Alla Casa dei
Carraresi di Treviso una mostra racconta la formazione dell'artista
spagnolo. La modernità inquietante dei suoi corpi ha profondamente
influenzato l'arte moderna.
Melania Mazzucco
El Greco. L'eterno
straniero in viaggio tra le culture
Il segreto della pittura
del Greco è scritto nel nome con cui è passato alla storia. Lui si
firmò, sino alla fine, in caratteri greci, Dominikos Theotokopoulos.
In Italia, lo chiamavano Il Greco. In Spagna, dove arrivò a
trentasette anni e rimase per sempre, non lo chiamarono mai, né lui
mai volle chiamarsi El Griego. Rimase sempre El Greco, in italiano.
Il nome due volte straniero riassumeva l'orgoglio di una doppia
appartenenza e di una doppia formazione culturale (nell'arte
bizantina e poi italiana), ma anche il duplice sradicamento,
l'identità plurima: era il più appropriato a un artista
"stravagante".
La geografia della sua
vita è una lezione di storia economica e politica, il suo successo
la prova che in tempi di conflitti e sconvolgimenti la salvezza
risiede nella mobilità. Il suo viaggio procede, inesorabilmente, da
est verso ovest, dalla periferia verso il centro: è una migrazione
senza ritorno. Da Creta, colonia veneziana minacciata dal pericolo
islamico (in cui la sua famiglia era al servizio degli occupanti: il
padre esattore delle imposte, il fratello maggiore daziere), il
giovane maestro si trasferisce prima nella capitale dell'Impero,
Venezia, e poi nella capitale della Cristianità, Roma. Ma il
baricentro della storia europea si è spostato in Spagna, dove
affluiscono le enormi ricchezze del Nuovo Mondo.
Così intorno al 1577 il
Greco sceglie Madrid: là Filippo II sta costruendo il
monastero-palazzo dell'Escurial e attira artisti da tutto il
continente. Il progetto fallisce, ma El Greco approda a Toledo,
capitale a sua volta: della Controriforma spagnola. Qui apre subito
bottega, riceve commissioni di prestigio, mette su casa e famiglia
(con la virtuosa compagna Jeronima, che non sposa, ma che gli dà il
figlio ed erede, Jorge Manuel), accumula e sperpera ricchezze enormi.
Resta, però, sempre uno straniero. Non apprende mai correttamente il
castigliano. Nella sua biblioteca, colleziona 27 libri in greco, 67
in italiano e solo 17 in spagnolo.
La sua posizione sghemba
rispetto alla società che pure lo accoglie, lo protegge e alla fine
gli concede l'inaudito privilegio di non pagare le tasse per meriti
artistici – riconoscendo così la pittura, fino a quel momento
disprezzata come mestiere meccanico, quale arte liberale – gli
consente di poter sperimentare e innovare. La furiosa libertà del
suo pennello, la verticalità slungata delle figure, la potenza
visionaria, il tono livido del colore non impediscono alla sua
pittura di essere apprezzata dall'élite di Toledo: religiosi,
mercanti, avvocati, professori, frati e poeti diventano suoi amici,
suoi committenti, suoi modelli. Memorabili i ritratti che farà loro:
quello del sinistro Inquisitore Guevara con gli occhiali neri è uno
dei più impressionanti della storia dell'arte europea.
Siamo abituati a
immaginarlo col volto malinconico e spirituale del Ritratto del Met
di New York, ma in realtà non sappiamo se quello sia davvero un
autoritratto. Non sappiamo nemmeno se fosse ortodosso, cattolico
devoto, credente o addirittura ateo. E la modernità irresistibile di
certi suoi quadri di soggetto profano (la Donna in pelliccia , il
Ragazzo con la fiamma ) fa rimpiangere che gliene commissionassero
così pochi. Conosciamo meglio il suo carattere.
Era litigioso, indocile.
Si considerava un intellettuale e un filosofo. Le sue opinioni erano
perentorie. Il più bel quadro del mondo? La Crocifissione di
Tintoretto a san Rocco. Vitruvio? Sopravvalutato. Omero? Inimitabile.
Ma la sua più celebre boutade l'ha pronunciata nella sua vecchiaia.
Michelangelo, disse El Greco, era «un brav'uomo, ma non sapeva
dipingere». Di lui dissero invece che le sue pitture erano ridicole,
il colore sgradevole, il disegno sconnesso. Paradossi da cui si
desume che la stroncatura è privilegio del genio.
La repubblica – 24
ottobre 2015