TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 12 giugno 2019

I fuochi di San Giovanni. Una festa solstiziale



La festa di San Giovanni è una festa solstiziale e dunque segnata dalla duplicità. Festa solare, ma anche  lunare e pertanto nel segno del principio sia maschile che femminile. Da qui il suo mistero, ma anche la sua poesia. Il primo capitolo introduce questi concetti.

Giorgio Amico


I fuochi di San Giovanni

Il Sole e la Luna/ Una festa solstiziale

“Al solstizio d'estate, quando il sole raggiunge la sua massima declinazione positiva rispetto all'equatore celeste per poi riprendere il cammino inverso, comincia l'estate. Questo giorno, la cui data ha variato secondo i calendari fra il 19 e il 25 di giugno, era considerato nelle tradizioni precristiane un tempo sacro, ancor oggi celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la Natività di san Giovanni Battista. una festa molto antica se già Agostino la ricorda nella Chiesa africana latina”. (9)

Così Alfredo Cattabiani, studioso di storia delle religioni, di simbolismo e di tradizioni popolari, introduce in un libro dedicato alle feste, i miti, le leggende e i riti dell'anno, il tema delle «nozze del sole e della luna», che è l'autentico cuore della festa di San Giovanni. In questo giorno infatti il Sole, simbolo del fuoco, entra nel segno del Cancro, segno d’acqua dominato dalla Luna. Secondo il pensiero tradizionale in questa notte il Sole e la Luna, di cui la figura del Re e della Regina sono rappresentazioni simboliche, si fondono in una ierogamia, un matrimonio sacro generatore di vita. Una immagine ripresa poi in innumerevoli rappresentazioni alchemiche a simboleggiare l'unione dei contrari che ricompone per un attimo l'unità primordiale.

Per comprendere meglio l'importanza del giorno lasciamo per un attimo il linguaggio sfuggente dei simboli tanto caro agli esoteristi e ai poeti e scendiamo sul terreno solido della scienza. Solstizio, dal latino sol-sistere il fermarsi del moto solare, è termine astronomico e indica quel momento fondamentale dell'anno in cui il Sole raggiunge, nel suo moto apparente lungo l'eclittica, il punto di declinazione massima (21 giugno) o minima (21 dicembre). Nel nostro emisfero i due solstizi segnano rispettivamente l'inizio dell'estate e dell'inverno. Il 21 giugno il giorno raggiunge la sua massima durata. Dopo tre giorni di stasi, a partire dal 24, le ore di luce si riducono, il sole sembra essere sempre più basso sull'orizzonte. Inizia un ciclo di sei mesi destinato a concludersi il 21 dicembre, il giorno più corto. Da questo momento ricomincia il secondo ciclo che si concluderà a giugno: il sole progressivamente si alza sull'orizzonte, i giorni si allungano, la luce diventa più intensa. E così tutti gli anni, in una circolarità che va al di là del tempo e assume agli occhi dell'uomo perennemente prigioniero del presente il senso dell'eterno e della libertà da ogni genere di costrizione. Atemporalità e libertà che sono, da sempre, caratteristiche primarie del sacro.

Tornando al linguaggio fiorito del simbolo, in tutte culture i solstizi (le due porte del cielo) rappresentano il dramma cosmico della morte e della rinascita del Sole, ovvero l'avvicendarsi nel corso dell'anno delle stagioni e del ciclo della vegetazione. Una concezione antichissima, risalente almeno ai primordi della cultura greca e simboleggiata dalla caverna cosmica, tanto che la ritroviamo in Omero che così ne parla nel XIII libro dell'Odissea: “Vi sono fonti di acqua perenne e la grotta ha due entrate, una per i mortali verso occidente, l'altra ad oriente, per gli immortali: da questa non passano gli uomini; è la via riservata agli dei.” (10)

Nel mondo greco-romano i solstizi segnavano una ciclica sospensione del tempo e la rottura di ogni separazione fra il mondo celeste, il mondo infero e mondo terreno. In quelle notti si aprono le porte che mettono in comunicazione i regni dei morti, dei vivi e degli dei, collegati fra loro dall'albero sacro o albero della vita di cui la croce rappresenta con l'intersecarsi delle sue due linee, quella verticale della vita e quella orizzontale della morte, il simbolo più diffuso. Il solstizio d'inverno rappresenta la «Ianua Coeli» o «porta degli dei» , attraverso cui gli dei si manifestano agli uomini e il solstizio d'estate, la «Ianua inferi» o «porta degli uomini», attraverso cui gli uomini entrano in contatto con il numinoso, ma anche si manifestano le potenze oscure che abitano i mondi inferiori. Da qui il carattere ambiguo, benefico, ma anche potenzialmente pericoloso, della festa.

   L’Albero della Vita nell’affresco dell’abbazia di Sesto al Reghena. Cristo è crocifisso sul melograno, simbolo di vita  e di  fecondità

La fabbrica del mito

Riflettendo su questo simbolismo, che resta profondamente omogeneo pur nel succedersi delle culture, si comprende come per passaggi successivi, tra cui l'incontro con il folklore celtico e la mitologia germanica, la notte del 24 giugno diventi la notte delle streghe o, come nell'opera scespiriana, delle fate e dei folletti. In quelle ore cariche di pathos le porte dei regni oscuri sono spalancate e nulla separa più gli uomini dalle potenze che vi abitano. Secondo la tradizione germanica i morti usciti dalle tombe si riuniscono per la caccia, e non di rado si uniscono agli elfi. Questi fantasmi formano un pauroso esercito che vaga per montagne e vallate. Lo ricorda il poeta romantico Heinrich Heine nel suo poemetto Atta Troll:

“E' la notte di San Gianni
Luna piena l'aere irraggia
L'ora è questa in cui gli spirti
Fan la lor caccia selvaggia”. (11)

Fate, folletti, morti che ritornano a tormentare i vivi: tutti elementi che ritroviamo nella festa di Halloween, tipica del mondo anglosassone ma da qualche tempo di moda anche fra i nostri giovani. Considerata a torto completamente estranea alla nostra tradizione e dunque spesso vissuta con un certo fastidio, ad un esame più attento, che non si limiti all'attuale degenerazione consumistica di ciò che resta di tutte le feste tradizionali (Natale incluso), si scopre come la notte di Halloween abbia molti aspetti in comune con la nostra festa di San Giovanni, a partire proprio dall'accensione dei falò e dall'irrompere nel mondo dei vivi di forze “altre”. Entrambe le ricorrenze fanno parte della grande famiglia delle feste del fuoco e sacralizzano l'alternarsi ciclico delle stagioni scandito dai solstizi (in estate e in inverno) e dagli equinozi (in autunno e in primavera). Entrambe celebrano con la danza, il riso, il canto e il consumo collettivo e gioioso del cibo la vittoria della luce sulla oscurità e della vita sulla morte.

Per noi, figli della tecnica e di uno scientismo spesso altrettanto “superstizioso” delle credenze di un tempo, si tratta di un mondo difficile da cogliere appieno. L'avvento del mondo moderno con il suo razionalismo che offre risposte a tutto, ha relegato ogni visione tradizionale della vita nella riserva indiana del folklore o per i più colti della letteratura e dell'arte. Una perdita emotiva enorme per l'umanità, almeno secondo il pensiero di Jung, con Sigmund Freud, uno dei padri della psicoanalisi:

“Quanto più si è sviluppata la coscienza scientifica – annota Jung in uno dei suoi ultimi scritti – tanto più il mondo si è disumanizzato. L'uomo si sente isolato nel cosmo, perché non è più inserito nella natura e ha perduto la sua «identità inconscia» emotiva con i fenomeni naturali (…) Nessuna voce giunge più all'uomo da pietre, piante o animali, né l'uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava. Questa perdita enorme è compensata solo dai simboli dei sogni. Essi ci ripropongono la nostra natura originaria, con i suoi istinti e il suo particolare pensiero.” (12)  

Per fortuna non tutto di quel mondo mitico è perduto. L'umanità continua a coltivare quella visione primordiale nei sogni e nel linguaggio degli archetipi e del mito. Perché sognare è proprio dell'uomo e nell'attività onirica si cela quella fabbrica del mito che, come ci ricorda il grande storico delle religioni Mircea Eliade, non cessa mai, anche in un'epoca desacralizzata come la nostra, di produrre sempre nuove suggestioni. Appunta Eliade:

“A livello dell'esperienza individuale, il mito non è mai completamente scomparso: è vivo nei sogni, nelle fantasie e nelle nostalgie dell'uomo moderno (…). Sembra che un mito, al pari dei simboli che ne nascono, non scompaia mai dall'attualità psichica: cambia soltanto aspetto e traveste le sue funzioni. (…) Il mito non è più dominante nei settori essenziali della vita, è stato «rimosso» sia nelle zone oscure della psiche, sia in attività secondarie o anche irresponsabili della società”. (13)

Una di queste zone grige è la poesia. L'arte – scrive lo scrittore messicano Octavio Paz- è la porta che da accesso all'altra faccia della realtà. Il volo mistico dello sciamano è diventato nel nostro mondo senza più anima l'agire libero dell'artista che spezza con la sua opera le catene di un tempo lineare che uccide il sogno di un'infinità di mondi paralleli e intercomunicanti. Sospeso tra sogno e realtà, il regno della poesia è un mondo immateriale e dunque magico. Il perché è ancora Octavio Paz a spiegarcelo:

“Entre lo que veo y digo,
entre lo que digo y callo,
entre lo que callo y sueño,
entre lo que sueño y olvido,
la poesía”.

[“Tra ciò che vedo e dico, tra ciò che dico e taccio, tra ciò che taccio e sogno, tra ciò che sogno e scordo, la poesia”.] (14)

    Bretagna. Menhir di Saint Uzec (4000-2500 a.C.) con simboli cristiani medievali.

Festa agraria e pagana

Abituati da sempre a considerare le nostre feste sotto il segno cristiano, ricostruirne le radici pagane è operazione che richiede grande attenzione. Il sacro, in tutte le sue forme, è un materiale che va maneggiato con cura. Appoggiandoci sull'approccio psicanalitico di Jung e su quello storico di Eliade pensiamo che nel corso del tempo mutino le religioni, elemento storico e per ciò stesso transitorio, ma non le immagini profonde del sacro che l'uomo custodisce dentro di sé, quegli archetipi che reggono come pilastri l'inconscio collettivo della specie. Già i primi evangelizzatori, che pure non furono teneri verso i culti preesistenti, lo avevano capito.

Il Venerabile Beda annota nelle sue cronache come Gregorio Magno consigliasse ai monaci, che si accingevano a evangelizzare Anglia e Irlanda, di distruggere gli idoli, ma preservare i fana. I luoghi, cioè, dove il sacro si manifesta in tutta la sua potenza numinosa. Proprio lì, sui luoghi degli antichi altari pagani, dovevano essere eretti i simboli della nuova fede. Nel caso della festa di San Giovanni questa continuità fra paganesimo e cristianesimo è stata evidenziata con grande precisione da Vittorio Lanternari:

“Nel calendario romano il dì 24 giugno, che segna la celebrazione di Fors Fortuna, è indicato anche come «Solstitium», «Lampas», o addirittura come «dies lampadarum». Se da un lato ciò pone inequivocabilmente la giornata sotto il segno del culto solare («Lampas» era designazione del «solstizio») d'altro canto rimanda ad un'usanza che vedremo attestata fino a tempi recenti, consistente nel portare fiaccole accese (lampades) per i campi nel dì di San Giovanni. Onde è chiaro che il culto di San Giovanni formalmente ha assunto in sé la religione romana del Sole coi suoi riti connessi. Che poi il culto solare avesse, almeno in quest'occasione, un fondamentale contenuto agrario risulta – oltre che dalla celebrazione di Fors Fortuna, divinità originariamente solare e agraria – dal fatto che proprio in questo giorno (dies lampadarum) religiosamente si inaugurava la mietitura, e Cerere era perciò – a quanto pare – l'altra dea dedicataria. Il rito col quale fiaccole accese erano portate attraverso i campi ripeteva forse, come a Eleusi, il mito nel quale Demetra (Cerere), dea della terra madre, andava, al lume di fiaccole, alla ricerca della figlia Persefone – dea del grano – rapita e tratta sotterra da Plutone: mito che adombra la scomparsa della vegetazione dopo il raccolto”. (15)

Dunque ci troviamo in presenza di un culto agrario, strettamente connesso alle fasi dell'anno e all'alternarsi delle stagioni e dei cicli della natura. Una tradizione che si perde nella notte dei tempi e che ripropone sostanzialmente sempre gli stessi elementi simbolici. Un'ipotesi già avanzata agli inizi del Novecento dall'inglese James Frazer, autore di un'opera, Il Ramo d'oro, oggi in parte superata ma che ha segnato una svolta negli studi etnologici. Scrive Frazer:

“Su un tale sostrato poteva ben svilupparsi la festa di San Giovanni, la quale ha infatti diffusione pressoché universale entro il mondo occidentale, e particolarmente tra le plebi rustiche si presenta con un rituale pagano complesso e tuttora vivace, attestante anche oggi con tutta chiarezza le sue origini precristiane, che in certe località almeno si possono far risalire fino ad epoca preistorica”. (16)


    Duomo di Ferrara. Maestro dei Mesi, Giano (1225-1230 ca)

I due San Giovanni e Giano bifronte

Festa complessa, la definisce Lanternari ed in effetti l'insieme dei miti e dei riti legati a San Giovanni presenta una molteplicità di significati. Una festa carica di ambiguità a partire proprio dal fatto che i solstizi sono due e che le figure che vi si riferiscono hanno di conseguenza un duplice volto.

Man mano che luoghi, riti, feste vengono cristianizzati San Giovanni viene ad assumere nel Cristianesimo, il posto che occupavano nella ripartizione delle feste della Roma Imperiale altre figure sacre, come il Dio Giano di cui una faccia guardava il passato, l’altra l’avvenire. Di nuovo troviamo il simbolismo delle porte cosmiche:

Giano, dio bifronte del principio e della fine, è il guardiano delle porte e dei confini. “Io solo custodisco il vasto universo e il potere di volgerlo sui suoi cardini [e] con le miti ore presiedo alle porte del cielo”. Così Ovidio nei Fasti presenta il dio misterioso. (17)

Giano è colui che conduce da uno stato all’altro dell'esistere, dal regno dei morti attraverso la Ianua Inferi a quello degli dei attraverso la Ianua Coeli. E' l'entità superiore che presiede alle iniziazioni. Come due sono i solstizi, così due sono le facce visibili di Giano e due i San Giovanni, quello invernale, l’evangelista, e quello estivo, il Battista. In passato si sottolineava spesso la somiglianza fonetica fra Ianus e Iohannes, quasi a trovare nel nome il collegamento fra le due figure. Oggi gli studiosi rifiutano questa tesi semplicistica. E' sul piano più complesso del simbolico e non su quello meramente fonetico che la funzione di Giano «chiave» delle due porte viene ripresa ed esaltata nella figura dei due Giovanni che annunziano e svelano il misterioso avvento del Cristo. E' la posizione dei due Santi alla data dei solstizi a conferire loro una doppia natura, spirituale e cosmologica ad un tempo.


Il San Giovanni di René Guénon

Il cristianesimo fin dai primi secoli farà propria questa tradizione, troppo radicata nell'anima popolare per essere cancellata, cercando di attenuarne gli elementi pagani. Giano lascerà il posto di custode delle porte solstiziali ai due San Giovanni, ma in molti luoghi le antiche credenze conviveranno con le nuove quasi fino ai giorni nostri. Nella tradizione cristiana il solstizio d’inverno apre la fase ascendente del ciclo annuale e coincide con la nascita di Cristo, mentre quello estivo apre la fase discendente e coincide con la nascita del Battista che del Salvatore è il precursore.

Un valido aiuto nell'analisi del mito giovanneo ci viene da René Guénon, il maggiore studioso del pensiero tradizionale, le cui opere hanno segnato in profondità momenti non marginali della cultura del Novecento. (18) Un autore molto conosciuto e apprezzato anche in Italia soprattutto dopo la pubblicazione delle sue opere principali a cura della prestigiosa casa editrice Adelphi. In una serie di scritti degli anni Venti riuniti dopo la sua morte in volume egli tratta approfonditamente della questione:

“Per quanto l'estate sia in genere considerata una stagione gioiosa e l'inverno una stagione triste, per il fatto stesso che la prima rappresenta in certo modo il trionfo della luce e il secondo quello dell'oscurità, i due solstizi corrispondenti hanno nondimeno, in realtà, un carattere esattamente opposto; può sembrare un paradosso abbastanza strano, ma è facile capire perché sia così purché si abbia una qualche conoscenza dei dati tradizionali riguardo al cammino del ciclo annuale. Infatti, ciò che ha raggiunto il suo massimo può ormai solo decrescere, e ciò che è giunto al suo minimo può invece solo cominciare a crescere ; per questo il solstizio d'estate segna l'inizio della metà discendente dell'anno, mentre il solstizio d'inverno, all'opposto, segna quello della sua metà ascendente; e ciò spiega pure, dal punto di vista del significato cosmico, l'espressione di San Giovanni Battista, la cui nascita coincide con il solstizio d'estate: «Bisogna che egli cresca (Cristo nato al solstizio d'inverno) e che io diminuisca». (19)



9. Alfredo Cattabiani, Calendario, Milano, Oscar Mondadori, 2008, p. 229.
10. Omero, Odissea, Libro XIII, vv. 111-112. Versione italiana di Maria Grazia Ciani, Milano, Rizzoli, 2008, p. 437.

11. Heinrich Heine, Atta Troll, citato in: Maria Savi-Lopez, Leggende delle Alpi, Torino, Loescher, 1889, p. 40.
12. Carl Gustav Jung, L'uomo e i suoi simboli, Milano, Longanesi, 980, p.77.
13. Mircea Eliade, Miti sogni e misteri, Milano, Rusconi, 1976, pp. 19-20 e poi p. 30. Di Eliade si può vedere sul tema anche Mito e realtà, Roma, Borla, 2007. In particolare il capitolo nono: Sopravvivenze e travestimenti dei miti.
14. Octavio Paz, Arbol adentro, Barcelona, Seix Barral, 1987, p. 11.
15. Vittorio Lanternari, Cristianesimo e religioni etniche in Occidente, Un caso concreto d'incontro: la festa di San Giovanni, in: Occidente e Terzo Mondo, Bari, Dedalo, 1967, pp. 330-331.
16. Ibidem.
17. Ovidio, Fasti, Libro I, Versi 119-120 e 125-126.
18. Primo di tutti il movimento surrealista e in particolare l'opera di André Breton.
19. René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1975, p. 216.

2. continua