TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 28 marzo 2017

venerdì 24 marzo 2017

Tepepa è morto, Tepepa vive


Giorgio Amico

Tepepa è morto, Tepepa vive

E così se ne andato anche Tomas Milian, compagno di avventure e di sogni negli anni felici in cui siamo stati orgogliosamente seduti dalla parte sbagliata della tavola, quella dei dimenticati e dei cattivi.

Con lui abbiamo combattuto nei villaggi sperduti di un Messico assolato, a fianco dei peones in cerca di tierra y libertad. Era nostro dovere, perchè, lo sanno tutti, il dittatore Carranza era un grande cabron e un hijo de puta.

Tomas Milian, Tepepa, ha rappresentato il sogno dell'avventura che in quegli anni in cui tutto pareva possibile e il mondo a portata di mano, noi chiamammo rivoluzione, parola dolce e terribile che ci scaldava il cuore e ci accendeva un fuoco nella mente.


Tepepa chiamavamo anche il responsabile del servizio d'ordine di quella Casa dello studente , base rossa, da cui partire alla conquista della Genova dei padroni, così come i guerriglieri scalzi di Tepepa erano scesi dalle montagne diretti a Città del Messico.

Ti abbiamo voluto bene, Tepepa. In tuo nome abbiamo portato per anni orribili baschetti e fumato toscanacci puzzolenti. Tutto per l'Idea, perchè  nonostante le aspettative non ci è servito nemmeno a rimorchiare.


Riposa in pace, Tepepa, resterai per sempre nell'angolino nel nostro cuore dove custodiamo gelosamente i ricordi della giovinezza.

Kandinskij. L'iniziazione del pittore nella Russia profonda


Al Mudec di Milano una mostra presenta il primo periodo dell'opera di Kandinskij.Splendido l'uso del colore. "Volevo che gli spettatori entrassero e si muovessero nei miei quadri", così il pittore spiegò il respiro cosmico delle sue tele che la scelta dell'astrattismo trasformerà in un linguaggio magico. 

Chiara Gatti

Kandinskij. L'iniziazione del pittore nella Russia profonda

Alla parete del suo studio di Monaco, nel 1911, su una tappezzeria a scacchi, era appesa l’immagine di un uccello del paradiso. Una stampa popolare russa, un “lubok”, che vegliava su di lui. Appoggiato col gomito alla scrivania, Vasilij osservava altre carte dipinte. Una fotografia lo ritrae circondato da una mappa di motivi folclorici: icone e oggetti votivi della Madre Russia. Da queste fonti di ispirazione, succhiava il midollo di un passato che gli apparteneva intimamente. Il padre nobile dell’astrattismo era un nostalgico e insieme un visionario. Un paladino errante sulla linea del tempo, alla ricerca delle sue origini, dei geni tartari, delle tracce dei suoi avi calati dalla Siberia orientale con un carico di fiabe, leggende, riti sciamanici sedimentati nella memoria. Per sempre.

Kandinskij. Il cavaliere errante. In viaggio verso l’astrazione è il titolo della mostra organizzata da 24 Ore Cultura e curata da Silvia Burini e Ada Masoero, che racconta al Mudec di Milano, fino al 9 luglio, vent’anni di riflessione, ragione e sentimento, violento rifiuto del positivismo e risveglio dell’anima alla ricerca di una dimensione spirituale dell’arte. Con un sogno intoccabile: dipingere l’invisibile.


Il percorso, chiaro nella sequenza dei momenti, raccoglie 49 opere del maestro, in arrivo dall’Ermitage di San Pietroburgo, dalla Galleria Tret’jakov e dal Puškin di Mosca, oltre a vari musei esteri, e vanta un taglio antropologico, che affonda nel cuore di un uomo innamorato della sua terra. Un viaggio à rebours accosta ai dipinti, agli oli, agli acquerelli, alle silografie, 85 reperti di un mondo ai confini delle geografie: oggetti quotidiani, elementi decorativi tradizionali, tessuti ricamati e bauli dipinti con simboli arcaici, sopravvissuti nella cultura contadina dell’estremo nord. Questo universo favoloso ed esoterico, lontanissimo dal razionalismo dell’Europa moderna, lo sedusse fin da ragazzo, destinato a depositarsi nel ricordo e a riemergere con energia primordiale nella sua pittura matura.

Durante una spedizione di ricerca nelle campagne ugro-finniche delle Vologda, invitato dalla Società imperiale Amici della scienza a studiare le credenze pagane nella provincia più profonda, Kandinskij, giovane allievo dei corsi di giurisprudenza, entrò nelle izbe dei popoli sirieni. Era il 1889. «Non dimenticherò mai le grandi case di legno dai tetti scolpiti. In quelle case meravigliose provai impressioni rare che mai più si rinnovarono. Mi insegnarono a commuovermi, a vivere in pittura ».


Le slitte di Novgorod, i giocattoli in legno scolpiti nella regione del Vladimic, i battipanni delle donne di Kerchomja, le canocchie per filare la lana di Archangel’sk. Santi e guerrieri, orsi e lupi, eroi e regine illustravano scene fiabesche, tratteggiate su ogni utensile. Mandrie di cavallini dalle criniere spettinate galoppavano nelle rappresentazioni incise sul legno, nei colori alle pareti, nei libri delle canzoni, sulle stufe e le cassapanche. La nonna e la zia avevano intonato per lui, da bambino, nelle notti gelide di Mosca, brani di quelle melodie della steppa. Quando si trovò davanti, nella sua avventura cognitiva, le radici della sua storia, fu un’ipnosi regressiva. Un’epifania. E addio studi di legge, addio alla cattedra che gli fu offerta in Estonia. La prima moglie, la cugina Anja, compagna di università e intellettuale, reagì duramente alla decisione di abbandonare ogni cosa per partire in direzione di Monaco e iscriversi all’Accademia dove insegnava Franz von Stuck.

La malia del simbolismo, i riccioli dello Jugendstil, le ombre del medioevo tedesco, la musica mentale di Schönberg, la teosofia di Madame Blavatsky e l’anima senziente di Steiner si mescolarono alle reminiscenze del suo viaggio iniziatico. E tutto si riversò nella sua pittura illuminata da uno sguardo interiore. Dal dialogo serrato dei motivi che rimbalzano fra dipinti e candelabri, carte, coperte e scatole in corteccia di betulla, emergono segni indelebili di riti e miti ortodossi sublimati nei colori dell’astrazione. I dischi solari dei sirieni ispirarono lo scudo di San Giorgio nel magnifico Cavaliere del 1914. Il serpente infernale delle icone apocalittiche striscia come un’onda del destino nell’Ouverture del 1919. Il carro di fuoco del profeta Elia deflagra nel profondo rosso dell’Improvvisazione del Puškin. Lo stesso uccello del paradiso vola in scene magiche, sopra le cupole d’oro del Cremlino.


Erano ormai già passati gli anni del Blaue Reiter, il cavaliere azzurro, fondato con Franz Marc nel 1911 e si avvicinava il tempo leggendario della docenza al Bauhaus. Ma i tamburi della taiga risuonavano ancora nelle sue vene.

Una tesi di fondo aleggia lungo il percorso: il Kandinskij popolare degli anni Venti è solo un epigono di se stesso. Kandinskij prima di Kandinskij rivela l’origine del genio e il debito verso i moti ancestrali della sua terra. Lo si vede dai toni che accendono i paesaggi di Murnau o le vedute della Piazza Rossa. «Mosca si fonde in questo sole, in una macchia che mette in vibrazione il nostro intimo, l’anima intera come una tuba impazzita. Non è questa uniformità in rosso l’ora più bella! Essa è l’accordo finale della sinfonia che avviva ogni colore, che fa suonare Mosca come il fortissimo di un’orchestra gigantesca».


La Repubblica – 15 marzo 2017

giovedì 23 marzo 2017

L'altra Venezia



Le foto di Giovanni Cocco svelano angoli di una Venezia quasi inimmaginabile dalla gran parte dei turisti: silenziosa, privata, sempre più vuota di abitanti e meravigliosamente autentica.

Caterina Serra
Fotografie di Giovanni Cocco

L'altra Venezia: la città souvenir persa nel vuoto


Guarda, l'aquila di mare è tornata in laguna. Insieme al germano reale, l'alzavola, l'oca lombardella, il piovanello partito dalla Siberia, la garzetta che sembra un airone ma ha il becco nero come le zampe che finiscono gialle. Vengono tutti a svernare a Venezia. Un flusso migratorio gentile, un popolo aereo, che viene e va senza pretese di occupazione né temporanea né permanente. La città alza gli occhi al cielo, con l'aria un po' stanca, stordita dal milione di voci che la assordano, sfinita dal conto dei passi di gente che ogni giorno gira in tondo, si ferma, riparte, si perde. Dove sono? Chiede qualcuno con la cartina della città in mano. Ogni tanto ci gode, a farli perdere, a confonderli, spezzandogli davanti agli occhi la strada, improvvisando un canale che interrompe il cammino. Ogni tanto invece offre ponti all'altro flusso, quello che ha attraversato il mare, e allunga un cappello a ridosso dei muri.


Ogni tanto i due flussi si incrociano ma senza confondersi. Lo sanno tutti, Venezia richiede elasticità, sinuosità di movimenti, e tagli netti improvvisi, come a sparire. È questo a confondere, l'impossibilità di un procedere lineare, omogeneo, l'insostenibilità di un pensiero che non ammette contraddizioni. Sembra ferma, la città più intatta della storia, con le sue gondole che ancora nessuno ha dipinto di rosa, col suo canale di palazzi sospesi come piatti sulle asticelle di un giocoliere, e la stessa aria magica di un castello incantato. Eppure. Come un parco a tema da visita domenicale, Venezia apre ogni giorno come una disneyland da visitare. Qualcuno dice che sta morendo, qualcun altro annuncia a gran voce che la città più bella del mondo è in vendita, che se la godono come un luna park, se la portano via come un bel souvenir, ci passano qualche giorno per foto in pose inchiodate a ponti che servono da belvedere.



Dicono che stia cambiando, che si stia svuotando di chi c'era nato e vissuto, che si stia facendo incatenare di negozi tutti uguali, a omologarla di copie di se stessa, sotto l'estetica un po' fetish di maschere di un brutto carnevale, dentro stanze di ori e stucchi come dark-room, un buio della storia in cui infilarsi eccitati dall'idea stessa di non sapere più dove si è. Dove siamo finiti? Se la comprano i più ricchi della terra e se la affittano, non è che ci vengono a stare, le case costano sempre di più e allora si lascia l'acqua incerta per la terraferma. Ogni tanto qualcuno sibila che sono anche i veneziani che se la vendono la loro amatissima città, affittacamere e venditori di case come si vendessero l'anima, ché agli schei sono attaccati tutti.


Ma dove sono?, nel senso di dove mi trovo, se lo chiede il turista spaesato, e il veneziano spaesato anche lui. Il turista che non solo si perde tra calli che gli sembrano uguali, ma che si ritrova in una città che non sa neanche se è quella vera, per dire storica, quell'unica al mondo fatta così, o non sia invece una delle sue tante riproduzioni. A fine giornata nella città-souvenir, c'è sempre qualcuno che si domanda: a che ora chiude Venezia?, con la paura di restare dentro mentre si spengono le luci, la giostra si ferma, il divertimento è finito.



Cosa accade a una città svuotata dei suoi abitanti e popolata di turisti? Cosa ne è dello spazio pubblico? E cosa succede a quello privato se l'uso di una casa non è più abitativo? Come se lo spazio pubblico potesse essere rinchiuso dietro i cancelli di una biglietteria, come se vivere non fosse abitare, aver cura di ogni bene comune, alimentare lo spirito della città con ciò che fa parte della sua storia, della sua identità. O come se lo spazio privato fosse lì pronto ad aprirsi al miglior offerente, e le cose non facessero parte di noi, non ricordassero niente a nessuno.

Anche le case ogni tanto si chiedono, dove siamo? Se la città diventa un pittoresco spassoso paese dei balocchi, quel pieno di voci e piedi che la affatica tanto è un vuoto di senso, di cittadinanza, di vita reale, di vita vera, verrebbe da dire, in cui la domanda, più storica che geografica, di chi ci passa o ci vive, e vuole viverci ancora con amore per la città, sarà la stessa: dove sono?


La Repubblica – 15 marzo 2017

sabato 18 marzo 2017

Il Soviet dei disoccupati di San Pietroburgo, una pagina sconosciuta della rivoluzione russa



Sabato 18 marzo 2017, alle ore 17.30,
alla Libreria Erasmo di via degli Avvalorati, 62, Livorno,
presentazione del volume
Il Soviet dei disoccupati di San Pietroburgo”
di Sergej Vasil’evič Malyšev


«Organizzammo le masse licenziate dei disoccupati in un esercito rivoluzionario unito e creammo uno stato maggiore che dirigesse tale esercito: il Soviet dei disoccupati di San Pietroburgo.»

Così Sergej Vasil’evič Malyšev sintetizzò la nascita, nel marzoaprile 1906, dell’organismo che seppe conferire forza e identità politica rivoluzionaria alle masse dei senza-lavoro fino alla sua soppressione, nel 1908.

Quella di Malyšev è la testimonianza di uno dei principali protagonisti di quella straordinaria forma d’organizzazione proletaria, sorta in collegamento con il ciclo rivoluzionario russo del 1905-07, e assume, oggi più che mai, un importante significato di lezione storica, di insegnamento politico.

Il volume riporta anche, nella prima appendice, ampi brani sulle origini e le attività del Soviet dei disoccupati tratti dalle memorie di Vladimir Savel’evič Vojtinskij, che ne fu il presidente.

Infine, la seconda appendice contiene una serie di rari volantini di quel soviet e altri materiali d’epoca ad esso relativi.


Il libro può essere richiesto a: redazione@prospettivamarxista.org  

domenica 5 marzo 2017

Biancaneve e i sette maghi



La più celebre delle favole nasconde molti significati perchè quei nani vengono da molto lontano, da una Grecia arcaica sospesa fra mito e magia. Altrettanto degno di approfondimento sarebbe "l'esoterismo" implicito nei cartoon di Walt Disney, iniziato alla Massoneria e dunque aperto all'influenza della Tradizione.

Raffaele K. Salinari

Biancaneve e i sette maghi

Nel 1812 viene pubblicata nella raccolta Kinder und Hausmärchen (Fiabe dei bambini e del focolare), a cura dei fratelli Grimm, la storia di Biancaneve ed i Sette Nani. La trama è nota: la mamma della bambina muore dandola alla luce ed il padre si risposa con una donna malvagia, una vera e propria strega che vuole ucciderla. In altre versioni, decisamente più “psicoanalitiche” e gotiche, è la mamma stessa che impazzisce di gelosia di fronte alla bellezza della figlia e la vuole morta. Fatto sta che dopo ben due tentativi andati a vuoto, oltre che assoldando un killer che però ha il cuore tenero, la madre/matrigna riuscirà a darle una mela avvelenata che la fa sprofondare in un sonno di morte.

La bara di cristallo

E allora dorme Biancaneve nella sua teca di purissimo cristallo: la pelle bianca come la neve e le guance rosse come il sangue sono incorniciate dai capelli, neri come l’ebano. Così la volle sua mamma (è questo desiderio eugenetico che la farà impazzire?) prima che lei nascesse. Ed ora la bella ragazza sembra morta anche se il suo aspetto resta splendido e incorrotto.

Eppure sino a quell’infausto incontro con la strega la vita era scorsa tranquilla nella casetta del bosco, dove la bambina inseguita dal male aveva trovata finalmente rifugio presso i Sette Nani. Ma la madre/matrigna cattiva, grazie allo specchio fatato, aveva scoperto che la ragazza era viva e in salute. Travestitasi da vecchia venditrice, allora, si era presentata alla casa dei Nani e per ben due volte aveva cercato di uccidere Biancaneve, prima stringendole una cintura in vita fino a toglierle il respiro, poi facendole passare tra i capelli un pettine avvelenato.

In entrambi i casi, però, la giovane si era salvata grazie all’intervento dei Nani, che riescono a rianimarla con le loro arti di guaritori. Ma, purtroppo, il terzo tentativo andrà a segno: una mela avvelenata verrà mangiata da Biancaneve che cadrà in catalessi tanto profondamente da farla apparire morta. E così i Nani si preparano a seppellirla; però il tempo passa e lei è sempre tanto bella… sarà anche per via della triade cromatica, nero bianco e rosso, che individua le varie fasi dell’Opera alchemica? Chissà.

E così, affinché la terra bruna non reclami quel corpo in animazione sospesa, viene costruita questa meravigliosa teca di cristallo che permetterà di vegliare la bella ragazza, se necessario sino al risveglio. Il suo sacello è dunque un manufatto che certamente ha del magico: non è facile tenere insieme delle lastre di cristallo e farle rimanere così trasparenti ed ermetiche per «tanto tanto tempo», come ci dice la favola del sonno di Biancaneve.

Ma chi l’ha costruita questa meraviglia? E come? Certamente sono stati i Nani: i Sette Nani amici e protettori di Biancaneve; abili artigiani e minatori, conoscitori degli antichi segreti che giacciono nella profondità della terra, scavatori di gemme preziose, sono anche fabbri provetti, signori incontrastati della metallurgia e soffiatori di vetro, dominatori del fuoco che plasma i metalli e ne fonde insieme le parti.

Ma chi sono veramente i Sette Nani, da dove vengono? Sappiamo bene che Walt Disney era un visionario che traeva le sue creature dalla letteratura per ragazzi ma, al tempo stesso, la sua appartenenza massonica ne facevano di fatto un iniziato a contatto con molti degli aspetti della Tradizione. Ancora si narra della sua ibernazione nelle viscere di Disneyland in attesa del risveglio (come Biancaneve e la Bella nel bosco addormentato?).

Per questo, se alcuni dei suoi personaggi sono rivisitazioni di protagonisti delle favole classiche, Peter Pan con la sua ninfa Wendy, la Bella nel bosco addormentato (questo è il titolo originario) e Biancaneve appunto, altrettanti deuteragonisti sono invece scelti perché vengono da molto più lontano, perché il loro essere emana ancora l’aura delle origini, del divino. E spesso questa deriva dalla Grecia arcaica sospesa tra mito e magia: è il caso dei nostri Sette Nani.

Lasciando da parte le evidenze numerologiche legate al sette, sulle quali non ci addentriamo perché sin troppo palesi , cerchiamo invece di risalire ai loro antenati, ai loro ascendenti mitologici: se ne studiamo le caratteristiche arriviamo chiaramente a collocarli all’interno della cosmologia della Grecia omerica.



I Telchini di Rodi

Loro sono, infatti, la trasposizione moderna, colorata e gioiosa, degli assistenti di Efeso, il dio fabbro che forniva agli dei gli strumenti del potere o delle loro gesta. Sono i Telchini di Rodi, esseri che la mitografia ci descrive come naniformi, dalle fattezze deformi, come del resto lo era il loro padrone e mentore, capaci di fulminare con lo sguardo o «gettare il malocchio» su quanti si opponevano al loro volere, ma anche di produrre, agli ordini di Efeso, dei manufatti unici e favolosi, dotati di una potenza magica ineguagliabile persino dagli dei stessi.

La loro nascita è antichissima: avrebbero addirittura inventato la falce usata da Crono per evirare il padre Urano, forgiato il primo tridente di Poseidone, ci narrano Diodoro Siculo e Svetonio (Περὶ βλασφημιῶν 4, 49). Si tramanda che in origine, prima di diventare sette, fossero tre, chiamati Oro, Argento e Bronzo, in ricordo del materiale scoperto da ciascuno e che furono infine disarmati dalla pioggia di Zeus o dalle frecce di Apollo.

Una prima ricostruzione etimologica del loro nome viene da Svetonio, che tramanda un altro appellativo diffuso per indicare queste creature, Thelgines, che deriverebbe dal verbo greco θέλγω, “incantare, ammaliare”, con riferimento alla loro natura stregonesca. In effetti si è evidenziato lo stretto legame esistente tra i Telchini e le Sirene, altre creature magiche e pericolose. (Cfr. D. Musti, I Telchini, le Sirene. Immaginario mediterraneo e letteratura da Omero a Callimaco al romanticismo europeo, Pisa 1999).

Ma i loro manufatti magici di eccezionale valore e potenza non si limitano certo al tridente di Poseidone o al falcetto che evirò Urano, dal cui membro caduto nelle acque, non lo scordiamo, nacque in seguito Afrodite, dato che afros significa non solo spuma ma anche sperma. E allora vediamone alcuni.


Demetra e Atena

Il mito narra che Demetra donò a Trittolemo, figlio di Celeo re di Eleusi, il segreto del grano per fare il pane, così come Dioniso diede a Icario quello del vino. Ma Atena, la dea guerriera, nata già in armi dalla testa del Padre Zeus, non volle essere da meno ed insegnò all’umanità come arare la terra con l’aratro per rendere il chicco di grano fecondo.

Atena dunque – dea della saggezza e patrona degli eroi guerrieri ma non della guerra, governata dall’ottuso e brutale Ares – domanda ad Efeso di forgiare il primo aratro. E così il fabbro divino inventa lo strumento col quale ella potrà donare agli agricoltori la prima e basilare tecnologia per dominare i prodotti della terra.

Ma, narra Servio nel suo Commentario dell’Eneide, che in Attica viveva un tempo una fanciulla di nome Murmix. Atena la teneva in grande amicizia perché era vergine come lei ed aveva una grande abilità manuale. Ma un giorno l’amicizia cedette il posto all’odio, come spesso accade nelle relazioni ineguali tra dei e uomini. Ecco perché: Murmix, che era al corrente dell’invenzione di Atena, l’aratro, ebbe l’audacia di rubarne il manico e si recò presso gli uomini dichiarando che esso era il pezzo mancante che avrebbe permesso loro di coltivare con perizia la terra.

La vendetta di Atena non si fece attendere: i Telchini si incaricarono di recuperare il manico e di fissarlo nuovamente all’aratro, mentre Murmix veniva trasformata in formica, condannata a vivere rubando di quando in quando un chicco di grano.

Atena deve dunque questo ruolo di «divinità tecnologica» ad Efeso ed ai suoi assistenti Nani ma, come sappiamo, in realtà deve loro molto di più: la sua stessa nascita.

La sua genesi, infatti, è tutta legata all’abilità di Efeso, anche se la relazione tra le due divinità non viene abbastanza illuminata di quella luce mitologica che, invece, tanto potrebbe ancora insegnarci. La dea è figlia di Zeus e della sua prima moglie Metis, una Titanide nata da Oceano e Teti. Metis è la divinità dell’intelligenza accorta, dell’astuzia, della capacità di valutare a colpo d’occhio una situazione, della strategia bellica. Sul piano umano l’eroe della metis è indubbiamente Ulisse, non a caso sempre protetto ed aiutato da Atena.

E così quando Metis resta in cinta di Zeus egli, ci racconta Esiodo nella sua Teogonia, semplicemente la inghiotte, perché?

Ebbene il futuro re degli dei sapeva bene che la stessa sorte che lui aveva inflitto al padre Crono poteva toccare a lui se gli fosse nato un erede abbastanza intelligente, astuto e indipendente da prendere il suo posto. Decide così di assimilare la dea dell’astuzia e di partorirne personalmente la figlia, legandola così a sé. Atena, infatti, sarà sempre legatissima al padre, arrivando a disprezzare le donne comuni ed anche le altre divinità femminili.

Ma chi farà “partorire” Zeus? Sarà appunto Efeso, forgiando prima di tutto una particolare ascia di bronzo e poi utilizzandola a colpo sicuro per spaccare in due la testa del cronide per farne uscire la figlia. Anche in questa occasione chirurgico ostetrica, saranno i suoi Nani a cercare i metalli nelle viscere della terra per creare uno strumento così potente, si badi bene, da fessurare il cranio del re degli dei.

Se pensiamo, allora, non solo a quanta abilità tecnica ci vuole per un manufatto del genere, ma a quanta potenza magica, superiore finanche alla forza divina, per farlo funzionare, capiamo che le figure “minori” che si muovono sullo sfondo delle narrazioni spesso rappresentano in realtà le Potenza archetipiche che rendono perenne la mitologia stessa.

Avrebbe trionfato Achille, pur nella sua fine tragica, come eroe indiscusso dell’Iliade, senza le famose armi? Cosa sarebbe stata la mitica figura se la madre Teti non fosse andata da Efeso a chiedergli di forgiarle? E senza i Nani dove avrebbe preso il metallo la particolare tonalità lucente che lo ha reso terribile, se questi non avessero infuso in esso la loro sapienza magica?

Si dice che le armi di Achille gettassero uno «sguardo penetrante» sui nemici; ebbene chi ha dato questo sguardo alle bronzee ermi del pelide se non i Telchini che possedevano il potere dello sguardo incantatore?

Tutto ciò deve farci riflettere su come la mitologia possa essere riletta, perché la nostra interpretazione è ancora decisamente superficiale, legata agli effetti ma lontana dall’indagare gli archetipi che li hanno determinati.


Bellerofonte e Pegaso

Un altro eroe che non avrebbe potuto compiere la sua impresa senza i Telchini è Bellerofonte. Sappiamo che il suo scopo era combattere ed annientare la Chimera, il mitico animale dalle diverse nature.

«Era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l’eroe la spense» (Iliade, VI, 180-184).

Sappiamo che il mostro devastava il territorio di Patara e che il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderlo.

Ora solo l’aiuto di una animale possente ed indomabile poteva aiutare l’eroe nell’impresa: il cavallo alato Pegaso. Nato dal sangue della Gorgona Medusa, il cui capo era stato mozzato da Perseo, il mitico destriero non si faceva imbrigliare da nessuno.

E allora, ancora una volta, entrano in gioco i Telchini, i Nani magici che diventeranno poi i protettori di Biancaneve. Sono loro, infatti, a fornire ad Atena il morso dorato che permetterà a Bellerofonte di governare la sua cavalcatura e portare a compimento l’impresa.

Senza il magico morso da loro forgiato nessuno avrebbe potuto costringere il cavallo alato ad essere cavalcato e guidato.

E qui entra in gioco un altro particolare della storia di questi Nani assistenti di Efeso, e cioè il loro aspetto fisico. Abbiamo detto che sono naniformi e che somigliano anche in parte al loro padrone, che notoriamente aveva i piedi storti per via della caduta dall’Olimpo. Ma la deformità, specie se mitologica, ha sempre un significato emblematico ed a volte ambivalente; in questo caso la capacità dei Telchini di poter frequentare gli abissi marini in quanto metamorfici e dunque, all’occorrenza, dotati di pinne e chele.

Qui il parallelo tra i Nani di Biancaneve, Efeso ed i Telchini si arricchisce di interessanti particolari. Ad un certo punto della favola raccolta dai Fratelli Grimm, in una delle sue tante versioni, si descrivono i Nani come uniti ai loro strumenti di lavoro da un legame particolare, quasi simbiotico, come se questi fossero «prolungamenti dei loro stessi arti».

Ebbene i Telchini – ci dice H. Herter che nel suo splendido libro monografico Telchinen riporta l’opinione di Diodoro siculo e di Nonno di Panopoli nelle Dionisiache – hanno alla bisogna sia pinne per immergersi in mare, come le foche, o addirittura vere e proprie chele come i granchi, che consentono loro sia di scendere nelle profondità marine sia di estrarne materiale che si trova solo nelle caverne subacquee. Queste loro caratteristiche, dunque, al di là della deformità, come i Sette Nani di Biancaneve, li rendono però speciali e specificamente adatti a compiere lavori altrimenti impossibili.

Non dimentichiamoci che anche Efeso era descritto con i «piedi da granchio» cioè storti kullopodÍon.

Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nella Grecia antica, i granchi venivano stimati in grandissima considerazione, specie a Rodi, dato che essi venivano ritenuti quelli che ancoravano l‘isola al fondale marino. A Lemno, invece, altra isola, l’epiteto karkÍnon indicava sia la chela del granchio sia le tenaglie del fabbro, chiudendo così in cerchio analogico tra i Telchini ed Efeso.

Altro particolare mitologico interessante, diremmo quasi lamarckiano, cioè dove è l’organo a fare la funzione, i piedi del fabbro erano adattissimi, per questa loro deformazione granchiforme, a muoversi di lato così da consentirgli di passare da un mantice all’altro velocemente. Anche in tedesco esiste l’espressione krebsgang, usata da Hegel, che significa appunto camminare di lato come un granchio.



Le scarpe della matrigna

Biancaneve. La sua bara trasparente, ad un certo punto, si aprirà dopo una caduta, senza rompersi, e la bella ragazza verrà liberata dalla mela avvelenata che le era rimasta nella gola. Ancora una volta l’abilità dei Nani si rivela fondamentale anche perché, non lo dimentichiamo, l’avevano già salvata altre due volte, sempre mercé le loro arti magiche.

Ma il ruolo metallurgico, ed a questo punto anche vendicativo dei Nani-Telchini, non finisce certo con il risveglio di Biancaneve. Ed infatti sappiamo come finisce la fiaba, almeno nelle versioni originali raccolte dai Grimm: la matrigna cattiva è costretta ad indossare per il ballo del matrimonio un paio di scarpe arroventate che la costringono a ballare sino a che non cadrà morta in terra… indovinate un poco chi le ha forgiate?

Il manifesto – 4 marzo 2017