Marsiglia di notte è
un luogo d'ombre, abitato da fantasmi. (Decimo capitolo de Le
illusioni d'Itaca)
Giorgio Amico
Le illusioni d'Itaca
10. Marsiglia di notte
Trovò un hotel proprio
allo sbocco della grande via che conduceva al Vieux-Port. Un albergo
moderno, all’americana, tutto luci e vetrate, in ogni cosa simile
ai mille altri dove era stato in quegli anni. Luoghi freddi,
asettici, senza storia. Buoni solo per scopate senza amore. Alla
reception un portiere annoiato gli consegnò la chiave della sua
camera senza fare commenti sul fatto che egli fosse praticamente
senza bagaglio.
- Venez-vous a Marseille pour la premier fois? - Gli chiese tanto per darsi un contegno.
- Non.
E il tono non invitava a
fare altre domande.
- Bon… votre chambre est au troisième étage. Il y a aussi un très grand balcon sur le Vieux-Port. Bonne nuit, Monsieur.
- Bonne nuit.
In effetti la sua camera
dava direttamente sul Vieux-Port. Dal grande balcone ne aveva una
visione completa. Come sempre quella vista lo colpì per la sua
bellezza. File di imbarcazioni stazionavano ordinate nella darsena
mentre la risacca ne faceva ondeggiare lievemente le alberature
producendo un soffuso tintinnio metallico. Un battello turistico,
l'ultimo della giornata, proveniente dalle isole del Frioul e dal
Chateau d’If, stava attraccando in quel momento alla banchina. A
prua un gruppo di giapponesi nell’attesa di sbarcare fotografava i
palazzi del Quai de la Rive Neuve e del Quai des Belges. La vista era
magnifica, ma il suo cuore non ne gioiva. Non sapeva neppure lui cosa
ci facesse lì, in quell'albergo. Era da quando era entrato nella
camera che se lo chiedeva.
Chiamò il bar, si fece
portare in camera una bottiglia di Oban e cominciò a bere alternando
il whisky liscio con la Perrier gelata del frigobar. Dalla stanza
accanto provenivano voci e il rumore di un televisore acceso.
Accese a sua volta il
televisore. Sullo schermo apparvero le immagini di un vecchio film in
bianco e nero. Riconobbe quel film, lo aveva visto tanti anni prima
con Giulia. Raccontava la storia di una donna divisa fra due uomini,
ma padrona della propria vita. Decisa a gestire la propria esistenza
a ogni costo. Nonostante tutto e tutti.
Ricordava come Giulia si
fosse fortemente identificata con il personaggio di Catherine (questo
il suo nome), con il suo rifiuto dell'ipocrisia e del perbenismo
borghese. Ricordava ancora come fosse uscita eccitata dal cinema,
ammirata per la sensibilità quasi femminile con cui il regista aveva
tentato di rendere le raffinate atmosfere del romanzo di Roché che
avevano letto entrambi ai tempi del liceo. Un tentativo, quello di
Truffaut, gli aveva spiegato in una delle loro animate discussioni,
non tanto di fare un film sull'esperienza della libertà assoluta,
quanto di girare un film assolutamente libero su di un'esperienza
fallita di libertà.
Da chissà quale luogo
remoto della memoria gli ritornarono le frasi che Jeanne Moreau
pronunciava fuori campo all'inizio del film:
"Tu mi hai detto:
t'amo. Io t' ho detto: aspetta. Stavo per dirti: prendimi: Tu mi hai
detto: vattene".
Quante volte Giulia
gliele aveva ripetute. Era diventato quasi un gioco fra di loro, un
motivo di scherzo e di risa. Ora comprendeva il senso profondo di
quelle poche battute. Il loro metaforico esemplificare la crudele
ambiguità del rapporto d’amore.
Si sdraiò sul letto,
spense la luce. Nel buio della stanza, illuminata dalla pallida
fluorescenza del televisore, le immagini del film facevano da sfondo
all'errare inquieto dei suoi pensieri.
Ricordava una delle
ultime sere che avevano passato insieme. Avevano cenato in un
ristorante sul mare. Lei aveva appena toccato il cibo che pure era
buono. In qualche modo aveva capito che in lui qualcosa stava
cambiando. Che la sua mente sempre più spesso era altrove. E aveva
avuto paura.
Usciti dal ristorante,
avevano camminato a lungo per le vie deserte della loro città
stretti l'uno all'altra.
- Andiamo sulla spiaggia? - Giulia gli aveva chiesto
Lui non aveva risposto.
- Non vuoi che andiamo sulla spiaggia? - Aveva insistito.
Aveva cercato di
risponderle con una battuta, ma lei era rimasta seria.
Giù lungo la riva
l'odore del catrame si fondeva con quello della notte. Alle loro
spalle le luci della città bruciavano come falene nelle tenebre. E
ad un tratto avevano sentito il respiro notturno del mare avvolgerli
e tutto era parso loro cambiare aspetto, assumere nuove sembianze,
mentre lontano sulla linea tremula dell'orizzonte il buio della notte
stagnava. Un preludio, forse, di ciò che li attendeva, di ciò che
stava per accadere loro. In silenzio continuavano a stringersi l'uno
all'altro sapendo che mai più sarebbero riusciti a ricreare quel
momento, che mai più si sarebbero sentiti in quel modo. Tormentato
dai suoi dubbi, lui si sentiva confuso, nonostante il tepore del
corpo di lei stretto al suo. Aveva dimenticato le parole che pure da
tempo voleva dirle. E il suo cuore lentamente si riempiva di notte,
di nebbia e di vento.
Giulia si era turbata per
il suo silenzio.
- Cosa c’è? - Gli aveva chiesto - Non sei felice qui con me?
La sua voce tremava.
Quando si era chinato per
baciarla, si era accorto che nel buio lei stava piangendo. Una rabbia
cieca lo aveva preso. Le si era rivolto bruscamente, con asprezza.
- Cosa succede? Cos' hai?
- Nulla, non ho nulla.
A capo chino aveva
continuato silenziosamente a piangere. Tirando su col naso, come
fanno i bambini quando non vogliono farsene accorgere.
- Mi dispiace, Giulia. Mi dispiace davvero. - Non gli venivano altre espressioni che quelle frasi banali.
Più tardi nella loro
camera, mentre di là nel bagno Giulia si preparava per lui, si era
vergognato per quelle parole, per quella rabbia, per averla fatta
piangere. Sapeva che l'inquietudine che lo rodeva l'avrebbe presto
portato via di lì e questo lo faceva sentire in colpa. A poco era
servita la foga con cui avevano fatto l'amore, con cui si erano
vicendevolmente dati e presi. Aveva ragione Giulia: la sua mente era
ormai altrove, lontano da lei. Pur sentendo di amarla ancora, pur
desiderandola con ogni fibra del suo corpo, qualcosa di indefinibile
si ergeva ormai fra di loro, li allontanava sempre più l'uno
dall'altro.
In silenzio, davanti allo
specchio, lei pettinava i suoi lunghi capelli neri. Sdraiato sul
letto lui la guardava e avrebbe voluto pregarla di smettere, di
voltarsi e sorridergli, di fare ancora l'amore con lui, ma non
c'erano parole, né segni per riparare a ciò che era accaduto tra
loro.
Si accorse all'improvviso
che il televisore non trasmetteva più nulla. Di stare fissando uno
schermo vuoto. Si riscosse da quei pensieri. Inutili, come le cose
passate. Bevve un altro bicchiere di whisky, poi si alzò, si
avvicinò al balcone aperto e guardò fuori nella notte. Giù nel
porto luci di segnalazione verdi e rosse contrastavano singolarmente
con le lampade allo iodio dell'illuminazione stradale. Aveva caldo.
Andò nel bagno per farsi una doccia. Lo scroscio dell'acqua fredda
sul suo corpo lo svegliò del tutto. Dalla banchina sottostante gli
giunsero le voci dei facchini che stavano scaricando le cassette del
pescato per il mercato del giorno dopo. Guardò l'orologio sul
comodino: era l’una. Ancora troppo presto per andare a dormire. Con
gesti lenti si rivestì, si chiuse la porta della camera alle spalle,
percorse il lungo corridoio silenzioso fiocamente illuminato dalle
luci notturne, scese nella hall deserta. Dietro il bancone della
reception il portiere di notte tutto preso dal suo computer non si
accorse neppure di lui.
La notte calda di
Marsiglia lo accolse nel suo abbraccio salmastro appena fuori la
grande porta girevole dell’hotel. Era molto tardi, ma le strade
erano ancora piena di gente. Lentamente si incamminò lungo il Quai
du Port, in direzione del Fort St-Jean che intravvedeva sullo sfondo,
grande macchia bianca nella luce dei riflettori a chiudere
l'imboccatura della darsena.
Rannicchiato in un
angolo, avvolto in una palandrana consunta, una bottiglia di vino
semivuota accanto, un vecchio clochard al suo passare si mise a
intonare La Varsovienne.
En rangs serrés l'ennemi
nous attaque,
Autour de notre drapeau
regroupons-nous
Que nous importe la morte
menaçante,
Pour notre cause soyons
préts à mourir !
("A ranghi serrati
il nemico ci assale,/ stringiamoci attorno al nostro vessillo/ Che ci
importa della morte,/ siamo pronti a morire per la nostra causa!")
Si fermò a guardarlo. Si
frugò in tasca e mise qualche moneta vicino alla bottiglia.
- Salut, mon camarade. - Lo salutò il vecchio alzando il pugno chiuso.
- Salut - Rispose lui - Ça va?
Il vecchio borbottò
qualcosa. Lui si voltò e riprese a camminare, ma il vecchio lo
richiamò indietro.
- Attention à les mouchards et à les gendarmes. Ils sont partout, comme les fachos du Front National! Ces salauds!
E sputò per terra. Uno
sputo lungo, dritto davanti a sè. Un gesto d’orgoglio a
ricordargli che sotto quegli stracci c’era ancora un uomo, che la
rivoluzione è un’avventura del cuore.
- Merci, camarade. Je ferai attention.
- Attention à la taupe, - aveva ripreso a dire il vecchio con l’espressione misteriosa di chi svela un arcano - elle est fragile. Et pourtant, avec patience, avec obstination, de galeries en soutarrains, elle va en souriant son cheminement de taupe vers des nouvelles irruptions.
Gli parve di conoscere
quelle parole, di averle già sentite.
- Lo spirito soffia dove
vuole. – Pensò.
Mentre si allontanava
sentì il barbone intonare a squarciagola il ritornello di una
vecchia canzone rivoluzionaria, L'Appel du Komintern:
Quittez les machines,
dehors prolétaires,
Marchez et marchez,
formez-vous pour la lutte,
Nous ne craignons pas la
torture, ni la mort,
En avant prolétaires,
soyons prêts, soyons forts!
("Abbandonate le
macchine, uscite fuori o proletari,/sù in marcia, preparatevi alla
lotta,/non temiamo la tortura o la morte,/avanti proletari, siamo
pronti, siamo forti!")
La tortura e la morte.
Gli venne da sorridere.
(continua)