TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 21 aprile 2020

Storie di pirati liguri




Continuiamo la nostra navigazione nell'Oceano sconfinato (che proprio di quello si tratta) di antichi volumi e riviste ora reperibili on line. Questa volta navighiamo per davvero, essendo il nostro argomento la pirateria endemica sulle coste liguri. Genova non aveva la forza di difendere i suoi commerci e qualche volta da contrabbando e pirateria riusciva comunque a ricavare un guadagno, magari a spese dei suoi concorrenti.  Il testo che proponiamo è tratto da un lungo studio apparso nel 1927 sul Giornale storico e letterario della Liguria.

Emilio Pandiani

Storie di pirati liguri

Quando si pensa ai tempi nei quali i viaggi per mare erano effettuati soltanto da navi a vela, si divaga sulla bellezza di quelle navigazioni placide con grandi vele bianche e gonfie dal vento, sulle lente, quasi solenni traversate, sugli approdi a terre lontane, ricche di forti aromi, di frutti meravigliosi, di genti bizzarre e si sogna la strana vita fra cielo e mare, sotto il sole splendente, le stelle scintillanti, e si invidia la vita semplice e poetica del marinaio nella solitudine delle grandi acque, dinanzi agli spettacoli meravigliosi delle albe diafane, delle aurore sorridenti, degli infuocati tramonti, mentre sfilano silenziosi scenari sempre mutevoli di isole, di promontori, di coste boscose o ferrigne.
A ben pochi vien fatto di pensare alla vita durissima e spesso assai triste su quei poveri gusci di noce, alla mancanza di ogni comodità, ai cibi grossolani e sempre gli stessi, alla calme di vento, alle traversie, ai pericoli di ogni sorta, posti in agguato dovunque e in ogni momento, alle minacce dei mare non solo, ma anche degli uomini.

Chi parla oggi di corsari ? pensavo sfogliando certe vecchie carte dell’Archivio di Stato di Genova, ove trovavo come suol dirsi ad ogni piè sospinto tracce di assalti e di depredazioni, lamenti di mercanti che avevano perso tutti i loro averi per opera di pirati lungo la loro navigazione. La lettura di quelle carte mi faceva tornare in mente le antiche novelle che contengono tanto spesso le vicende romanzesche di abbordaggi e di rapimenti di corsari e che sono così piacevoli a leggersi, mentre in queste vecchie carte di Archivio v’era il fatto puro e semplice senza orpelli, v’era la prepotenza brutale, il furto, la perdita delle robe, gli insulti, le percosse, le ferite e qualche volta la morte del povero navigante.
È veramente impressionante la quantità di lettere che il governo genovese dirigeva a comunità ed a principi per i beni perduti da genovesi, in conseguenza di incontri con corsari. Nel solo periodo di una trentina di anni (tra il 1480 ed il 1510) le violenze subite per mano di essi, sono centinaia e centinaia e intorno ad esse si accoglie naturalmente un ampio stuolo di ordinanze, di provvedimenti e di processi che fanno rivivere questa epoca così diversa dalla attuale. (...)

Come si diventava pirati?
In una maniera molto semplice. Bastava che un uomo di mare, senza scrupoli e d ’animo fermo, risoluto a guadagnare largamente, sia pure col pericolo della galera e della forca, raccogliesse intorno a sé pochi compagni che avessero la stessa tempra e le stesse mire. Sopra un brigantino veloce e ben armato essi andavano ad appostarsi in qualche angolo di costa ove il mare fosse frequentato da passaggi di navi e quando ne era in vista alcuna che sembrasse ricca di bottino e poco armata , piombavano su essa all’improvviso, e, profittando della sorpresa, del disordine e della inferiorità di armi dei naviganti, salivano sulla nave e la depredavano di quanto rappresentasse una ricchezza.
Poteva anche accadere che i corsari non si accontentassero di depredare merci e naviganti, ma che si impadronissero anche della nave stessa e se ne servissero per più ardite imprese piratesche, gettando il terrore sul mare.

Non era infrequente il caso che il governo di qualche città marinara, per indebolire od ostacolare il commercio di una città emula, permettesse subdolamente questo brigantaggio, salvo però a smentire ufficialmente tale condiscendenza. A volte, per vendetta di gravi offese al proprio naviglio, si dichiarava pubblicamente la guerra di corsa verso le navi della città colpevole ed allora ognuno poteva porsi alla caccia delle navi nemiche col diritto di fare bottino di esse. Era questo il sistema della rappresaglia che durava a volte per mesi e anche per anni, sinché non si fosse giunti ad un accomodamento fra le due città, oppure ad una guerra decisiva.
Meno frequentemente la pirateria si esercitava anche sulle coste, in occasione di qualche naufragio. Nell’alto medioevo era esistito il cosiddetto ius naufragi, il diritto cioè degli abitanti delle coste di impadronirsi di quanto il mare gettasse sulla riva o potesse raccogliersi in una nave gettata dalla furia delle onde sugli scogli.
Ancora nel 1491 essendosi incagliata una nave genovese presso Salerno, l’equipaggio che si era potuto salvare aveva ricuperate quasi tutte le merci, ma gli abitanti della costa le reclamarono come ius naufragi e occorse l'intervento del governo genovese presso il Re di Napoli e l'invio di un cancelliere di Genova a Napoli per ottenere, con molti stenti, che le merci e le artiglierie ritornassero ai loro proprietari.

La pianta parassita della pirateria era allora diffusa su tutte le coste del Mediterraneo e, tranne i casi già citati, i governi delle città marinare si sforzavano ad estirparla, poiché essa portava gravi danni all’intero organismo statale.
Perciò nelle carte del governo genovese si incontrano assai spesso gli ordini ai vani ufficiali sparsi nei borghi e nelle città delle Riviere perché vigilassero sulle partenze di navi sospette dalle loro spiagge e se, malgrado tali ordini qualche brigantino prendeva il largo, la Dominante fulminava una multa ai suoi sudditi, avvertiva con pubblica grida quali fossero i patroni delle navi uscite a pirateggiare e se non riusciva ad impedire le loro gesta brigantesche li dichiarava ribelli e li metteva al bando dello Stato.

Ma prima di ricorrere a questa ultima misura il governo cercava di costringere i suoi sudditi un po’ troppo lesti di mano a restituire il mal tolto e ciò avveniva in special modo quando essi avessero lesi gli interessi di qualche stato o di qualche principe che fosse in buone relazioni con Genova. Si chiudevano invece gli occhi quando le navi o le merci depredate appartenessero a quegli stati coi quali la Repubblica fosse in rapporti poco amichevoli come, ai tempi di cui parliamo, con i Fiorentini. Accadeva però spesso che questi audaci avventurieri del mare confondessero il lecito con l'illecito, e non andassero tanto pel sottile nello scegliere le loro vittime, depredando, se si presentava una buona occasione, qualche mercante o qualche nave genovese ed allora i fulmini della giustizia cadevano inesorabili su essi o sul borgo dal quale erano partiti.(...)

(Da: Giornale storico e letterario della Liguria, Anno III. Fascicolo 1, Gennaio-Marzo 1927)