (tra il 1480 ed il 1510) le violenze subite per mano di essi, sono centinaia e centinaia e intorno ad esse si accoglie naturalmente un ampio stuolo di ordinanze, di provvedimenti e di processi che fanno rivivere questa epoca così diversa dalla attuale. (...)

Come si diventava pirati?
In una maniera molto semplice. Bastava che un uomo di mare, senza scrupoli e d ’animo fermo, risoluto a guadagnare largamente, sia pure col pericolo della galera e della forca, raccogliesse intorno a sé pochi compagni che avessero la stessa tempra e le stesse mire. Sopra un brigantino veloce e ben armato essi andavano ad appostarsi in qualche angolo di costa ove il mare fosse frequentato da passaggi di navi e quando ne era in vista alcuna che sembrasse ricca di bottino e poco armata , piombavano su essa all’improvviso, e, profittando della sorpresa, del disordine e della inferiorità di armi dei naviganti, salivano sulla nave e la depredavano di quanto rappresentasse una ricchezza.
Poteva anche accadere che i corsari non si accontentassero di depredare merci e naviganti, ma che si impadronissero anche della nave stessa e se ne servissero per più ardite imprese piratesche, gettando il terrore sul mare.

Non era infrequente il caso che il governo di qualche città marinara, per indebolire od ostacolare il commercio di una città emula, permettesse subdolamente questo brigantaggio, salvo però a smentire ufficialmente tale condiscendenza. A volte, per vendetta di gravi offese al proprio naviglio, si dichiarava pubblicamente la guerra di corsa verso le navi della città colpevole ed allora ognuno poteva porsi alla caccia delle navi nemiche col diritto di fare bottino di esse. Era questo il sistema della rappresaglia che durava a volte per mesi e anche per anni, sinché non si fosse giunti ad un accomodamento fra le due città, oppure ad una guerra decisiva.
Meno frequentemente la pirateria si esercitava anche sulle coste, in occasione di qualche naufragio. Nell’alto medioevo era esistito il cosiddetto ius naufragi, il diritto cioè degli abitanti delle coste di impadronirsi di quanto il mare gettasse sulla riva o potesse raccogliersi in una nave gettata dalla furia delle onde sugli scogli.
Ancora nel 1491 essendosi incagliata una nave genovese presso Salerno, l’equipaggio che si era potuto salvare aveva ricuperate quasi tutte le merci, ma gli abitanti della costa le reclamarono come ius naufragi e occorse l'intervento del governo genovese presso il Re di Napoli e l'invio di un cancelliere di Genova a Napoli per ottenere, con molti stenti, che le merci e le artiglierie ritornassero ai loro proprietari.

La pianta parassita della pirateria era allora diffusa su tutte le coste del Mediterraneo e, tranne i casi già citati, i governi delle città marinare si sforzavano ad estirparla, poiché essa portava gravi danni all’intero organismo statale.
Perciò nelle carte del governo genovese si incontrano assai spesso gli ordini ai vani ufficiali sparsi nei borghi e nelle città delle Riviere perché vigilassero sulle partenze di navi sospette dalle loro spiagge e se, malgrado tali ordini qualche brigantino prendeva il largo, la Dominante fulminava una multa ai suoi sudditi, avvertiva con pubblica grida quali fossero i patroni delle navi uscite a pirateggiare e se non riusciva ad impedire le loro gesta brigantesche li dichiarava ribelli e li metteva al bando dello Stato.

Ma prima di ricorrere a questa ultima misura il governo cercava di costringere i suoi sudditi un po’ troppo lesti di mano a restituire il mal tolto e ciò avveniva in special modo quando essi avessero lesi gli interessi di qualche stato o di qualche principe che fosse in buone relazioni con Genova. Si chiudevano invece gli occhi quando le navi o le merci depredate appartenessero a quegli stati coi quali la Repubblica fosse in rapporti poco amichevoli come, ai tempi di cui parliamo, con i Fiorentini. Accadeva però spesso che questi audaci avventurieri del mare confondessero il lecito con l'illecito, e non andassero tanto pel sottile nello scegliere le loro vittime, depredando, se si presentava una buona occasione, qualche mercante o qualche nave genovese ed allora i fulmini della giustizia cadevano inesorabili su essi o sul borgo dal quale erano partiti.(...)

(Da: Giornale storico e letterario della Liguria, Anno III. Fascicolo 1, Gennaio-Marzo 1927)

domenica 19 aprile 2020

Onore al vino di Savona e a Gabriello Chiabrera che ne cantò la dolcezza




Giorgio Amico

Onore al vino di Savona e a Gabriello Chiabrera che ne cantò la dolcezza

In questi giorni d'ozio forzato la lettura è piacevole svago e navigando in quell'enorme biblioteca online che è Google Books capita di fare scoperte affascinanti.

Nel 1874 nella sua "Guida storica economica ed artistica della città di Savona", Nicolò Cesare Garoni, "eruditissimo letterato" come viene descritto da un suo biografo, delinea un quadro idilliaco della campagna savonese compresa fra il torrente Quiliano e il Letimbro. Un piccolo, fertilissimo, territorio, oggi in gran parte ricoperto di palazzi e capannoni industriali, ma allora ancora in larga parte simile a quello cantato due secoli prima dal Chiabrera.

"Il suolo della Sabazia è la maggior parte calcareo, argilloso e siliceo. La celebre primavera perpetua delle riviere ligustiche fiorisce nelle sue valli e ne suoi orti, difesi da soffi acquilonari, un mese prima che nella gran valle del Po e matura il mandorlo, la noce, il nocciuolo, la giuggiola, il pruno; pesche che vincono di bontà e di bellezza le celebri di Verona; il pero d'inverno, il gelso il carubbo, il limone, l'arancio, l'arancina, Cypris aurantius sinensis, nel nostro volgare chinotto, il melograno e ogni primizia di saporiti legumi: nei giardini profuma i fiori più gai e sfoggiati, la rosa, il garofano, il gelsomino, l'ortensia e la sempre verde mortella e il pomo di Adamo e la palma. Sovra i colli educa l'ulivo e imbalsama l'uva.
I monti sono boschi di castagni e i sommi gioghi selve di pini e di roveri. Oche, anitre, galline, tortore e colombi popolano le corti e i giardini e i molini e i ruscelli e i canali e la mattina colle acute grida risvegliano i cacciatori: o colle lamentevoli voci accompagnano la quiete del mezzogiorno e la mestizia della sera. Dappertutto ronzano le api, intese al lavoro del miele, delizia degli uomini e degli Dei".



Ma sopra ogni cosa il Garoni elogia il vino, prodotto d'eccellenza e orgoglio del territorio. E nel farlo si appoggia sull'autorità del Chiabrera, eccelso poeta, amante di Venere, ma non insensibile al richiamo di Bacco. Nota il cronista:

"Il vino è pur sempre il principal prodotto dell'agro savonese, quantunque dopo il 1850 la crittogama s'abbia divorata quasi metà delle viti. Gabriello Chiabrera, che avea contezze e gusto degli ottimi vini d'Italia e sedeva fra i bevitori gentili, non negava suo titolo d'onore a ciascuno e amava quello di Savona". 

Ed in effetti il poeta compose un poemetto "Le vendemmie del Parnaso", dove il vino di Savona, anche se non paragonabile ai più celebri vini del tempo, è celebrato con affetto. Sono versi ancora oggi di piacevole lettura. Ne abbiamo scelti alcuni. Quelli che, a nostro giudizio, meglio rendono l'amore del poeta per quella campagna di Legino, dove aveva villa e terre coltivate a vigneto:

XXXII.
Corri alla grotta, o Clori,
Trova la manna di Savona, e spilla;
Poi colma l'orlo de maggior bicchieri.
Tutta la fronte mia sudor distilla;
Che mal prenda i levrieri.
Da che la bella Aurora in cielo apparse,
Finora i passi miei non fur mai fermi,
Chè delle fere le vestigia sparse
Cercai per poggi solitari ed ermi.
O forsennati cori,
Errar dal porto infra Cariddi e Scilla!
Vadan gli Adoni della caccia altieri:
A Bacco, che ci dà vita tranquilla,
Son servi i miei pensieri.

XXXIV.
Certo non è vin Greco,
Non Asprin, non Scalea,
Non Toscana Verdea,
Che titolo d'onor non aggia seco.
Tesor di Bacco puossi dire Albano:
Nè della Riccia la vendemmia è vile;
Ma dove sieda un bevitor gentile,
Veggo in aringo coronar Bracciano.
Se alcun giudice strano
Divulga altra sentenza,
Fugga la mia presenza,
Chè immantenente azzufferassi meco.



II.

Lodasi la vendemmia.

Parmi, caro Pizzardo,
L'Autunno a venir tardo,
Con tal desio l'aspetto;
E tanta smania in petto
Ho di tòrre alle viti
Gli acini coloriti:
Venturose giornate
A ragion desiate:
Veder chiome canute,
E fresca gioventute
Gir per la vigna intorno,
E come s'alza il giorno
I coltelli arrotare,
E i grappoli tagliare.
Alcuno è che racconcia
La pulita bigoncia;
Chi buon graticci appresta;
Altri riponsi in testa
Gran corba e gran paniere
Pien d'uve bianche e nere;
Chi pigia e cresce il vino
Al ben cerchiato tino.
Le vaghe forosette
Succinte in gonnellette
Fanno schiamazzo intanto,
E sollevano il canto
Gloria della vendemmia.
Gravissima bestemmia
Prenda l'uom che fa l'arte
Di ministrare a Marte
Micidiale acciaio;
Sia felice il bottajo:
Ei sol fabbrica in terra
L'arche dove si serra
Di Bacco il bel tesoro,
Bello vie più che l'oro.

XLI.

Che per la fredda stagione è da bevere.

Gonfio le gote
Sorge Aquilon sdegnoso,
E con spirti di neve il bosco ombroso
Aspro percote,
E va torbido e reo
Sul regno di Nereo.
In gioghi alpini
Non segna orma destriero;
Nè si arrischia d'arar cauto nocchiero
Campi marini,
Ma vuol rinchiuso in porto
Dal buon Leneo conforto,
Al crudo verno
Moviam dolce battaglia,
Facciasi distillar mosto di Taglia,
Più buon Falerno:
Ciascun si rechi in mano
Gran tazza di Murano.
L'anno d'intorno
Sen va con vario stile;
Quinci a poco vedrem l'amato Aprile,
Aprile adorno,
E liberal de' fiori:
Or versa vino, o Clori.





sabato 18 aprile 2020

Raffaele K. Salinari, Apocalisse pandemica, dal Grande Nulla al Dybbuk


    Ephraim Moshe Lilien, «Dybbuk», 1908

La parola apocalisse è collegata erroneamente all'idea di collasso irreversibile del modello"mondo", ma significa scoperta, svelamento.

Raffaele K. Salinari

Apocalisse pandemica, dal Grande Nulla al Dybbuk

Verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso esce un romanzo visionario: Guerra al Grande Nulla di James Blish. L’opera diventa subito un cult, parte di quel complesso mosaico di suggestioni lisergiche che, insieme ad altri classici della science fiction come Straniero in terra straniera di Robert A. Heinlein del ’61 – basti pensare che ispirò l’omonima canzone dei Doors – darà vita alla cultura Beat. Le trame dei due romanzi sono l’una il riflesso dell’altra, intrecciandosi nelle immagini di un’unica, psichedelica, profezia.

Il Grande Nulla

Nel primo libro troviamo il gesuita-scienziato Ramon Ruiz-Sanchez in missione sul pianeta Alpha Arietis, abitato da una specie intelligente di tipo rettiliano. Questi lucertoloni, alti e possenti, vivono in piena armonia all’interno di un’organizzazione sociale priva di ogni attrito o conflitto, pur non credendo in nessuna divinità e non avendo comandamenti o leggi. La condotta morale è ispirata al loro stesso ciclo di vita: si sentono infatti parte integrante del pianeta e lo rispettano. Il sacerdote giudica tutto questo opera demoniaca: una enorme trappola che il Maligno ha messo di fronte all’umanità per indurla in tentazione. Decide dunque di lasciare il pianeta al suo destino, escludendolo dalle rotte terrestri. Un rettiliano, però, gli dona un vaso contenente l’embrione del proprio figlio: Egtverchi. Questi viene dunque portato sulla Terra dove ottiene i diritti di cittadinanza globale da parte dell’ONU. Cresciuto in mezzo ai terrestri, ma con la sua ecologica struttura mentale, Egtverchi diviene in breve il leader mondiale degli emarginati e dei derelitti, la voce e lo specchio dove si riflette un’umanità costretta ad un’esistenza miserabile a causa delle minacce nucleari che tutti attribuiscono a tutti.

Il precario equilibrio su cui si regge l’intera società viene contestato duramente dal rettiliano, che con le sue parole ed il suo stile di vita decisamente anticonformista svela le ipocrisie della morale terrestre, sollevando milioni persone ad esprimere finalmente la propria gioia di vivere. Egtverchi diviene così l’Anticristo; il sistema che amministra e lucra sulle paure decide di fermarlo: il suo pianeta viene atomizzato insieme a lui. Ma il processo innescato dalla grandiosa operazione di autocoscienza collettiva finirà per travolgere un potere oramai logoro, che attendeva solo il catalizzatore per una reazione palingenetica.

In terra straniera

Parimenti, nell’altro romanzo, ma a parti invertite, il protagonista Valentine Michael Smith è un terrestre allevato dai marziani, che torna sulla Terra e comincia a porre le stesse domande scomode: finirà anch’egli ucciso, ma trasfigurato in un novello Prometeo.
Ciò che accomuna i due romanzi è decisamente il tema dell’alieno, del totaliter aliter che però sembra il solo in grado di porre all’umano le questioni fondamentali per la sua esistenza. Ma qui non sono tanto le domande in sé a suscitare le risposte, quanto le visioni che Egtverchi e Valentine evocano: sono immagini del nostro stesso mondo, riflesse però nello sguardo eterotopizzante di una vita aliena, in parte simile in parte diversa dalla nostra. A questo punto, come suggeriscono i protagonisti delle due storie parallele, c’è da chiedersi perché sia necessario un evento ingovernabile con i consueti dispositivi per arrivare a quella che, in senso stretto, è una rivelazione apocalittica, sia sul piano personale sia su quello collettivo.

Eterotopia

Abbiamo parlato di apocalisse, qual è il suo vero significato? Nei racconti, non a caso, viene spesso evocata; si continua a dire, ad esempio, che Egtverchi è il suo agente, che il messaggio del rettiliano, oramai seguito da miliardi di persone, porterà alla «fine del mondo». E questa «profezia» usata per spaventarne i seguaci che tornano sulla superficie dopo gli anni segregati nei bunker antiatomici, si rivelerà assolutamente vera, ma in un senso del tutto positivo. E allora vale la pena soffermarsi sul senso profondo, prospettico, di una parola erroneamente collegata, specie in questi tempi pandemici, a un’idea disperata, se non nichilista, di sconvolgimento, di collasso irreversibile del modello-mondo.

Il termine, com’è noto, deriva dal greco e significa invece, letteralmente, «scoperta» o «svelamento». Questo rende ragione del suo utilizzo originario come disvelamento di verità altrimenti nascoste o che vanno oltre la normale portata dell’umana conoscenza. L’idea di apocalisse è dunque di considerevole importanza nella storia della tradizione giudaico-cristiana ed islamica, dal momento che questioni come la natura del male, lo scopo dell’esistenza, il perché della sua origine, trovano qui un’esplicita risposta. E dunque, vediamo bene come nel concetto di apocalisse sia contenuta una tensione positiva verso il disvelamento delle verità ultime, del fine stesso della vita e non certo l’immagine della sua fine. L’involuzione semantica deriva evidentemente da un’ellisse del sintagma giovanneo apokalypsis eschaton, cioè «rivelazione degli eventi della fine dei tempi». Per ciò il titolo dell’ultimo libro del canone della Bibbia, il Libro della Rivelazione o Apocalisse di san Giovanni apostolo, viene comunemente, ma molto riduttivamente, interpretato come profezia della fine dei tempi e del tempo della fine.

Ed invece, pienamente in accordo col significato originario del termine, forse è vero che noi viviamo un tempo apocalittico, solo che le rivelazioni sul senso della nostra esistenza non vengono da profeti umani bensì, come nei romanzi di Blish e Heinlein, suggerite direttamente un organismo che trattiamo di fatto come un alieno, ma così intimo da potersi servire del nostro stesso corpo per passarcele: il covid-19. Anche il suo è un messaggio che, per molti, potrebbe sembrare simile a quello del Maligno, ma non è esattamente così. Senza di lui, infatti, la folle corsa che ci ha portato pericolosamente sul baratro dell’estinzione non sarebbe perlomeno rallentata, la forzata riflessione sul senso dell’unità del vivente sarebbe rimasta nelle sole mani degli attivisti dei Friday for future.
Dunque siamo in piena apocalisse, nel senso più pieno, globale, ed autentico del termine: un «apocalisse eterotopico». La definizione di eterotopia, infatti, come concepita da Foucault, è tratta non a caso dal vocabolario medico. Sono quei fenomeni che si originano in sede diversa dalla normale: ad esempio stimoli elettrici nati al di fuori del cuore, ma che provocano extrasistoli. Il termine compare nella prefazione di Les mots et les choses prima di assumere la sua forma compiuta in Eterotopia, e in particolare nel primo scritto, Spazi altri; una lettura incredibilmente interessante in questi giorni di confinamento forzato.

Il filosofo amplia dunque l’orizzonte degli spazi eterotopici sino a definire tali «quei luoghi reali, riscontrabili in ogni cultura ed in ogni tempo, strutturati come spazi definiti e che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme di questi rapporti». Foucault porta ad esempio il cimitero e l’ospedale; e sin qui il rovesciamento della relazione è evidente: l’ospedale è il luogo dove la morte organizza la vita, il cimitero è addirittura la città dei morti. È esperienza comune il senso di rovesciamento quando entriamo. Ma quando percepiamo l’eterotopia che irradia dalla condizione del presente, dalle città vuote, dalle scuole chiuse, in pratica da tutti i luoghi che oggi simboleggiano la nostra condizione pandemica, ebbene allora sentiamo che dappertutto si costruisce, si costituisce e si costudisce la consapevolezza dell’apocalisse.

Ora, se gli spazi eterotopici sono una specie di contesto al contempo onirico e reale, il loro tratto distintivo sembra essere quello di avvolgere, per così dire, chi li frequenta in una sorta di aura fantastica. Come un Aleph borgesiano essi la coagulano intorno, ed al tempo stesso la trasmettono al soggetto. Le eterotopie sono dunque luoghi «ai confini della realtà», territori il cui statuto ontologico viene sospeso, rovesciato. Ogni civiltà e ogni epoca ha prodotto le proprie eterotopie, ma sono sempre state delimitate spazialmente, temporalmente e culturalmente. Al tempo del covid-19, invece, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, il dominio dell’eterotopia si estende a tutto il mondo.

Si svuotano le autostrade, le stazioni e gli aeroporti: quelli che una volta erano i non-luoghi descritti da Marc Augé come i templi secolarizzati della modernità, oggi ci sono preclusi, chiusi. La loro aura nevrastenica è svanita, annichilita dalla nostra stessa assenza. Gli occhi di Medusa delle enormi vetrine che sino ad un recentissimo, quanto fantasmatico passato, ci pietrificavano, ora sono spenti; scomparso è lo spleen convulso delle megalopoli globali. Come un tessuto fragile ed esposto, oramai troppo vecchio e logoro per tenere, la trama della realtà si sta lacerando irreversibilmente, e noi lo sentiamo nel nostro stesso corpo. L’esperienza della pandemia ci dice già che non torneremo allo status quo ante, che ognuna delle guarigioni non sarà una semplice restitutio ad integrum ma una trasformazione; e queste lo saranno all’ennesima potenza poiché sono al tempo stesso individuali e collettive, personali e globali. Basterebbe questa consapevolezza a restituirci la potenza simbolica necessaria per ripensarci.

La caduta

Ma un luogo eterotopico è anche il giardino: almeno nell’immaginario rinascimentale, ma ancor prima nel mondo arabo medioevale, era inteso come un microcosmo in cui tutte le forme dell’esistenza potevano trovarsi in armoniosa relazione, il Giardino per eccellenza essendo il Paradiso terrestre. Troviamo in questa eterotopia forse l’immagine più ispiratrice: se, infatti, oramai è chiaro che il covid-19 è, tra le altre cose, figlio delle nostre aggressioni all’ambiente, della produzione industriale di carne, della riduzione degli spazi biologici che si devono ad ogni forma vivente per la sua giusta sopravvivenza, ebbene ecco che il Giardino terrestre diventa il luogo da ricostruire dopo la rovinosa Caduta nel «Regno della Quantità», come René Guénon, l’iniziato Muratore, definiva il nostro mondo senza Spirito. Ed anche questo suggerimento lo dobbiamo al nostro sgradito ospite alieno.

Il Dybbuk: la figura del perturbante

Max Ernst nel suo libro di fotomontaggi, tutti rigorosamente eseguiti a mano solo con forbici e colla, Una settimana di bontà, introduce la figura di Perturbazione, sorella del grande uccello Lop Lop. Le sue apparizioni sono sempre coerenti col nome: ci invita, con i suoi gesti pieni di grazia, ad entrare dentro una serie di immagini vertiginose: familiari ma con qualcosa che si insinua indicandoci una prospettiva nuova, perturbante appunto. L’idea del «perturbante» (Unheimliche), come dice Freud nel suo omonimo saggio del 1919, è allora speculare al «familiare» (Heimliche), è il suo Doppio: da ciò che sembra conosciuto, improvvisamente emerge, o scompare, qualcosa che snatura quello che pure sentiamo appartenerci profondamente; insomma il perturbante è l’eterotopia della nostra percezione sentimentale del mondo.

E cosa c’è di più familiare, e dunque estremamente perturbante, della morte? Seppellire i defunti, o essere vicino ai propri cari nel momento del trapasso, sono i gesti della familiarità con la morte; ma lasciarli confinati dietro un vetro e non vederli morire, o non poterli neanche accompagnare nell’ultimo viaggio terreno, non è forse perturbante? Ecco che il nostro alieno virale aggiunge alla pandemia anche questa nuova tonalità. E allora cerchiamo, tra le immagini di antiche credenze, qualcosa che possa aiutarci a immaginare un diverso rapporto con questa entità che dà la morte ma sottrae i morti al nostro sguardo: il dybbuk.

Nella tradizione popolare ebraica polacca e tedesca, è lo spirito al quale è stato vietato l’ingresso in Paradiso per aver commesso peccati mortali ma un po’ speciali, come il suicidio per amore. Ad alcuni di questi viene data la possibilità di emendarsi condividendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità. Nelle vecchie sinagoghe si narra che i dybbuk vengono dalla gehennaa, un termine ebraico traducibile liberamente con «luogo dei miasmi», un po’ come l’ambiente che genera i virus. Ma ciò che ci restituisce il senso simbolico del dybbuk è l’etimologia, che deriva dall’ebraico davok, «attaccarsi»: il dybbuk dunque è un qualcosa che si attacca ad un vivente per coabitare in esso, in altre parole lo «contagia»: questa simbiosi forma un dibbukim. Ma l’arcano del dybbuk è che una grande responsabilità viene data al corpo ospitante: è lui che deve farsi carico della natura di ciò che lo contagia, non solo per salvarsi ma anche per salvarlo. In altre parole deve trovare per il male una giusta collocazione, un luogo in cui tornerà a se stesso, compirà il proprio destino abbandonando l’ospite. Ecco che la metafora del dybbuk ci narra la nostra storia: non dobbiamo solo combattere il virus ma anche fare la pace con esso, dargli cioè gli spazi che sono a lui propri: i serbatoi animali e naturali dai quali viene e con i quali è in equilibrio. Se vogliamo uscirne rafforzati è bene comprendere, sin da ora, come dicono gli studi epidemiologici più completi, che ricreare queste condizioni è l’unica maniera per mantenerne la morbilità nella soglia del fisiologico.

il ManifestoAlias - 18 aprile 2020

martedì 14 aprile 2020

Se mio nonno avesse le ruote...




Se mio nonno avesse le ruote...

Ma il COVID 19 porta allo scoperto il cretino che, probabilmente, tutti coviamo dentro di noi? C'è da pensarlo, visto quello che ogni giorno ci tocca leggere e non solo su facebook. Prendiamo il Manifesto di oggi. 
A pag. 4 una giornalista denuncia con grande enfasi la "voglia di repressione" che animerebbe le forze dell'ordine. Motivo: le multe comminate a persone trovate a passeggio in campagna o a pescare. "Se il soggetto non si sta appiccicando con estranei a chi fa del male?, denuncia l'illustre giornalista neanche minimamente sfiorata dall'idea che, se valesse questa logica, la spiaggia di Alassio (tanto per citare un esempio) vedrebbe migliaia di persone tranquillamente a passeggio. Perché, è elementare, se una persona può a suo giudizio "uscire di casa per fare una cosa che lo diverte e gli fa del bene" (sempre per citare il livello degli argomenti usati), la stessa cosa la possono fare tutti. Ma a questo punto, visto che a tutti piacerebbe fare una passeggiata per godersi una bella giornata di sole, la pratica del distanziamento sociale andrebbe immediatamente a farsi benedire . Un ragionamento elementare, ma a quanto pare troppo complesso per la nostra giornalista.
Sempre meglio comunque dell'esimio professore , ora meritatamente a riposo dopo quarant'anni di duro lavoro accademico, dell'Università di Genova, che in prima pagina si scaglia contro "le classi dirigenti" con una serie di argomenti che iniziano tutti con "se".
"Se avessimo previsto in Italia avremmo dovuto portare i posti letti di terapia intensiva da 1500 a 10.000". "Se avessimo previsto, in Occidente avremmo evitato di delegare ai paesi asiatici la produzione di mascherine". E via con i se.
Fa specie pensare che l'illustre professore capace di pensieri così profondi, abbia insegnato per quarant'anni storia, senza sapere quello che ogni bimbo si sente ripetere già a partire dalla prima elementare: la storia non si fa con i se o , se si preferisce qualcosa di più semplice, visto il livello delle argomentazioni, "se mio nonno avesse le ruote, sarebbe una carriola".
E visto che parliamo del quotidiano più di sinistra, orgogliosamente "comunista" e antisistema, viene spontaneo pensare che, se questo è il livello della critica, le "classi dirigenti" obiettivo dell'articolo dell'illustre professore, possono dormire sonni tranquilli.


giovedì 9 aprile 2020

Nicla Vassallo: Chi è il mostro oggi? Il coronavirus, la Merkel, l’Europa o forse noi stessi?




Riceviamo e con grande piacere riprendiamo questo stimolante intervento della filosofa Nicla Vassallo.Concordiamo pienamente con lei sul fatto che "oggi è meglio sospendere giudizi univoci, mantenere la lucidità e nutrire dubbi piuttosto che sentenze".

Nicla Vassallo*

Chi è il mostro oggi? Il coronavirus, la Merkel, l’Europa o forse noi stessi?

In attesa di un picco che non arriva, chiusi nelle nostre case, attraversiamo giorni claustrofobici e interminabili. Perduti in noi stessi, ci aggiriamo nelle nostre abitazioni-prigioni come se queste fossero labirinti. Dalla mitologia greca riusciamo ad attingere, quasi sempre, un appiglio significativo al fine di evitare un panico illimitato, che può condurci ad azioni del tutto irragionevoli, quale quella ad esempio di spendere le giornate inseguendo il roboante susseguirsi di notizie e numeri (per dolo o colpa) poco chiari riguardo lo sviluppo della pandemia di Coronavirus. Cerchiamo perciò di conferire un senso alla claustrofobia, pure oggettiva, ragionando sull’accezione di mostro. Chi è il mostro oggi?

IL MINOTAURO CORONAVIRUS

Recependoci smarriti e intrappolati nel labirinto della nostra psiche, ci sovviene in mente il mito del labirinto di Cnosso, abitato dal Minotauro. Frutto della gelosia e punizione divina, il Minotauro è feroce, impietoso, mostruoso, pure sul piano figurativo: il suo corpo ricalca quello di un maschio/uomo, mentre la sua testa quella di un toro. Teseo si offre di uccidere il Mostro e vi riesce. Rimane il problema di uscire dal labirinto, problema che viene risolto grazie all’ingegnosità e intelligenza di Arianna, con il suo noto e semplice filo rosso. Molti possono ritenere che il Minotauro sia il Coronavirus, mentre le ricerche scientifiche somiglino al il filo d’Arianna: troveranno il vaccino e ci consentiranno di sopravvivere piuttosto bene anche al post-virus? In ogni caso, al cospetto del Coronavirus, il Minotauro pare mostruoso, in una misura decisamente inferiore. Il Minotauro, alla fin fine, esige da Atene solo sette ragazzini e altrettante ragazzine all’anno, mentre sulla strage causata dal Coronavirus, quando e se verrà sconfitto, il numero di persone morte si ipotizza assai alto a livello mondiale. Ed economicamente come ci ritroveremo? Cosa prevarrà nei sopravvissuti? Egoismo? Altruismo? Narcisismo? Individualismo? E che dire della possibile crescita esponenziale di populismi e nazionalismi?

LA MEDUSA GERMANIA-EUROPA

Sempre alla mitologia greca dobbiamo Medusa, mostro che a differenza di altri/e, è mortale e con un tratto specifico, ovvero una testa cinta soprattutto di serpenti. Siamo portati a credere che la “nostra” Medusa sia la Germania, in quanto pietrifica ogni generosità europea e che l’Europa ci salvERà. Invece, da qualche giorno, stiamo osservando il problema in modo diverso, dato che quest’Europa pare non risultare affatto Gli Stati Uniti d’Europa, ovvero una Repubblica Federale, composta da più membri (Stati), tra loro uniti. Occultare l’attuale realtà non serve a nulla, se non a precipitare in un pericoloso auto-inganno: un aspetto innegabile della realtà è il fatto che l’Unione Europea si è trasformata (grazie anche a una certa recente politica del nostro paese) in un coacervo di avidità nazionali, con in testa la Germania e i pochi Paesi “ricchi” e virtuosi Paesi, che mal tollerano gli “scapigliati” e “spreconi” cugini poveri e “meridionali”.

LA CICLOPICA MERKEL

Riflettiamo infine sulla narrazione politica di questi giorni che descrive una fredda nonché calcolatrice Merkel in quarantena dopo l’incontro con un medico, risultato positivo, mentre adotta rigide misure nei confronti dei tedeschi. E che lo stesso stiano facendo i suoi colleghi di mezzo Mondo (Gran Bretagna, USA, Olanda in ordine sparso). Occorre chiedersi perché, fino a poco fa, si siano tutti percepiti immuni dal virus. Siamo alle solite, o no? Merkel: un “mostro” che cavalca i “conformisti cervelli” tedeschi? Anche, ma forse ci dimentichiamo come negli anni la Germania abbia destinato più risorse del proprio PIL alla sanità rispetto ad altri Paesi (che hanno magari preferito “investire” in pensioni insostenibili) e come sia un Paese che non ha bisogno di impiegare esercito o forze dell’ordine per far rispettare regole e leggi anti pandemia.

CHI E’ ALLORA IL MOSTRO?

Sarebbe preferibile ammettere che non riusciamo a conferire un nome al Mostro. Non solo la realtà è così complessa e non c’è un unico mostro/nemico, ma dobbiamo ammettere che il “colossale”, nonché più che ragionevole, consiste nel nostro palese coinvolgimento in una situazione di cui risulta difficile una “veduta a volo d’uccello”, più alta e serena, basilare al fine di discernere tra miti e realtà. Oggi è meglio sospendere giudizi univoci, mantenere la lucidità e nutrire dubbi piuttosto che sentenze.
Possiamo così affermare che il Mostro non è un virus, né un singolo Stato né un evento. Il Mostro risiede in noi e si alimenta dalle e nelle difficoltà e condizioni avverse. Cerchiamo di guardare ai Mostri finora elencati con uno sguardo a volo d’uccello: il coronavirus è probabilmente determinato da uno sviluppo umano non sostenibile e dal conseguente cambiamento climatico. L’egotismo tedesco rintraccia un terreno fertile in quella politica italiana che ha fatto schizzare la spesa pubblica e il debito per fini meramente populistici, non affatto ai fini della crescita sul medio-lungo termine del Paese. Dopo la clamorosa bocciatura della Costituzione, l’Europa ha perduto la propria generosità perché di fatto l’Europa sognata dai Padri fondatori oggi non esiste e non esiste a causa del prevalere di troppi sovranismi (anche nostrani) oggi recriminanti.

COME CURIAMO I NOSTRI MOSTRI?

Come ci insegnano i Miti greci, all’intelligenza, alla razionalità e a una qualche astuzia dobbiamo la salvezza dai nuovi e illimitati Mostri, che accompagnano le nostre esistenze dall’inizio dei tempi.
Nel presente momento di difficoltà ci si appella profusamente all’empatia, anche se sarebbe forse meglio richiamare il bisogno di compassione e sostegno reciproco. La differenza non è poca: si corre infatti il rischio di limitare il nostro potere di reazione a bandierine, canzoncine e disegni, ovvero alla tentazione di crogiolarsi nella sofferenza. Abbiamo invece bisogno di saper condividere tale sofferenza, il che, pur non rinnegando i limiti e le difficoltà dell’oggi, si situa all’opposto di azioni e linguaggi che generano panico nell’altro-da-sé. Il Coronavirus è sì il Mostro (o uno dei mostri) di turno, al pari di altre pandemie che ci hanno afflitto in passato, ma pure al pari dell’atomica, impiegata a fini militari, dell’11 settembre, dell’Isis, e via dicendo, il che dovrebbe farci riflettere con sulla nostra “universale” condizione errante, sulla finitezza umana, sull’impossibilità dell’onniscienza.
Questo Mostro – sempre così latente – dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a legittime angosce, quanto all’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.

* Nicla Vassallo
Dal 2005 professore ordinario presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Genova dove insegna Filosofia teoretica.

venerdì 3 aprile 2020

Antonio Gramsci a Savona. Il discorso al Teatro Chiabrera e il primo congresso del PC ligure




Si conclude con l'arrivo a Savona di Gramsci, che tiene un seguitissimo discorso al Teatro  Chiabrera, la ricostruzione dei primi passi del Partito Comunista  a Savona.

Giorgio Amico


Gramsci a Savona

Quinta parte. Il Primo Congresso della Federazione Comunista Ligure

I primi mesi di vita del neo-costituito Partito comunista vengono dedicati interamente al lavoro organizzativo. Occorre collegare fra di loro le sezioni, tenere i contatti con i compagni isolati, costruire una solida frazione nel sindacato. E ciò con un quadro dirigente che, nonostante l'entusiasmo e l'impegno profuso nel lavoro politico, risente ancora notevolmente dei vecchi guasti del massimalismo sia a causa dell'insufficiente preparazione sia per i ricorrenti atteggiamenti verbalisti e personalistici.
Pur senza essere una grossa organizzazione, il Partito comunista nel corso del 1921 può contare in tutta la regione su circa 1.800 iscritti raggruppati in 52 sezioni. È una forza che va guidata, occorre decidere se il Partito deve organizzarsi in un'unica federazione regionale o su due federazioni provinciali. I comunisti savonesi sono per la prima soluzione, già adottata provvisoriamente dal congresso di frazione del dicembre 1920. Sede della Federazione regionale dovrebbe essere proprio Savona sia perché la città rappresenta il punto di maggior forza organizzativa e politica del PCd'I in Liguria, basti pensare alla direzione del Comune, sia per gli stretti legami con Torino sede de "l'Ordine Nuovo" e centro nevralgico del movimento comunista nell'Italia nord-occidentale.
I comunisti genovesi sono in maggioranza favorevoli, ma una minoranza sostiene la necessità di mantenere la sede centrale a Genova per meglio portare avanti, si sostiene, la lotta al riformismo ancora assai influente tra il proletariato del capoluogo.

Un altro gravoso problema in discussione è quello della tattica dei comunisti in campo sindacale. Fin da Livorno il Partito, rifiutando la sterile via dello scissionismo e della creazione di un sindacato proprio, ha optato per un lavoro sistematico e organizzato all'interno ella Confederazione Generale del Lavoro per strapparne la direzione ai riformisti.

"Il Partito Comunista - si legge in un manifesto del Comitato Centrale - intraprenderà, fedele alla tesi tattiche dell'Internazionale sulla questione sindacale, la conquista della CGL, chiamando le masse organizzate ad un 'implacabile lotta contro il riformismo ed i riformisti che vi imperano.
Il Partito Comunista non invita quindi i suoi aderenti ed i proletari che lo seguono ad abbandonare le organizzazioni confederali, bensì li impegna a partecipare intensamente all'aspra lotta che si inizia contro i dirigenti
Non è certo questo breve e facile compito, soprattutto oggi che molti sedicenti avversari del riformismo depongono la maschera e passano apertamente dalla parte dei D'aragona, con i quali militano insieme nel vecchio partito socialista.
Ma appunto per questo il Partito Comunista fa assegnamento sull'aiuto di tutti gli organi proletari sindacali che conducono all'esterno la lotta contro il riformismo confederale e li invita, con un caldo appello, a porsi sul terreno della tattica internazionale dei comunisti, penetrando nella Confederazione per sloggiarne i controrivoluzionari con una risoluta e vittoriosa azione comune". (11)

È in effetti un compito gravoso per un partito giovane, organizzato ancora in modo rudimentale e che difetta di quadri sperimentati. Anche a Savona, dove pure i consensi nella classe operaia non sono mancati, le difficoltà si fanno ben presto sentire e proprio là dove i comunisti sono riusciti a radicarsi più in profondità. In molte situazioni, soprattutto di fabbrica, in cui i comunisti hanno strappato al vecchio PSI la maggioranza dei consensi, mancano quadri che sappiano sostituire nella quotidiana prassi sindacale i vecchi esponenti massimalisti. Questi quadri vanno formati alla svelta. Lo strumento da utilizzare a questo scopo sono i consigli di fabbrica che debbono diventare una vera scuola di comunismo per una nuova leva di militanti operai.
Sono proprio i comunisti savonesi, formatisi alla scuola di Gramsci e de "l'Ordine Nuovo", a imporre all'attenzione dell'intero partito queste tematiche con un articolo di Arturo Cappa, direttore di "Bandiera Rossa" e esponente di primo piano della sezione, su "l'Ordine Nuovo":

"In Liguria i comunisti hanno conquistato importanti Camere del Lavoro e sono in maggioranza in alcune Federazioni, come per esempio quella metallurgica, come in altre parti d'Italia il movimento precede con tale rapidità la preparazione sindacale del Partito che, per difetto di organizzatori comunisti, ci è molto difficile di sostituire, dove abbiamo avito la maggioranza, i vecchi elementi socialisti. (...) È necessario che, servendoci della pratica dei Consigli di fabbrica, il Partito Comunista si proponga di valorizzare ed educare al più presto i migliori elementi operai per farne dei buoni organizzatori.
Dobbiamo con tutti i mezzi impedire che la deficienza di uomini ci privi dei vantaggi che lo spirito rivoluzionario dà al Partito comunista. Nella Liguria la conquista delle organizzazioni ha per i comunisti una importanza preponderante, data la grande fioritura di organismi economici proletari e data la grande concentrazione industriale delle masse. la forza politica dei riformisti si appoggia sulle organizzazioni che devono essere con un piano sistematico strappate alla loro mani". (12)

Allo scopo di dibattere questi temi e di decidere in via definitiva quale debba essere la struttura organizzativa del partito, il 20 marzo si tiene a Savona nel Ridotto del Teatro Chiabrera il Primo Congresso della Federazione Regionale Ligure del PCd'I.
Al congresso prendono parte sessanta delegati in rappresentanza di quaranta sezioni. Sono pure rappresentate le redazioni di "Bandiera Rossa" e de "l'Ordine Nuovo", oltre che la Federazione Giovanile Comunista Ligure. Ma il protagonista assoluto è Antonio Gramsci, giunto per l'occasione da Torino e il cui arrivo a Savona è stato così ricostruito non senza una certa ingenuità che lascia trasparire il legame profondo anche affettivo che univa quegli uomini:

"Antonio Gramsci, stanco del lungo viaggio, scese dal treno guardandosi attorno nella ricerca di qualcuno che fosse lì ad aspettarlo; gli si avvicinò Alberto Mussio, il quale, pur non avendolo mai visto, ma reso edotto dal suo stato fisico, gli disse sicuro: 'Tu sei Gramsci'. E Antonio Gramsci gli rispose stupito: 'Si, sono Gramsci. come hai fatto a riconoscermi?' Egli fu ospite quella notte di Mario Accomasso, che appunto in vico Monturbano abitava l'appartamento sopra quello di Giovanni Michelangeli e dei suoi cognati, i fratelli Canepa Tomaso, Giuseppe, Giulio e Angelo, operai dell'officina Scarpa". (13)

Sarà proprio Giovanni Michelangeli, assessore comunale e membro della Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro, ad aprire l'indomani i lavori del Congresso portando ai delegati il saluto dell'amministrazione comunale comunista, della Camera del Lavoro e della sezione savonese del partito.
La presidenza viene quindi assunta da Antonio Gramsci che pronuncia un discorso d'apertura fortemente polemico verso il Partito Socialista. Egli pone in rilievo il significato storico della scissione di Livorno e la validità della posizione comunista di fronte alla crisi interna di involuzione e disgregazione del Partito Socialista.
I dirigenti socialisti, afferma, non hanno compreso il significato storico della fondazione della Terza Internazionale e della sua lotta contro l'imperialismo e contro la socialdemocrazia. Proprio per questo non sono stati in grado di garantire un'autentica opera di direzione rivoluzionaria del possente moto proletario e le masse operaie sono state criminalmente condotte con un'imbelle fraseologia rivoluzionaria in una situazione caotica e pericolosa che apre la via al ritorno della reazione.
Si tratta di un vero e proprio tradimento, questa la conclusione di Gramsci, pronunciata fra scroscianti applausi:

"L'Italia è la patria di Maramaldo: in Italia dovremo fare i conti con i tradimenti più spudorati (...). In Italia si è verificato il caso di un 'partito rivoluzionario' che si è staccato dall'Internazionale; i controrivoluzionari russi hanno già sfruttato questo episodio (...) . Il Partito Comunista deve essere un organismo di tipo militare, e i suoi militanti devono raggiungere le più alte cime dello spirito di sacrifici per essere in grado di risollevare coloro che tanto in basso sono caduti. Il dovere dei comunisti liguri è ancora più grave: a Genova abbiamo avuto, prima che altrove, lo sviluppo delle tendenze controrivoluzionarie e piccolo borghesi della democrazia sociale, la quale crede di emancipare il popolo lavoratore creando delle aristocrazie operaie".

Dopo il discorso di Gramsci si apre la discussione sui temi riguardanti l'organizzazione, la stampa e la propaganda, la questione sindacale. L'argomento che monopolizza il dibattito è proprio quello relativo all'intervento nelle organizzazioni sindacali. Introduce la discussione Michelangeli con una relazione su "Movimento sindacale e Consigli di fabbrica".
Dopo una premessa sull'origine dei Consigli, l'oratore individua la loro funzione politica nella preparazione della classe alla gestione diretta dell'a produzione al fine di spezzare il dominio del capitale nella fabbrica, creare un ordine nuovo dei produttori, preparare gli operai alla rivoluzione proletaria. Sono, come si vede, le tesi de "l'Ordine Nuovo" incentrate sul concetto gramsciano di egemonia.
Al termine della discussione, che risulta vivacissima, il Congresso approva una mozione che impegna i comunisti a costituire frazioni di partito in tutte le organizzazioni sindacali al fine di conquistare le più vaste masse di lavoratori alle direttive politiche e sindacali del PCd'I. Occorre anche lavorare per la conquista ad una linea di classe delle Commissioni interne e per la costruzione in ogni azienda dei Consigli.

Per quanto riguarda i problemi organizzativi e della propaganda vengono approvate relazioni in cui si chiede "la preparazione di corpi armati" contro il nascente pericolo fascista e la centralizzazione nel Comitato Esecutivo Regionale di tutta l'attività di stampa per assicurare unità di indirizzo alla propaganda ed evitare il confusionismo e la demagogia tipici del vecchio PSI.
Il Congresso si chiude, infine, con la decisione di mantenere un'unica Federazione a livello regionale e la scelta con 1.174 voti contro appena 300 di Savona come sede di tale organismo. Segretario del nuovo Comitato Esecutivo Regionale viene nominato Arturo Cappa a ulteriore dimostrazione del peso determinante dei comunisti savonesi nel Partito. (14)

Si chiude così con il Congresso di Savona la prima fase di vita del Partito Comunista in Liguria. I comunisti del 1921, da Gramsci all'ultimo militante, erano fermamente convinti che la scelta operata a Livorno, anche se dolorosa, era stata necessaria. Gli anni che seguiranno, pur nell'imperversare della reazione fascista, dimostreranno inequivocabilmente che la scelta della parte più cosciente del proletariato italiano di avanzare sulla via di Lenin e dell'Ottobre era l'unica realisticamente in grado di assicurare uno sbocco vittorioso alla crisi rivoluzionaria del primo dopoguerra.

11. "Il Comunista", 30 gennaio 1921.
12. "l'Ordine Nuovo", 18 marzo 1921.
13. R. Badarello, Cronache politiche e movimento operaio del savonese 1850-1922, Savona 1987, p. 422.
14. Arturo Cappa (1892-1973), avvocato e giornalista, direttore di "Bandiera Rossa", più ricordato oggi come fratello di Benedetta Cappa moglie del leader futurista Tommaso Marinetti.


Savona 1993

giovedì 2 aprile 2020

Antonio Gramsci a Savona. La nascita del Partito Comunista d'Italia




Giorgio Amico
Gramsci a Savona 

Quarta parte. La nascita del Partito Comunista d'Italia



Il 29 gennaio 1921 "Bandiera Rossa" diviene l'organo ufficiale della Federazione Regionale Ligure del Partito Comunista d'Italia. Il settimanale era stato fino a quel momento l'organo dei socialisti savonesi. Il giornale, che inalbera per la prima volta orgogliosamente il motto "il comunismo è la dottrina delle condizioni della vittoria della classe lavoratrice", dedica grande spazio al Congresso li Livorno e alla nascita del PCd'I. Nell'articolo di fondo, che prende la prima pagina, si legge tra l'altro:

"Il Congresso di Livorno ha risposto alle aspettative del proletariato rivoluzionario italiano. L'equivoco unitario è stato spezzato. (...) I comunisti si sono coraggiosamente assunti di fronte alla storia la responsabilità della scissione formale del Partito, che già sostanzialmente era diviso in due partiti. (...) Al Congresso di Livorno l'unitarismo è stato smascherato. Soltanto per completare quest'opera di chiarificazione i comunisti hanno dominato i propri nervi e hanno subito fino in fondo gli attacchi personali, le calunnie contro i compagni di Russia e i tentativi demagogici inscenati dai centristi, invece di abbandonare fin dal primo giorno i lavori del Congresso.
Era necessario che fino all'ultimo proletario acquistasse coscienza che, sotto le varie e ipocrite formule di 'unità del Partito' e di 'autonomia nel campo internazionale', gli unitari difendevano l'opportunismo riformista e il grosso partitone numerico, comodo strumento per soddisfare alle spalle del proletariato tutte le ambizioni e tutte le posizioni personali della burocrazia sindacale.
Quel vuoto nome che era stato il massimalismo del Congresso di Bologna è stato disperso sotto l'impeto dello sviluppo della lotta di classe. Il massimalismo non era stato allora il fissarsi di una salda dottrina e tattica rivoluzionaria, ma soltanto una espressione verbale, che doveva servire per gridare grosse parole per le piazze d'Italia a scopi elettorali. Massimalismo e comunismo erano e si sono dimostrati due cose diverse.
A Livorno il massimalismo è stato sconfitto e ne sono balzati fuori nella loro chiarezza due metodi, due concezioni: il comunismo e il riformismo.
Il Partito Comunista rivolge una franca parola amichevole e tende la mano ai molti compagni delle sezioni che votarono per la tesi unitaria, nella speranza che, qualora la scissione si fosse delineata inevitabile, gli unitari avrebbero preferito l'unità comunista a un falso accordo coi capi riformisti.
Questi compagni, di cui conosciamo lo spirito rivoluzionario, diano la meritata lezione, entrando nel Partito Comunista, ai loro rappresentanti che, disprezzando la loro volontà, li hanno consegnati prigionieri del riformismo". (9)

A Savona aderiscono al Partito il sindaco Accomasso e la maggioranza dei consiglieri comunali socialisti, mentre la Camera del Lavoro approva con 17.347 voti contro 4.350 andati ai socialisti una mozione di appoggio al PCd'I. Anche fra i giovani i comunisti ottengono ampie adesioni. alla fine di gennaio si tiene a Sanpierdarena il IX Congresso regionale della Federazione Giovanile Socialista. Quasi all'unanimità i delegati decidono il passaggio dell'intera organizzazione al Partito Comunista con il nuovo nome di Federazione Giovanile Comunista Ligure. Anche il comune di Savona passa ai comunisti che formano una loro giunta, essendosi dimessi sei assessori socialisti di quella precedente.

Ai primi di febbraio si tiene la prima riunione dopo la scissione del Comitato esecutivo della Federazione Comunista Ligure, nel corso della quale viene approvato il testo di un manifesto ai lavoratori in cui si chiariscono i motivi della scissione e si indicano le finalità del nuovo partito:

"Compagni,

il proletariato italiano ha trovato al congresso socialista di Livorno la giusta via per venire a capo delle proprie rivendicazioni, separando la sua azione rivoluzionaria dall'azione riformista dei maggiori esponenti del PSI. Non c'era più possibile la convivenza dentro lo stesso organismo politico con uomini che hanno fatto e fanno costantemente professione di scetticismo sulla forza della classe operaia, che non credono alla miseria in cui su dibatte il proletariato, che non sentono i suoi bisogni e che invece sono sempre solleciti a trovare una giustificazione o quanto meno un'attenuante per la violenza di cui la classe operaia è vittima da cinque anni a questa parte.
Lo stato d'animo di questi uomini è la conseguenza di una mentalità piccolo borghese e democratica che serve mirabilmente alle ultime difese di una classe sociale che non ha più la forza sufficiente e la capacità economica necessaria per tenere soggetto il proletariato italiano.
Il partito socialista avrebbe dovuto capire l'antagonismo evidente tra i bisogni della classe lavoratrice che richiede il dominio assoluto dei poteri che regolano la sua esistenza e lo sforzo dialettico di chi, pur non consentendo a questo dominio, si trova nella necessità tattica di dissimulare la propria negativa con acquiescenza condizionale che al momento opportuno si risolverebbe in un tradimento per le classi proletarie.
Il partito socialista non si è reso conto per via di questo irreducibile dualismo e di è fatto sopraffare dai sentimenti scaturenti dalla moralità borghese, che sono esiziali alla lotta aspra, fiera, senza quartiere e forse senza speranza che tutte le categorie sociali parassitarie hanno dichiarato al proletariato.
Abbiamo pertanto abbandonato con dolore ma con fede le schiere del Partito a cui per tanti anni avevamo dato tutti i palpiti delle nostre esperienze ed abbiamo costituito il Partito Comunista, sezione italiana della Terza Internazionale,.
Il nostro nuovo Partito unisce le sue file, i suoi sforzi, i suoi ardimenti a quelli del proletariato di tutto il mondo unito nella Terza Internazionale, con la quale si prefigge di lottare per la liberazione delle classi lavoratrici; sente fervida, alta e costante la sua solidarietà con la Russia dei sovieti, con la Grande Rivoluzione e con i suoi uomini ed è perciò il PCI l'unico partito in Italia che resta in comunità d'intenti e di mezzi con i partiti rivoluzionari delle nazioni in cui gli operai sentono la dignità e i bisogni della propria classe". (10)


 9. "Bandiera Rossa", 29 gennaio 1921
10. "Bandiera Rossa", 5 febbraio 1921.

4. Continua

mercoledì 1 aprile 2020

Antonio Gramsci a Savona. Nascita della Federazione comunista ligure




Giorgio Amico

Gramsci a Savona

Terza parte. Nascita della Federazione comunista ligure

L'occupazione delle fabbriche permette comunque a larghi strati della classe operaia di fare un'esperienza politica preziosa e di comprendere come il Partito socialista sia ormai inutilizzabile come guida del processo rivoluzionario. Al di là delle roboanti enunciazioni verbali, il partito resta una organizzazione di propaganda elettorale senza un vero e proprio legame diretto con le masse alle quali si rivolge soprattutto attraverso la Confederazione Generale del Lavoro. Le sezioni socialiste godono ancora della massima autonomia, senza alcuna forma efficace di collegamento, senza una direzione politica comune a livello provinciale e regionale.
Complessivamente il PSI, che alla fine del XIX secolo e al principio del XX, era stato un elemento di modernità che aveva contribuito a svecchiare la politica dell'Italia post-unitaria, si rivela ora invecchiato e del tutto inadeguato a dirigere unitariamente su scala nazionale il moto che agita milioni di proletari delle città e delle campagne. (8)
Nel 1914 era stato Mussolini, su posizioni nazionalistiche e interventiste, a rompere con il partito proprio per questa evidente incapacità di cogliere e interpretare lo stato d'animo del paese. Ora è la sinistra comunista che si rifà al modello bolscevico e all'esempio russo a tirare conclusioni sostanzialmente analoghe e a iniziare a pensare alla necessità di un altro tipo di partito. Insomma, messo alla prova, il Partito Socialista non supera l'esame della guerra e delle convulsioni del dopoguerra. Ma, come dimostrerà poi l'avvento al potere di Mussolini, è l'intero sistema politico a collassare.

Alla fine del 1920 la crisi nel PSI precipita- Anche nelle sezioni liguri si fa strada la convinzione dell'insufficienza della direzione massimalista e si intensifica l'azione di propaganda e di proselitismo svolta dagli elementi rivoluzionari. Il partito in Liguria e a Savona è diviso fra una minoranza di riformisti, una maggioranza di massimalisti e una consistente minoranza di comunisti. quest'ultima componente risulta a sua volta divisa fra una maggioranza sulle posizioni di Antonio Gramsci e del gruppo de "l'Ordine Nuovo" ed una piccola minoranza concentrata a La Spezia e Sanremo che si collega alla frazione comunista astensionista di Amadeo Bordiga e al giornale "Il Soviet".
Il 15 ottobre si costituisce ufficialmente a Milano la Frazione comunista con un manifesto programmatico firmato da Gramsci, Misiano, Polano, Terracini, Bordiga, Bombacci e Fortichiari. Principale esponente e animatore della Frazione è il napoletano Amadeo Bordiga, ma ad essa partecipano anche Gramsci e i torinesi de "l'Ordine Nuovo", la quasi totalità della Federazione Giovanile, i milanesi vicini a Fortichiari e il gruppo dei massimalisti di sinistra capeggiato da Bombacci. Due settimane più tardi in vista dell'ormai imminente XVII Congresso del PSI la Frazione tiene un suo convegno a Imola per fare il punto sulla situazione e deliberare sulla tattica da seguire.

La scissione del partito è ormai all'ordine del giorno. Anche a Savona il clima all'interno della sezione si fa ben presto incandescente. Il 27 novembre la componente comunista si riunisce nei locali della Camera del lavoro, mentre la Sezione socialista di Vado aveva pochi giorni prima deciso compattamente di aderire alla "Frazione comunista secessionista". Savona risulta essere in Liguria la realtà in cui la frazione comunista è più consistente e ha la maggiore presa sulla base socialista. Al congresso della sezione su 535 iscritti ben 306 si schierano con i comunisti, 143 con i massimalisti e solo 86 con i riformisti.

"Uno dei centri più importanti dell'Italia proletaria - scrive Bandiera Rossa - si è pronunciato per la radicale rinnovazione del Partito, per l'adesione leale e incondizionata alla Terza Internazionale, per la separazione del comunismo che è dottrina e azione rivoluzionaria della classe, dal riformismo, che si risolve in collaborazione diretta o indiretta con la borghesia. I compagni delle sezioni del savonese hanno compiuto con la loro adesione alla frazione comunista un atto che dimostra la loro preparazione politica, la loro fede, la loro energia rivoluzionaria. Il gesto dei compagni del savonese avrà una grande ripercussione sui compagni della Liguria tutta, che per le sue condizioni geografiche, per il suo sviluppo industriale e per la maturità della sua classe proletaria è destinata ad essere una delle più grosse regioni della nuova Italia comunista".

Il 12 dicembre a Genova, presso la Lega dei Panettieri in Vico Oliva, si svolge il congresso regionale della Frazione Comunista Ligure. Sono presenti delegati delle sezioni di Lavagna, Santa Margherita, quinto, Struppa, Rivarolo, Bolzaneto, San Quirico, Pontedecimo, Pra, Campoligure, Savona, Vado, Bergeggi, Quiliano, Pietrabruna, Cervo e Sanremo. Tutte sezioni in cui i comunisti avevano ottenuto la maggioranza. Sono presenti inoltre i gruppi comunisti minoritari delle sezioni di Genova, Sanpierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente, Borzoli, Voltri, Albenga, Diano S. Pietro, Oneglia, Porto Maurizio, Bordighera.
All'unanimità viene decisa la costituzione di un comitato regionale, composto da quattro delegati di Genova, due di Savona, due di Porto Maurizio e uno ciascuno per la Val Polcevera, La Spezia e Chiavari, per "curare il lavoro di preparazione e coordinamento per il prossimo congresso nazionale. di inquadrare le sezioni e i gruppi comunisti, di formare nuovi gruppi, di costituire delle branche comuniste in ogni organizzazione economica".
Viene inoltre espressa piena solidarietà al Comitato Esecutivo della Terza Internazionale in relazione ai travagliati rapporti intercorsi tra questo e la Segreteria nazionale del PSI. A rappresentare il circondario savonese vengono chiamati Mario Accomasso e alberto Mussio.

Il neocostituito comitato regionale della Frazione Comunista Ligure si riunisce a Genova nella prima settimana del gennaio 1921 e delibera di impegnare i suoi delegati al Congresso di Livorno ad attenersi strettamente alla mozione di Imola, non accettando alcun compromesso con gli "unitari" di serrati e di agire in modo che dal congresso si esca con la scissione del PSI e la costituzione del Partito Comunista.
Al Congresso di Livorno la Liguria dispone complessivamente di 6.515 voti. Agli unitari di Serrati toccano 3.929 voti pari al 60,3 per cento, ai comunisti 2.357 voti pari al 35,8 e ai concentrazionisti (i riformisti) appena 249 pari al 3,8 per cento. Delegato per Savona al congresso sarà il sindaco della città Mario Accomasso.

8. G. Manacorda, Il socialismo nella storia d'Italia, Laterza, Bari 1972, p. 432.

3. Continua