Un maestro del
pensiero tradizionale, grande matematico antifascista che in polemica
con il regime scelse Budrio come volontario autoconfino.
Raffaele K. Salinari
Arturo Reghini,
pitagorico
Se si visitasse il
cimitero della Pieve di Budrio si noterebbe, nell’estremo lato
sinistro della prima galleria, una piccola lapide con simboli
decisamente eccentrici rispetto alla tradizione cattolica: un
pentalfa in ottone, una Tetraktis, una squadra con compasso. È il
loculo che contiene i resti mortali di Arturo Reghini, «pitagorico e
latomista insigne», come recita la scritta che i «sodales» del
grande matematico ancora oggi curano con impegno e dedizione verso
questa figura centrale nel panorama esoterico italiano, e non solo.
Ma cosa lega questo antifascista che scelse Budrio come luogo del suo
confino volontario, alla piccola città nota soprattutto per le sue
ocarine? Un filo sottile ma tenace come quello della tradizione
pitagorica, che cercheremo di ricostruire chiamando a testimoni
personaggi di quella vera e propria epopea simbolica che fu
Carosello.
SUSANNA TUTTAPANNA
Alcuni di questi, infatti, avevano una carica mitico-archetipica evidente: basti pensare ad Ulisse e la sua ombra per il caffè Hag che sembra uscito da un saggio di Jung sull’alchimia, o alla proteiforme Linea della Lagostina, epigono del mitico Proteo dalle molte forme che tutto conosce. Gli esempi si possono moltiplicare all’indefinito, ma ci fermiamo qui; i lettori ricostruiranno a loro piacimento le genealogie che hanno ispirato altri personaggi: dall’erculea figura dello scolpitore della scritta Plasmon, all’edipica «bella dolce cara mammina» del miele Ambrosoli . Tra questi, una figura per certi versi iconica, portatrice di un refrain che condensava tutta una visione del mondo fatta di stupore infantile ed irrefrenabile joie de vivre, era certamente Susanna Tuttapanna col suo pitupitum-paa! Ora le sue apparizioni, poche in realtà, solo quindici tra il ‘66 ed il ’67, avevano tutte lo stesso incipit: «Ehi! Ehi! Ciao… mi vedi? Senti… ti piaccio disegnata così? Sai, ti voglio bene… ma tu sei di là da questo vetro e io non posso uscire dal televisore… il regista non vuole. E poi… io non sono come te… sono solo un piccolo disegno! Pitupitum – paa! Sai, qui alla televisione sono di casa e… faccio un po’ di tutto! Pascolo le pecorelle dell’intervallo, accudisco l’uccellino della radio… faccio Carosello… oh, scusa, non mi sono presentata: sono Susanna… Susanna Tuttapanna! Qui alla Rai Tv mi chiamano tutti così perché vado matta per il formaggino Milione alla panna, il fior fiore dei formaggini! Pitupitum – paa!». Ecco, allora, la citazione di un altro protagonista del passato, molto più vecchio di Susanna e per certi versi, lo vedremo, ancora più iconico: l’uccellino della radio.
L’UCCELLINO DELLA RADIO
E L’OCARINA DI BUDRIO
Molti tra i lettori ricorderanno quel dolce cinguettio che si udiva con regolarità nelle pause di programmazione in onde corte, oggi spente, tra una trasmissione e l’altra; era appunto il corrispettivo radiofonico degli «intervallo» televisivi con le pecorelle – quando ancora c’era il bianco e nero ed un solo canale – pascolate da Susanna. Nell’immaginazione di molti di noi vi era la figura di questo passerotto ingabbiato e costretto a ripetere il canto della sua pena da prigioniero per segnalare il passaggio ad un’altra emissione. In realtà il suono era generato da una piccolo ma ingegnoso congegno meccanico, costruito negli anni ‘30 come una sorta di orologio a cucù caricato a molla e composto da piccoli mantici, che emettevano una melodia simile a quella naturale. Ancora oggi è possibile ascoltarlo in versione ridotta, e cioè solamente in una delle quattro sequenze originali di cinguettii, dalla rete di Radio 1 nelle pause precedenti l’emissione dei Giornali Radio Regionali. Ora, però, bisogna anche dire che l’apparecchio era stato concepito come riproduzione sì di un suono naturale, ma non originariamente quello del canto di un usignolo, bensì di un particolare strumento a fiato: l’ocarina.
Il nome deriva dalla sua
forma che rimanda all’immagine di una piccola oca senza testa, e fa
parte della categoria dei cosiddetti aerofoni, come il flauto per
intenderci, strumenti dunque molto antichi e diffusi, ma con una
caratteristica originale rispetto agli altri tipi di flauto: la
camera di risonanza tondeggiante e chiusa in cui è l’intera massa
d’aria a vibrare. Dal punto di vista fisico sfrutta l’effetto di
risonanza studiato da Helmholtz, cioè la capacità di un tubo chiuso
nel quale l’aria vibra, di produrre onde sonore: in sintesi
l’effetto che si utilizza quando si soffia in una bottiglia.
L’ocarina venne
inventata da Giuseppe Donati, a Budrio, nel 1853. Vale la pena, a
questo punto, riportare la sua descrizione come apparve ad un
giornalista dei primi del ’900: «Egli sembrava uno dei vecchi
misteriosi, leggendari, che cercano l’elisir per vivere in eterno:
con una grande veste da camera avvolta intorno al corpo ossuto e
lungo, ed una berretta frigia in capo. La veste era antica come lui,
tinta di colori oscuri, vari, indeterminati. E il suo volto era
avvivato dagli occhi lustri, mobili, acuti; dal candore e dalle
fluidità della barba; dalla sua espressione arguta, petroniana…
Invece di filtri aveva intorno ocarine, pinzette, stampi, blocchi di
creta. Lavorava come avesse avuto diciotto anni: finiva come aveva
cominciato». In sintesi la descrizione di un alchimista, con tanto
di berretto frigio. Per concludere sull’ocarina ricordiamo, per la
gioia dei fans di Capitan Harlock, che egli realizza un’ocarina e
la regala alla sua protetta, la bambina Mayu. Ma è forse nel mondo
videoludico che questo strumento musicale esprime la sua aura magica:
in The Legend of Zelda: Ocarina of Time, il protagonista Link,
suonandola, acquisisce il potere di viaggiare nel tempo, alterare le
condizioni climatiche o di teletrasportarsi, intonando diverse
melodie.
IL FLAUTO DI PAN E IL RE
DEL MONDO
Abbiamo detto che l’ocarina è un risuonatore di Helmholtz, esattamente come il flauto di Pan che il mitico Pitagora studiò per ricavarne la sua teoria musicale basata sulla Tetraktis , cioè il «quattro al triangolo», simbolo composto da un triangolo il cui vertice è un punto e la cui base è formata da quattro, passando dal due e dal tre, la cui somma fa dieci. Il dieci era, per i pitagorici, il numero più sacro, il numero dell’universo stesso poiché somma dei numeri rappresentanti tutte le dimensioni: l’1, l’Unicità, il Principio creatore universale, il 2 le polarità in cui esso si divide per dar luogo alla creazione (il numero della materia dirà Reghini), il 3, l’armonia derivante dalla congiunzione dei contrari, ed infine il 4 come rappresentazione della spazialità. Sono esattamente gli stessi numeri che si ritrovano nei rapporti degli intervalli musicali nel flauto di Pan o nell’ocarina, strumenti dunque eminentemente pitagorici, che la Tetraktis simboleggia pienamente: quella stessa inscritta sull’originale tomba della Pieve.
Chi era dunque Arturo
Reghini e perché scelse proprio Budrio per il suo esilio volontario?
Era nato a Firenze il 12 novembre del 1878 e morì a Budrio il 1º
luglio del 1946. Chi ascolta la famosa canzone di Franco Battiato Il
Re del Mondo, forse non sa che la prima traduzione di questo
fondamentale testo esoterico di René Guénon fu fatta proprio da
lui, non a caso citato più volte dall’autore francese in
moltissimi dei suoi testi. Per capirne il contributo allo studio
della Tradizione esoterica attraverso la riflessione sui numeri
pitagorici, basterebbe dire che uno de suoi studi, oggi finalmente
ripubblicati, si trova postulata l’esistenza di un elemento
naturale all’epoca totalmente sconosciuto, che Reghini aveva
previsto solo sulla base delle coerenze matematiche tra struttura
della materia e teoria dei numeri pitagorici. Nel capitolo titolato
Tetraktis e struttura molecolare di alcuni corpi, infatti, egli
afferma testualmente: «Aggiungiamo a questo proposito che i numeri
della Tetraktis compaiono anche in fisica atomica e precisamente
nella legge numerica che presiede ai rivestimenti nucleari nella
costruzione degli atomi. Ordinando gli elementi chimici secondo le
leggi di Mendelejeff e di Moseley ed incolonnandoli secondo la
somiglianza del loro comportamento chimico, la prima colonna viene
occupata dai cosiddetti gas rari, l’elio, il neon, l’argon, il
kripton, lo xenon, ed il radon. Ora il numero di elettroni che
contornano il nucleo atomico di questi gas nell’ordine sopra
descritto, che è il loro ordine naturale a seconda del peso atomico
e del numero atomico si ottiene moltiplicando il due (il numero della
materia), per i quadrati di 1,2,3,4, cioè i numeri della Tetraktis
pitagorica». Ebbene, in coerenza con queste osservazioni, ma solo
nel 2006, è stato scoperto un ennesimo gas raro, l’Oganessio,
elemento con numero atomico 118, come Regini aveva previsto per
completare la serie pitagorica.
AL CONFINO VOLONTARIO A
BUDRIO
Ma Reghini era soprattutto un libero pensatore, un Libero Muratore molto impegnato nel dibattito pubblico sulle libertà, specie negli anni ’20 del secolo scorso, quando già le ombre del Fascismo si addensavano sull’Italia. Sono questi gli anni del suo impegno teoretico più intenso: fonda ed anima varie riviste di studi sulla tradizione esoterica in generale e su quella italica in particolare, basti ricordare i suoi interventi su Atanór fondata nel 1924, o le riflessioni comparse su Ignis dal 1925 al 1929, ed infine, estremo tentativo di mantenere aperte le porte del libero pensiero, la rivista UR che esce sino al 1928, con i contributi di studioso del calibro di Giovanni Colazza e Giulio Parise. Sono anni difficili per i cultori della Tradizione, tempi che aprono contraddizioni laceranti anche all’interno stesso dei suoi iniziati; basti pensare che Julius Evola, tra i tanti che pensarono di poter dominare le forze della reazione a fini palingenetici, mostrando così di ignorare i fondamentali della ricerca spirituale, tenterà di fare incriminare Reghini per affiliazione massonica (affiliazione che costituiva reato dopo l’imposizione di scioglimento delle «associazioni segrete» decretata dal regime fascista nel 1925).
Come non ricordare,
allora anche l’appassionato discorso di Gramsci, che certo massone
non era, in difesa della libertà di parola e di associazione,
proprio partendo dal rigetto di queste leggi liberticide? È allora
per via del condizionamento repressivo fascista vòlto
all’emarginazione di tanti esponenti dell’esoterismo italiano
proprio perché portatori di quei valori universali che il regime
tanto avversava, che Reghini, ormai isolato, si ritira in una sorta
di confino autoimposto, prima che questo atto diventasse ufficiale,
proprio a Budrio, dove negli ultimi anni di vita si dedica
all’insegnamento nell’istituto Quirico Filopanti, ma soprattutto
alla meditazione, in chiave pitagorica, delle scienze matematiche.
IL MAGO DI FIRENZE
Vogliamo però concludere questo breve excursus con le parole di sua nipote Lidia Reghini di Pontremoli, che ci ha gentilmente concesso di pubblicarle come ricordo personale dello zio. «Gente strana, fuori dalle righe i Reghini, ognuno rapito dalle proprie ossessioni, come zio Arturo, fratello di mio nonno. Non feci a tempo a conoscerlo ma negli anni ho raccolto dalla voce di chi gli fu vicino, racconti e testimonianze. Nel tempo ho ricucito una trama di avvenimenti, frequentazioni che hanno confermato la tenuta di quel che poteva apparire la leggenda un po’ tronfia d’un intima esegesi familiare fatalmente affidata all’inattendibilità di un racconto orale. Ambienti e situazioni fiorentine dove la casa di via dei Federighi abitata da Arturo diveniva tutt’uno con gli ambienti e i personaggi che ruotavano attorno al ‘Leonardo’, “rivista d’idee” nella sua storica sede di Palazzo Davanzati o del Caffè delle Giubbe Rosse: l’amico Papini ricorda l’appassionato giocatore di scacchi sui tavolini delle Giubbe Rosse, il più grande mago che Firenze abbia mai conosciuto.
Le parole di Papini
confermano il racconto familiare di come Arturo, all’interno del
Caffè delle Giubbe Rosse, si divertisse con la forza del pensiero a
far saltare i cappelli degli astanti. Anche uno studioso come Augusto
Hermet che lo frequentò attorno al 1903 nella Biblioteca Teosofica,
ricorda «la presenza di un giovane matematico, mistico e mago. Era
Arturo Reghini». Arturo e il suo dono dell’ubiquità. Sicuramente
non mentiva il fratello di mio padre, generale, uomo d’armi
notoriamente tutto d’un pezzo, che ricordava quando, da bambino,
vide Arturo sia in giardino che nello studio; e chiedendo il perché
Arturo gli rispose che ancora quelle cose non poteva capirle, ma che
un giorno le avrebbe comprese. Poi i racconti di mia nonna paterna,
cognata di Arturo, che l’aveva frequentato a lungo: ne parlava come
di un essere dalle sembianze anomale, costretto a farsi abiti e
scarpe su misura per via della sua eccessiva altezza che sfiorava
quasi i due metri; raccontava di come dovesse chinarsi ogni volta per
oltrepassare una porta. Arturo, grande matematico, tutti in famiglia
ricordavano con stupore i suoi i calcoli fatti a mente sulla
geometria post-euclidea. Oggi dei giovani matematici hanno
controllato al computer i calcoli fatti da zio Arturo scoprendo che i
risultati sono esatti.
Ma anche zio Arturo
solitario profeta poliglotta, vicino negli ultimi anni ad una
signorina inglese, forse un’adepta della Golden Dawn. Di tutto
questo è rimasto ben poco: ho conservati la poltrona dove riposava
Arturo e anche un libro che ho rapito alle casse, ai vecchi archivi
destinati ai robivecchi. D’altra parte chi si sarebbe ricordato di
quel vecchio libro? Chi avrebbe saputo dargli il giusto valore?
Soltanto mio padre sapeva e riconosceva l’importanza simbolica di
quel libro, Il Crepuscolo dei Filosofi regalato dal suo
autore, Giovanni Papini all’amico Arturo al suo ingresso nella
Loggia fiorentina ‘Lucifero’ nel 1907. Nel frontespizio una
dedica ad inchiostro, scolorito dal tempo, «Al nuovo fratello Arturo
Reghini il suo G Papini». Ed infine zio Arturo eremita, segregato
dal regime a Budrio dove insegnava in una scuola media. Arturo che
prima di morire, allungando una mano su un mobiletto vicino al letto
lasciò, al momento del trapasso, marchiata sul legno l’impronta
combusta della sua mano. Esistono racconti sulla sua morte come
quelli dell’amico Giulio Parise: «Il segno era apparso. Arturo
Reghini si volse al Sole declinante per l’ultimo saluto, per
l’ultimo rito; poi si appoggiò con la mano destra al vicino
scaffale, piegò la gigantesca statura verso la Grande Madre, eretto
il busto e fu libero».
Il Manifesto/Alias - 18
gennaio 2020