TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 26 gennaio 2020

Il dovere di scegliere da che parte stare



Nel 1933 nella Germania di Weimar la sinistra si presentò divisa alle elezioni. Per i comunisti il principale nemico non erano i nazisti ma i socialdemocratici. Una lezione che ancora oggi non è stata assimilata da una sinistra parolaia e massimalista, capace di grandi proclami, ma di scarso realismo politico.

Il dovere di scegliere da che parte stare

Norma Rangeri

Il voto utile è spesso un ricatto, un forte limite alle scelte libere di chi vuole essere presente nelle istituzioni e viene condizionato, nel diritto alla rappresentanza, dalle decisioni politiche altrui. A volte però diventa necessario. Perchè può essere davvero determinante non solo per evitare una sconfitta, ma soprattutto per non “regalare” un territorio, una storia, a chi è non un avversario ma un nemico pericoloso: per i cittadini, per i diritti civili e sociali, per la cultura e la democrazia. Per il paese tutto.
Quel che è stato fatto e detto – dalle posizioni ostili sull’immigrazione alle decisioni contro le Ong, dal rifiuto delle diversità all’odio scatenato via web, dalle strumentalizzazioni dei bambini allo squadrismo del citofono – incarna il promemoria di quel che Salvini, Meloni e Berlusconi (si, ancora lui) potrebbero scatenare nella società e nelle istituzioni.
Per questo l’utile diventa doveroso. E oggi chi vive in Emilia-Romagna e appartiene al mondo democratico ha il dovere di non consegnare la Regione alla peggiore destra della Storia italiana. In ballo non c’è soltanto la presidenza regionale, ma il governo nazionale, non si discute di buona o cattiva amministrazione, gestita da decenni dal centro sinistra, ma il futuro, il cambiamento, la convivenza civile. Dentro il voto c’è poi il senso di appartenenza ad una società che ha spesso interpretato la parte più avanzata della comunità nazionale. Possiamo dire che in Emilia-Romagna vive un forte sentimento popolare, diffuso, radicato, profondo. La più chiara espressione di questo “vivere sociale” l’ha manifestata il movimento delle Sardine, che ha raccolto intorno a sé la migliore gioventù e le generazioni over 60 che hanno sempre scelto come “campo politico” quello democratico.
Grande sarebbe la responsabilità che ricadrebbe dunque sui 5Stelle – e sulle minoranze di sinistra/sinistra – se le destre dovessero prevalere a causa di una volontà di autoaffermazione, di un presenzialismo distruttivo, della miopia politica di chi pensa che Bonaccini e Borgonzoni pari sono. Sarebbe perciò imperdonabile negare il voto disgiunto, che appunto consente di essere fedeli al proprio partito ma non ciechi di fronte alle possibili conseguenze che potrebbe determinare una manciata di voti.
Lo stesso ragionamento vale anche per la Calabria, dove si sfidano Pippo Callipo, un candidato civico largamente stimato, e Jole Santelli, una berlusconiana ripescata: girarsi dall’altra parte, oltretutto in una terra sfigurata dalla n’drangheta, dove i magistrati vivono sotto scorta, sarebbe un drammatico errore.
Tutto questo non cancella le responsabilità delle amministrazioni regionali a guida Pd. Come appunto dimostrano la crisi calabrese e la recente, storica sconfitta in Umbria. Perchè nel campo democratico c’è una questione morale, sono troppi gli errori gestionali, manca una prospettiva di reale cambiamento, prevalgono ancora le lotte di potere, scarseggia una politica di forte difesa dei diritti sociali e dell’ambiente. Ma oggi la partita è diversa, se non si vuole trasformare l’Italia in un grande Papeete al ritmo del Bunga-Bunga.

il Manifesto, 26 gennaio 2020

200 mila massoni vittime di Hitler




Una pagina sconosciuta della Shoah

I 200MILA MASSONI VITTIME DI HITLER


Un triangolo rosso rovesciato: era questo il simbolo che distingueva i massoni, al pari dei detenuti politici, internati nei lager nazisti, così come la stella gialla di David distingueva gli ebrei, così come un triangolo rosa distingueva gli omosessuali, un triangolo marrone gli zingari, un triangolo viola i testimoni di Geova e così via.
Oltre al triangolo imposto dai carcerieri nazisti, i massoni progionieri dei lager per riconoscersi ancor meglio fra di loro portavano sulla propria divisa da internati politici un altro simbolo distintivo: un piccolo fiore azzurro, il “non-ti-scordar-di-me”, simbolo caro alla Massoneria Universale.
Nel giorno della memoria (il 27 Gennaio, giorno dell’arrivo dei russi nel lager di Auschwitz) non sono quindi solo le vittime della Shoah a dover essere ricordate, ma anche i tantissimi massoni (spesso combacianti con le vittime ebree) “passati per il camino” nei campi di concentramento nazisti.
Nella triste classificazione dell’olocausto nazista pare siano stati fra gli 80.000 ed i 200.000 i massoni uccisi nei lager.
Dagli archivi della Gran Loggia d’Inghilterra si apprende, infatti, da prove documentali, che esistevano appositi protocolli nazisti per la sistematica cattura e l’eliminazione di tutti i massoni dei paesi conquistati dal Terzo Reich.
Hitler pensava alla massoneria come ad un inconciliabile nemico del regime nazista. E come tali trattava i suoi membri. La riprova che i fratelli erano, sono sempre stati e saranno, strenui difensori della Libertà contro ogni totalitarismo.
“Ogni qualvolta la mente di un uomo va all’Olocausto – ha detto il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi – non si può che rimanere sgomenti e angosciati per l’immane crimine commesso contro il popolo ebraico, contro uomini e donne di tutta Europa, contro la Vita. La Shoah è una ferita indelebile per l’Umanità. E tutti quanti noi oltre a ricordare la memoria dei milioni di innocenti dobbiamo batterci per impedire che quei fatti possano ripetersi quando le minacciose tenebre dell’odio hanno il sopravvento sulla luce della ragione. Primo Levi scrisse: “E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”. Noi massoni, uomini della tolleranza, del rispetto, del dialogo, sappiamo bene che nel preciso momento in cui si guarda allo straniero, al diverso da noi, con ostilità si pongono le premesse di nuovi muri, di nuovi fili spinati, di nuovi Lager che l’Umanità non può permettersi mentre vive un momento storico aggravato dalla follia del terrorismo fondamentalista islamico”.

Le cifre dell’Olocausto
Ebrei 5,9 milioni
Prigionieri di guerra sovietici 2–3 milioni
Polacchi non Ebrei 1,8–2 milioni
Rom e Sinti 220.000-500.000
Disabili e Pentecostali 200.000–250.000
Massoni 80.000–200.000
Omosessuali 5.000–15.000
Testimoni di Geova 2.500–5.000
Dissidenti politici 1-1,5 milioni
Slavi 1-2,5 milioni
Totale 12,25 – 17,37 milioni 



Nicla Vassallo, Parlare futuro


mercoledì 22 gennaio 2020

Guy Debord, il preveggente


domenica 19 gennaio 2020

sabato 18 gennaio 2020

Azione Comunista. Da Seniga a Cervetto (1954-1966)


Arturo Reghini, pitagorico




Un maestro del pensiero tradizionale, grande matematico antifascista che in polemica con il regime scelse Budrio come volontario autoconfino.

Raffaele K. Salinari

Arturo Reghini, pitagorico


Se si visitasse il cimitero della Pieve di Budrio si noterebbe, nell’estremo lato sinistro della prima galleria, una piccola lapide con simboli decisamente eccentrici rispetto alla tradizione cattolica: un pentalfa in ottone, una Tetraktis, una squadra con compasso. È il loculo che contiene i resti mortali di Arturo Reghini, «pitagorico e latomista insigne», come recita la scritta che i «sodales» del grande matematico ancora oggi curano con impegno e dedizione verso questa figura centrale nel panorama esoterico italiano, e non solo. Ma cosa lega questo antifascista che scelse Budrio come luogo del suo confino volontario, alla piccola città nota soprattutto per le sue ocarine? Un filo sottile ma tenace come quello della tradizione pitagorica, che cercheremo di ricostruire chiamando a testimoni personaggi di quella vera e propria epopea simbolica che fu Carosello.

SUSANNA TUTTAPANNA

Alcuni di questi, infatti, avevano una carica mitico-archetipica evidente: basti pensare ad Ulisse e la sua ombra per il caffè Hag che sembra uscito da un saggio di Jung sull’alchimia, o alla proteiforme Linea della Lagostina, epigono del mitico Proteo dalle molte forme che tutto conosce. Gli esempi si possono moltiplicare all’indefinito, ma ci fermiamo qui; i lettori ricostruiranno a loro piacimento le genealogie che hanno ispirato altri personaggi: dall’erculea figura dello scolpitore della scritta Plasmon, all’edipica «bella dolce cara mammina» del miele Ambrosoli . Tra questi, una figura per certi versi iconica, portatrice di un refrain che condensava tutta una visione del mondo fatta di stupore infantile ed irrefrenabile joie de vivre, era certamente Susanna Tuttapanna col suo pitupitum-paa! Ora le sue apparizioni, poche in realtà, solo quindici tra il ‘66 ed il ’67, avevano tutte lo stesso incipit: «Ehi! Ehi! Ciao… mi vedi? Senti… ti piaccio disegnata così? Sai, ti voglio bene… ma tu sei di là da questo vetro e io non posso uscire dal televisore… il regista non vuole. E poi… io non sono come te… sono solo un piccolo disegno! Pitupitum – paa! Sai, qui alla televisione sono di casa e… faccio un po’ di tutto! Pascolo le pecorelle dell’intervallo, accudisco l’uccellino della radio… faccio Carosello… oh, scusa, non mi sono presentata: sono Susanna… Susanna Tuttapanna! Qui alla Rai Tv mi chiamano tutti così perché vado matta per il formaggino Milione alla panna, il fior fiore dei formaggini! Pitupitum – paa!». Ecco, allora, la citazione di un altro protagonista del passato, molto più vecchio di Susanna e per certi versi, lo vedremo, ancora più iconico: l’uccellino della radio.

L’UCCELLINO DELLA RADIO E L’OCARINA DI BUDRIO

Molti tra i lettori ricorderanno quel dolce cinguettio che si udiva con regolarità nelle pause di programmazione in onde corte, oggi spente, tra una trasmissione e l’altra; era appunto il corrispettivo radiofonico degli «intervallo» televisivi con le pecorelle – quando ancora c’era il bianco e nero ed un solo canale – pascolate da Susanna. Nell’immaginazione di molti di noi vi era la figura di questo passerotto ingabbiato e costretto a ripetere il canto della sua pena da prigioniero per segnalare il passaggio ad un’altra emissione. In realtà il suono era generato da una piccolo ma ingegnoso congegno meccanico, costruito negli anni ‘30 come una sorta di orologio a cucù caricato a molla e composto da piccoli mantici, che emettevano una melodia simile a quella naturale. Ancora oggi è possibile ascoltarlo in versione ridotta, e cioè solamente in una delle quattro sequenze originali di cinguettii, dalla rete di Radio 1 nelle pause precedenti l’emissione dei Giornali Radio Regionali. Ora, però, bisogna anche dire che l’apparecchio era stato concepito come riproduzione sì di un suono naturale, ma non originariamente quello del canto di un usignolo, bensì di un particolare strumento a fiato: l’ocarina.

Il nome deriva dalla sua forma che rimanda all’immagine di una piccola oca senza testa, e fa parte della categoria dei cosiddetti aerofoni, come il flauto per intenderci, strumenti dunque molto antichi e diffusi, ma con una caratteristica originale rispetto agli altri tipi di flauto: la camera di risonanza tondeggiante e chiusa in cui è l’intera massa d’aria a vibrare. Dal punto di vista fisico sfrutta l’effetto di risonanza studiato da Helmholtz, cioè la capacità di un tubo chiuso nel quale l’aria vibra, di produrre onde sonore: in sintesi l’effetto che si utilizza quando si soffia in una bottiglia.

L’ocarina venne inventata da Giuseppe Donati, a Budrio, nel 1853. Vale la pena, a questo punto, riportare la sua descrizione come apparve ad un giornalista dei primi del ’900: «Egli sembrava uno dei vecchi misteriosi, leggendari, che cercano l’elisir per vivere in eterno: con una grande veste da camera avvolta intorno al corpo ossuto e lungo, ed una berretta frigia in capo. La veste era antica come lui, tinta di colori oscuri, vari, indeterminati. E il suo volto era avvivato dagli occhi lustri, mobili, acuti; dal candore e dalle fluidità della barba; dalla sua espressione arguta, petroniana… Invece di filtri aveva intorno ocarine, pinzette, stampi, blocchi di creta. Lavorava come avesse avuto diciotto anni: finiva come aveva cominciato». In sintesi la descrizione di un alchimista, con tanto di berretto frigio. Per concludere sull’ocarina ricordiamo, per la gioia dei fans di Capitan Harlock, che egli realizza un’ocarina e la regala alla sua protetta, la bambina Mayu. Ma è forse nel mondo videoludico che questo strumento musicale esprime la sua aura magica: in The Legend of Zelda: Ocarina of Time, il protagonista Link, suonandola, acquisisce il potere di viaggiare nel tempo, alterare le condizioni climatiche o di teletrasportarsi, intonando diverse melodie.

IL FLAUTO DI PAN E IL RE DEL MONDO

Abbiamo detto che l’ocarina è un risuonatore di Helmholtz, esattamente come il flauto di Pan che il mitico Pitagora studiò per ricavarne la sua teoria musicale basata sulla Tetraktis , cioè il «quattro al triangolo», simbolo composto da un triangolo il cui vertice è un punto e la cui base è formata da quattro, passando dal due e dal tre, la cui somma fa dieci. Il dieci era, per i pitagorici, il numero più sacro, il numero dell’universo stesso poiché somma dei numeri rappresentanti tutte le dimensioni: l’1, l’Unicità, il Principio creatore universale, il 2 le polarità in cui esso si divide per dar luogo alla creazione (il numero della materia dirà Reghini), il 3, l’armonia derivante dalla congiunzione dei contrari, ed infine il 4 come rappresentazione della spazialità. Sono esattamente gli stessi numeri che si ritrovano nei rapporti degli intervalli musicali nel flauto di Pan o nell’ocarina, strumenti dunque eminentemente pitagorici, che la Tetraktis simboleggia pienamente: quella stessa inscritta sull’originale tomba della Pieve.

Chi era dunque Arturo Reghini e perché scelse proprio Budrio per il suo esilio volontario? Era nato a Firenze il 12 novembre del 1878 e morì a Budrio il 1º luglio del 1946. Chi ascolta la famosa canzone di Franco Battiato Il Re del Mondo, forse non sa che la prima traduzione di questo fondamentale testo esoterico di René Guénon fu fatta proprio da lui, non a caso citato più volte dall’autore francese in moltissimi dei suoi testi. Per capirne il contributo allo studio della Tradizione esoterica attraverso la riflessione sui numeri pitagorici, basterebbe dire che uno de suoi studi, oggi finalmente ripubblicati, si trova postulata l’esistenza di un elemento naturale all’epoca totalmente sconosciuto, che Reghini aveva previsto solo sulla base delle coerenze matematiche tra struttura della materia e teoria dei numeri pitagorici. Nel capitolo titolato Tetraktis e struttura molecolare di alcuni corpi, infatti, egli afferma testualmente: «Aggiungiamo a questo proposito che i numeri della Tetraktis compaiono anche in fisica atomica e precisamente nella legge numerica che presiede ai rivestimenti nucleari nella costruzione degli atomi. Ordinando gli elementi chimici secondo le leggi di Mendelejeff e di Moseley ed incolonnandoli secondo la somiglianza del loro comportamento chimico, la prima colonna viene occupata dai cosiddetti gas rari, l’elio, il neon, l’argon, il kripton, lo xenon, ed il radon. Ora il numero di elettroni che contornano il nucleo atomico di questi gas nell’ordine sopra descritto, che è il loro ordine naturale a seconda del peso atomico e del numero atomico si ottiene moltiplicando il due (il numero della materia), per i quadrati di 1,2,3,4, cioè i numeri della Tetraktis pitagorica». Ebbene, in coerenza con queste osservazioni, ma solo nel 2006, è stato scoperto un ennesimo gas raro, l’Oganessio, elemento con numero atomico 118, come Regini aveva previsto per completare la serie pitagorica.


AL CONFINO VOLONTARIO A BUDRIO

Ma Reghini era soprattutto un libero pensatore, un Libero Muratore molto impegnato nel dibattito pubblico sulle libertà, specie negli anni ’20 del secolo scorso, quando già le ombre del Fascismo si addensavano sull’Italia. Sono questi gli anni del suo impegno teoretico più intenso: fonda ed anima varie riviste di studi sulla tradizione esoterica in generale e su quella italica in particolare, basti ricordare i suoi interventi su Atanór fondata nel 1924, o le riflessioni comparse su Ignis dal 1925 al 1929, ed infine, estremo tentativo di mantenere aperte le porte del libero pensiero, la rivista UR che esce sino al 1928, con i contributi di studioso del calibro di Giovanni Colazza e Giulio Parise. Sono anni difficili per i cultori della Tradizione, tempi che aprono contraddizioni laceranti anche all’interno stesso dei suoi iniziati; basti pensare che Julius Evola, tra i tanti che pensarono di poter dominare le forze della reazione a fini palingenetici, mostrando così di ignorare i fondamentali della ricerca spirituale, tenterà di fare incriminare Reghini per affiliazione massonica (affiliazione che costituiva reato dopo l’imposizione di scioglimento delle «associazioni segrete» decretata dal regime fascista nel 1925).

Come non ricordare, allora anche l’appassionato discorso di Gramsci, che certo massone non era, in difesa della libertà di parola e di associazione, proprio partendo dal rigetto di queste leggi liberticide? È allora per via del condizionamento repressivo fascista vòlto all’emarginazione di tanti esponenti dell’esoterismo italiano proprio perché portatori di quei valori universali che il regime tanto avversava, che Reghini, ormai isolato, si ritira in una sorta di confino autoimposto, prima che questo atto diventasse ufficiale, proprio a Budrio, dove negli ultimi anni di vita si dedica all’insegnamento nell’istituto Quirico Filopanti, ma soprattutto alla meditazione, in chiave pitagorica, delle scienze matematiche.

IL MAGO DI FIRENZE

Vogliamo però concludere questo breve excursus con le parole di sua nipote Lidia Reghini di Pontremoli, che ci ha gentilmente concesso di pubblicarle come ricordo personale dello zio. «Gente strana, fuori dalle righe i Reghini, ognuno rapito dalle proprie ossessioni, come zio Arturo, fratello di mio nonno. Non feci a tempo a conoscerlo ma negli anni ho raccolto dalla voce di chi gli fu vicino, racconti e testimonianze. Nel tempo ho ricucito una trama di avvenimenti, frequentazioni che hanno confermato la tenuta di quel che poteva apparire la leggenda un po’ tronfia d’un intima esegesi familiare fatalmente affidata all’inattendibilità di un racconto orale. Ambienti e situazioni fiorentine dove la casa di via dei Federighi abitata da Arturo diveniva tutt’uno con gli ambienti e i personaggi che ruotavano attorno al ‘Leonardo’, “rivista d’idee” nella sua storica sede di Palazzo Davanzati o del Caffè delle Giubbe Rosse: l’amico Papini ricorda l’appassionato giocatore di scacchi sui tavolini delle Giubbe Rosse, il più grande mago che Firenze abbia mai conosciuto.

Le parole di Papini confermano il racconto familiare di come Arturo, all’interno del Caffè delle Giubbe Rosse, si divertisse con la forza del pensiero a far saltare i cappelli degli astanti. Anche uno studioso come Augusto Hermet che lo frequentò attorno al 1903 nella Biblioteca Teosofica, ricorda «la presenza di un giovane matematico, mistico e mago. Era Arturo Reghini». Arturo e il suo dono dell’ubiquità. Sicuramente non mentiva il fratello di mio padre, generale, uomo d’armi notoriamente tutto d’un pezzo, che ricordava quando, da bambino, vide Arturo sia in giardino che nello studio; e chiedendo il perché Arturo gli rispose che ancora quelle cose non poteva capirle, ma che un giorno le avrebbe comprese. Poi i racconti di mia nonna paterna, cognata di Arturo, che l’aveva frequentato a lungo: ne parlava come di un essere dalle sembianze anomale, costretto a farsi abiti e scarpe su misura per via della sua eccessiva altezza che sfiorava quasi i due metri; raccontava di come dovesse chinarsi ogni volta per oltrepassare una porta. Arturo, grande matematico, tutti in famiglia ricordavano con stupore i suoi i calcoli fatti a mente sulla geometria post-euclidea. Oggi dei giovani matematici hanno controllato al computer i calcoli fatti da zio Arturo scoprendo che i risultati sono esatti.

Ma anche zio Arturo solitario profeta poliglotta, vicino negli ultimi anni ad una signorina inglese, forse un’adepta della Golden Dawn. Di tutto questo è rimasto ben poco: ho conservati la poltrona dove riposava Arturo e anche un libro che ho rapito alle casse, ai vecchi archivi destinati ai robivecchi. D’altra parte chi si sarebbe ricordato di quel vecchio libro? Chi avrebbe saputo dargli il giusto valore? Soltanto mio padre sapeva e riconosceva l’importanza simbolica di quel libro, Il Crepuscolo dei Filosofi regalato dal suo autore, Giovanni Papini all’amico Arturo al suo ingresso nella Loggia fiorentina ‘Lucifero’ nel 1907. Nel frontespizio una dedica ad inchiostro, scolorito dal tempo, «Al nuovo fratello Arturo Reghini il suo G Papini». Ed infine zio Arturo eremita, segregato dal regime a Budrio dove insegnava in una scuola media. Arturo che prima di morire, allungando una mano su un mobiletto vicino al letto lasciò, al momento del trapasso, marchiata sul legno l’impronta combusta della sua mano. Esistono racconti sulla sua morte come quelli dell’amico Giulio Parise: «Il segno era apparso. Arturo Reghini si volse al Sole declinante per l’ultimo saluto, per l’ultimo rito; poi si appoggiò con la mano destra al vicino scaffale, piegò la gigantesca statura verso la Grande Madre, eretto il busto e fu libero».

Il Manifesto/Alias - 18 gennaio 2020

venerdì 17 gennaio 2020

Azione Comunista quei dissidenti che sfidavano il PCI


Recensione apparsa oggi sulle pagine culturali del supplemento ligure de La repubblica.

mercoledì 15 gennaio 2020

"Il rosso non è il nero"


Conoscere e sostenere le lotte dei lavoratori della logistica. A proposito dell'ultimo film di Ken Loach



 Il bel film di Ken Loach, "Sorry we have missed you", sulle condizioni di lavoro (e di vita) dei lavoratori della logistica è stato seguito dalla proposta (idiota) di boicottare le aziende che sfruttano il personale non acquistando più prodotti on line. La cosa ha suscitato, come era naturale, una vasta adesione sull'ondata emotiva provocata da un film che è un vero e proprio pugno nello stomaco. Ora, a parte il fatto che ogni aspetto della vita quotidiana che abbia a che fare con la merce si basa su forme più o meno intense di sfruttamento, pensiamo che non di risposte emotive e moralistiche ci sia bisogno, ma di strumenti per comprendere (dato che i giornali con l'eccezione de il Manifesto non ne parlano) i motivi della dura lotta che i lavoratori della logistica stanno conducendo da anni per migliori condizioni di lavoro, aumenti di salario e rispetto dei diritti sindacali sui luoghi di lavoro. Lotte per le quali attualmente centinaia di lavoratori sono sotto processo e rischiano pesanti condanne in base alle nuove norme (anche queste sconosciute ai più) sulla sicurezza introdotte dal governo M5S-Lega e mantenute dal nuovo governo M5S-PD, che prevedono anni di carcere per un semplice picchettaggio o blocco di un cancello di un'azienda. Conoscere le lotte dei lavoratori e sostenerle, questa sola può essere la risposta allo sfruttamento bestiale dei lavoratori della logistica.
(Le immagini non fanno parte dell'articolo, ma illustrano le lotte  in corso)



Marta e Simone Fana

Il mondo della logistica gioca al ribasso sui diritti dei lavoratori

La morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, operaio della ditta di logistica Gls ucciso da un camion della stessa azienda durante un picchetto, dovrebbe far emergere definitivamente la questione di un modello produttivo pensato al massimo ribasso dei diritti. Sebbene la notizia sia ormai stata derubricata dai giornali e la procura di Piacenza abbia imposto sull’accaduto una ricostruzione di dubbia credibilità, i fatti ci riportano a considerazioni più generali.
Le cause di questa morte vanno rintracciate in un conflitto che vive in un nuovo modello dell’organizzazione industriale e della sua filiera, dalla produzione al consumo. Provare a mettere in ordine questi argomenti è un esercizio che conduce alla complessità delle dinamiche sociali.
In un’economia funzionale al consumo e all’ibridazione tra consumo e produzione, la logistica ha un ruolo semplice: è interpretata come mero tassello utile alla fruizione del consumo stesso, che va assicurato a ogni costo. Ordino un prodotto online, deve arrivarmi il prima possibile.



L’unica cosa che conta

Nel processo produttivo – quello che va dalla produzione fisica alla vendita al dettaglio – la logistica è quel settore intermedio che consente il passaggio dei beni dai magazzini al negozio oppure, ormai sempre più di frequente, direttamente nelle nostre case. Nell’epoca dei feedback, della tracciabilità e delle promozioni sui costi di spedizione, è necessario che tutto sia puntuale, che la merce giunga a destinazione in modo efficiente, così da rendere il cliente soddisfatto delle sue scelte di acquisto. Questo vuole l’azienda che vende; perché questo massimizzerà la fiducia dei clienti permettendo di aumentare nel tempo le vendite, quindi gli utili.
L’unica cosa che conta sono i risultati, non come questi siano stati raggiunti. Si definisce così una netta separazione tra l’individuo consumatore e la società. Il consumatore vuole consumare e risparmiare: l’acquisto in tre click e il fattorino che bussa alla porta di casa. Il processo che intercorre tra questi due momenti è appunto utile alla soddisfazione privata.
Non è un caso che risulti secondario, se non del tutto indifferente, per il consumatore, in che modo i piccoli venditori e i grandi colossi del commercio siano in grado di praticare costi di spedizione minimi o addirittura nulli. Raramente si entra in contatto con un operatore della logistica, che sia un facchino, un magazziniere o un autotrasportatore.
Sotto la retorica della modernità edonistica, del “direttamente sul tuo divano”, si rafforza l’alleanza tra logica del consumo e progressivo impoverimento dei lavoratori. Scompare qualsiasi traccia che colleghi il momento della produzione con quello del consumo, cioè da una parte, il facchino che vende la sua forza lavoro per un tempo illimitato e, dall’altra parte, il consumatore che ne beneficia in un tempo brevissimo. Una rottura che chiude la possibilità della solidarietà e apre le porte alla pura estraneità: così funziona il capitalismo oggi.

Si assiste quindi a una rimozione forzata ma necessaria, in cui le miserie della sottoccupazione, del lavoro che ritorna anche a una dimensione schiavistica, sono assunte come inevitabili per conservare intatte le forme di consumo. Consumare si configura come l’unica fonte di identità. Le fabbriche di Dhaka, il lavoro minorile in Turchia, i facchini di Piacenza invece diventano strumentali al diritto-dovere del consumo, che per vivere e prosperare deve alimentarsi di una guerra tra poveri.

Allargando la lente, il settore della logistica emerge in tutta la sua ampiezza all’interno dell’organizzazione della produzione. Basta tener presente che già nel 2012 il volume d’affari di questo settore era stimato, tra i paesi dell’Unione europea, in 878 miliardi di euro, secondo uno studio riportato dalla Commissione europea.
Non stupisce se si considera che la logistica garantisce lo stoccaggio e la gestione dei magazzini delle catene commerciali, dei centri commerciali, dei magazzini e delle consegne delle piattaforme di e-commerce, della distribuzione sul territorio nazionale dei beni acquistati in appalti centralizzati dalle pubbliche amministrazioni.



Condizioni di semischiavitù

Dentro la catena della produzione la logistica occupa un ruolo centrale e non più residuale. La globalizzazione e l’aumento degli scambi al livello internazionale hanno reso necessario un ampliamento del settore legato al trasporto e l’immagazzinamento delle merci: oggi è più facile acquistare un prodotto dalla Romania e riceverlo in pochi giorni a casa, così come è normale produrre in Bangladesh e vendere in un qualsiasi negozio di una piccola città di (quasi) ogni paese.
Per renderlo possibile, le diverse fasi del processo produttivo hanno dovuto subire una netta trasformazione: dalla fabbrica che tiene insieme tutte le fasi della produzione alla frammentazione e all’esternalizzazione delle diverse funzioni che caratterizzano l’intero processo.
È avvenuta così la terziarizzazione dell’economia: le imprese produttrici hanno scoperto che gestire da sole la distribuzione dei loro prodotti implicava costi troppo elevati, soprattutto in un mercato globale. Altre imprese avrebbero potuto gestire l’immagazzinamento e il trasporto delle merci di più aziende, riducendo il costo unitario di ogni singolo prodotto trasportato. All’interno di questo schema, la logistica rappresenta allora il polo nevralgico su cui scaricare i costi del processo di accumulazione dei profitti.
La logistica, come settore di servizio, nasce e si consolida con l’obiettivo di minimizzare i costi tra il momento della produzione e quello della vendita: minori costi garantirebbero in teoria prezzi al consumo più contenuti, competitivi. Ma le aziende del settore logistico hanno anch’esse ovviamente l’obiettivo del profitto, al di là di quel che succede a monte e a valle della filiera.
Così il passaggio successivo è comprimere i costi, robotizzando alcune fasi e/o agendo sul costo del lavoro. Entrambi i meccanismi – frammentazione ed esternalizzazione da una parte, e robotizzazione dall’altra – producono un aumento del reddito dell’impresa e spesso non si escludono l’uno con l’altro. Al contrario, laddove non è possibile robotizzare, è con l’intensificazione dei ritmi di lavoro che si estrae ciò che un tempo sarebbe stato comunemente definito plusvalore.
La rappresentazione giornalistica delle morti sul lavoro ha spesso facilitato una sorta di scissione tra le cause scatenanti la tragedia e l’evento tragico in sé. I fatti raccontati con la puntualità della cronaca giornalistica hanno alimentato nell’opinione pubblica un sentimento di indignazione verso le tragedie consumate sui luoghi di lavoro, spostando però l’attenzione sulla dimensione emotiva e tralasciando più o meno volontariamente i fattori all’origine della tragedia.
Un’ombra copre l’analisi dei meccanismi che generano le morti bianche, privando l’opinione pubblica di un piano complessivo di osservazione. Questa tendenza del racconto giornalistico assume particolare interesse quando le morti sul lavoro investono un settore considerato ai margini del processo produttivo, come la logistica. In questo caso, infatti, la tendenza a identificare l’incidente sul lavoro come un’eccezione assume un portata ancora più vasta.



La negazione del conflitto

La logistica, infatti, è considerata come un processo periferico nell’ambito della produzione capitalistica. Le attività di stoccaggio, trasporto merci e gestione delle scorte rappresentano fasi “rimosse” di un processo produttivo che invece si compie e si materializza nell’esercizio del consumo.
Ma sotto il velo della versione del capitale, in cui il consumo assolve i tratti di una funzione liberatoria in grado di soddisfare l’appetito del consumatore, c’è la materialità di rapporti di produzione basati sulla messa a valore di ogni aspetto della vita umana. L’intensificazione dello sfruttamento nel settore della logistica diventa quindi il paradigma della trasformazione dei processi di accumulazione del capitale: e non si tratta solo della messa a valore della forza lavoro, ma riguarda anche la sfera della riproduzione sociale, ossia della nostra vita.
L’intensificazione dei tempi di lavoro, che è un tratto tipico dell’organizzazione del lavoro nel settore logistico, mette in soffitta qualsiasi distinzione temporale tra il piano dell’accumulazione dei profitti nella sfera produttiva (il tempo del lavoro) e quella riproduttiva (il tempo libero). Gli operatori della logistica sperimentano nel quotidiano della loro attività la totale privazione di un tempo di vita libero, rappresentando un esempio concreto dei meccanismi di funzionamento alla base del sistema capitalistico.
Gli orari di lavoro che si spingono fino alle dodici ore consecutive sono il tratto evidente del controllo esercitato dal nuovo modello di produzione e consumo. Inoltre, la separazione tra chi produce e chi consuma maschera anche l’impoverimento generalizzato dei lavoratori.

Un’elevata percentuale di chi lavora nella logistica è composta da immigrati a cui non è riconosciuta quella sfera riproduttiva, quel tempo libero, di cui invece gode, magari fittiziamente, il precariato italiano.
Anche in altre sfere produttive, in particolare nell’ambito del terziario (servizi, ristorazione, cura) e del lavoro cognitivo, il modo più semplice per fare profitti è il prolungamento dei tempi di lavoro. Ma da periferia del modello produttivo ad avanguardia delle nuove forme di sfruttamento, è proprio il settore della logistica che coinvolge sempre più persone, si espande, e diventa una chiave di lettura utile per riconoscere le contraddizioni di fondo del progetto neoliberista.



Le difficoltà del sindacato

Dall’introduzione del rapporto di lavoro interinale istituito dall’ex ministro del lavoro Tiziano Treu alla legge numero 276 del 2003 (legge Biagi) che introduce nel nostro ordinamento il lavoro in somministrazione, il settore della logistica è al centro di un processo progressivo di precarizzazione.
La competizione internazionale, basata sulla compressione dei costi, e la tendenza crescente del sistema delle imprese a esternalizzare alcune fasi della produzione, hanno coinciso con una serie di leggi che hanno lasciato ampio margine per frazionare l’organizzazione del lavoro. A fare le spese di questo processo è il settore della logistica, in cui si fa sempre più ricorso al subappalto di manodopera, spesso affidato a cooperative “spurie”, prive di quei connotati mutualistici riconosciuti dalla nostra costituzione.
E qui arrivano le difficoltà per i sindacati. Frammentare la produzione e l’organizzazione del lavoro ha alimentato una crescente difficoltà per le organizzazioni sindacali di costruire lotte unitarie. Si sono così create nel tempo delle divisioni nell’ambito del movimento sindacale, arrivando a una scissione di fatto tra sindacati di base, più vicini alle rivendicazioni dei lavoratori del settore, e sindacati confederali più attenti a salvaguardare un piano di mediazione generale con il sistema dell’impresa.

Questa separazione ha determinato la vera difficoltà nel cercare di ottenere contratti collettivi che possano tutelare l’intero comparto produttivo e i diritti dei lavoratori coinvolti. La marginalità della logistica e la sua espulsione progressiva da un piano di regole costituzionali hanno accelerato quel processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro, che è all’origine delle tragiche notizie di cronaca.
Seppur con le dovute eccezioni, le grandi organizzazioni sindacali hanno registrato un limite evidente nella sottovalutazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro funzionali agli obiettivi dell’accumulazione capitalistica. In particolare, non hanno saputo interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro, mancando di una visione complessiva sul funzionamento della macchina capitalistica. Hanno pensato di tamponare una slavina.
Si è accettato che produzione e consumo siano due dimensioni scisse, distanti, che non hanno a che fare l’una con l’altra. E la supremazia del diritto del consumatore all’acquisto della merce, come la distinzione gerarchica tra chi consuma e chi produce, hanno allontanato il sindacato dalla vera posta in gioco, che resta la messa in discussione dell’intero modello di sviluppo.
Da questa tendenza difensiva che privilegia la conservazione di una posizione di rendita per i sindacati, deriva l’incapacità di spostare la dimensione del conflitto verso l’insieme dell’organizzazione del lavoro per incidere invece su tutto il processo: produzione, logistica, vendita, consumo.

(Da: https://www.internazionale.it/opinione/marta-fana/2016/09/25/piacenza-logistica-diritti-lavoro )

Arcaici echi. Toponomastica medievale di Savona


Sconfinamenti




18-30 gennaio 2020, la mostra Sconfinamenti al Priamar di Savona

Sconfinamenti fa parte del progetto ‘Il Segno Femminile’ ideato e condotto da Eredibibliotecadonne, che nell’ultimo anno ha visto il coinvolgimento di nuove amiche impegnate in attività artistiche e letterarie. La nuova mostra è il terzo appuntamento dal tema Sconfinamenti, successivo ai due tenutisi in Darsena la scorsa estate; sarà anche l’occasione per incrociare l’esperienza visiva dello sconfinamento tra arte e poesia con i guadagni ottenuti dal Gruppo di Lettura di poesia delle donne, col lavoro di approfondimento della poetica di Amelia Rosselli, in un momento di riflessione dedicata nella giornata di Sabato 25 gennaio.


martedì 14 gennaio 2020

lunedì 6 gennaio 2020

HENRI CHOPIN Dactylo-poèmes




HENRI CHOPIN
Dactylo-poèmes
a cura di Roberto Peccolo
e Sandro Ricaldone

Entr'acte
via sant'Agnese 19R – Genova
8 gennaio – 6 febbraio 2020
orario: mercoledì-venerdì 16-19
inaugurazione:
mercoledì 8 gennaio, ore 17,30

Nella prima mostra del 2020, Entr’acte presenta una serie di dactylo-poèmes su carta velina realizzati da Henri Chopin tra il 2005 e il 2006, che Giovanni Fontana descrive come “trame concrete di lettere dattiloscritte i cui dati richiedono letture al limite del possibile, ponendosi come una sorta di partitura visiva che offre agli occhi strutture fonetiche o rumoristiche”.
A queste si affiancano assemblaggi, grafiche e materiale documentario concernente l’attività dell’autore nell’ambito della Poesia sonora, di cui è stato l’iniziatore alle soglie degli anni Sessanta e quindi per diversi decenni il più qualificato rappresentante.

Henri Chopin (1922-2008), “funambolo del magnetofono multipista, moltiplicatore di voce, generatore esponenziale di suoni corporei, mago dell'amplificazione, un giocoliere del ritmo” (Fontana) ha iniziato il suo percorso artistico negli anni ’50, nell’entourage della diaspora lettrista. Nel 1955 la scoperta del registratore a nastro “straordinaria tavolozza sonora capace di propagare un’autentica energia cosmica” lo spinge a spostare la sua attenzione dalla parola al puro suono vocale e corporale: nascono così lavori come “Le corps” (1966) e “Le bruit du sang” (1969), in cui utilizza, in aggiunta alle amplificazioni e ai cambiamenti di velocità, le sovrapposizioni permesse dalla registrazione su più piste magnetiche, attivando la ricchezza della simultaneità.
All’attività nel campo della poesia sonora Henri Chopin ha affiancato – sin dagli anni Sessanta – un’intensa produzione di poesia concreta (o “poesia oggettiva”, secondo la sua definizione). Composti con macchine da scrivere elettriche “i dactylo-poèmes mettono in rilievo i loro motivi, i loro disegni, le loro forme nel e attraverso l’alfabeto latino che è più geometrico che calligrafico nella visione”.


sabato 4 gennaio 2020

Lotta operaia e lotta armata. Un tema difficile da trattare



Giorgio Amico

Lotta operaia e lotta armata. Un tema difficile da trattare


È da poco in libreria "Il professore dei misteri" di Marcello Altamura. "Storia segreta del doppio livello" recita il sottotitolo facendo intendere chissà quale rivelazioni. In realtà una ricerca giornalistica, condotta con il taglio di certe trasmissioni d'inchiesta televisive dove i temi trattati si ingarbugliano al punto da diventare  labirinti senza uscita, che ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, dimostra come il fenomeno della lotta armata nell'Italia degli anni '70 resti incomprensibile per gran parte di chi se ne è vario titolo occupato, a partire proprio dalla stampa.

Un lavoro costruito quasi esclusivamente sugli atti giudiziari e i mattinali delle questure, che non rende l'atmosfera di quegli anni e a cui sfugge di conseguenza la complessità del fenomeno, sottovalutandone, vedi la parte dedicata a Potere Operaio, le radici politiche, e ignorando del tutto come la scelta delle armi fosse del tutto interna alla realtà profonda del conflitto di classe nell'Italia degli anni Settanta e ad alle scelte operate da una parte delle avanguardie di fabbrica.

Ancora una volta risulta evidente come per i "benpensanti", cioè per chi si pone nell'ottica che l'attuale società democratica e interclassista resti pur con tutti i suoi difetti il migliore dei mondi possibili, sia impensabile che parte non marginale della classe operaia abbia espresso un potenziale di lotta tale da investire direttamente lo Stato. Da qui lo scetticismo verso l'autenticità di ciò che accadde allora, il complottismo, le teorie su di un presunto "doppio livello".

Una operazione rassicurante. Perché, se si è trattato di utili idioti manovrati da oscure potenze, allora il sistema è innocente. La tesi del complotto evita di fare i conti con le contraddizioni profonde dell'Italia di allora, con le colpe e i crimini (vedi Piazza Fontana) del potere politico e padronale e degli apparati dello Stato, con le potenzialità di un ciclo di lotte durato vent'anni e culminato in una vera e propria insorgenza proletaria.

Ma come potevano dei semplici operai, si chiede l'autore, progettare e attuare azioni così complesse come il sequestro Moro? Ci doveva per forze essere un secondo livello, più alto, formato di intellettuali a gestire ciò che accadde. Il pregiudizio classista è evidente. Anche nello sparare ci vuol cultura e gli operai, lo si sa, proprio in quanto proletari, ne sono privi.

Era il teorema dei magistrati padovani che ridussero a complotto di un pugno di intellettuali riconducibili all'entourage di Toni Negri, l'intero fenomeno dell'insorgenza proletaria degli anni '70. E' la tesi che sostanzia il libro del giornalista (di basket, musica e cinema) Marcello Altamura e che lo porta ad individuare nella figura di Senzani, "il professore dei misteri", il regista occulto dell'azione delle BR. Regista a sua volta manovrato, anche se poi non si capisce bene se dalla CIA, il KGB o il Mossad. Ma poco importa, ciò che conta è dimostrare che si trattò di un fenomeno eterodiretto e che i brigatisti erano dei fantocci manovrati. Che poi, in oltre 400 pagine non si porti un dato certo, ma ci si limiti ad accostare episodi anche fra loro molto diversi e ad avanzare congetture spesso tirate per i capelli, poco importa. Per essere davvero convincente, il mistero deve nutrirsi di se stesso e restare tale. È proprio questo a rendere affascinante per la massa la teoria del complotto.

Eppure materiali per capire cosa realmente accadde allora, chi erano e cosa pensavano quei compagni e quelle compagne che fecero quel tipo di scelta (che, detto per inciso, onde evitare facili fraintendimenti, consideravamo allora e ancora consideriamo strategicamente sbagliata) in circolazione se ne trovano, a partire da "Figli dell'officina", il bel libro-testimonianza di Chicco Galmozzi (allora appunto giovanissimo operaio) sulla nascita di di Prima Linea. Ma accettare l'idea che la lotta armata (cosa ben diversa dal terrorismo stragista e che con esso non può in alcun modo essere confusa e neppure affiancata) sia stata una delle forme che tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta ha assunto la lotta di classe in Italia, coinvolgendo strati non piccoli delle avanguardie di fabbrica, resta ancora oggi un tabù invalicabile.

Marcello Altamura
Il professore dei misteri
Ponte alle Grazie, 2019