"E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevano sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo, e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita".
Italo Calvino
Giorgio Amico
Beppe Fenoglio.
Partigiano e scrittore
Nel giugno 1964 Italo
Calvino nella prefazione ad una nuova edizione del suo primo romanzo
“Il sentiero dei nidi di ragno”, tira un bilancio definitivo del
rapporto fra Resistenza e letteratura. Dopo aver narrato i tentativi
frammentari, spesso ingenui, di raccontare l'epopea partigiana nei
primi anni del dopoguerra e il successivo ripiegamento negli anni
Cinquanta con l'abbandono quasi generale del tema, Calvino conclude
con grande determinazione indicando in Beppe Fenoglio il vero,
grande, cantore del movimento partigiano:
“Ma ci fu chi continuò
sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più
isolati, i meno “inseriti” a conservare questa forza. E fu il più
solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevano
sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e
arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì
prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro
che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro
lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio,
possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che
è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di
ragno a Una questione privata. Una questione privata [...] è
costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa
e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso
tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori,
vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente
dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti
quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di
paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un
libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso,
in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e
quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero
perché. È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non
al mio”.
Un giudizio da allora mai
rimesso in discussione e che anzi il trascorrere del tempo e la
conoscenza più approfondita dello scrittore piemontese ha semmai
sempre più confermato. Dunque in campo letterario la Resistenza
porta il nome di Beppe Fenoglio che la narrò in quasi tutte le sue
opere, dai primi “Appunti partigiani” del 1946, ai racconti de “I
ventitre giorni della città di Alba” del 1952, ai romanzi
“Primavera di bellezza” del 1959 e “Una questione privata”
del 1962, per culminare poi nel grande affresco incompiuto de “Il
partigiano Johnny”.
Ma chi era Beppe
Fenoglio? In una lettera inviata proprio a Italo Calvino, che gli
chiedeva i dati biografici in vista della pubblicazione del suo primo
libro “I ventitre giorni della città di Alba”, lo scrittore si
raccontava in due scarne righe:
“Circa i dati
biografici, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno. Nato
trent’anni fa ad Alba ( primo marzo 1922) – studente
(Ginnasio-liceo, indi Università, ma naturalmente non mi sono
laureato) – soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo,
uno dei procuratori di una nota Ditta enologica. Credo che sia tutto
qui”.
Qualcosa di più del
personaggio e della sua idea di scrittura comprendiamo da un'altra
sua dichiarazione autobiografica pubblicata postuma nel 1964:
“Scrivo per un'infinità
di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un
avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti
impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non
coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per
restituirmi sensazioni passate; per un'infinità di ragioni, insomma.
Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile
delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi
rifacimenti”.
Da queste due scarne
testimonianze emergono gli elementi centrali della vita e dell'opera
di Fenoglio: Alba con le Langhe e la Resistenza. Figlio di un
contadino di langa in fuga dalla fame sceso ad Alba a fare il
macellaio, prima liceale povero nella scuola dei figli dei ricchi,
poi studente universitario a Torino, richiamato a inizio del ’43,
frequentante il corso d’allievi ufficiali, Fenoglio viene sorpreso
dall’otto settembre a Roma, dalla quale fortunosamente riesce a
rientrare nella sua città (bellissimo in “Primavera di bellezza”
il suo schizzo della stazione di Savona occupata dai tedeschi), per
entrare poi nella Resistenza, prima nelle Brigate Garibaldi e poi
nelle formazioni monarchiche. Un'esperienza fondamentale, tanto che
già nel 1946 egli scrive una serie di racconti, gli “Appunti
partigiani”, dedicati “ A tutti i partigiani d'Italia. Morti e
vivi”, mai pubblicati in vita e recuperati per puro caso molti anni
dopo.
Su quattro piccoli
taccuini, registri dei conti del padre che teneva casa e bottega a
fianco della cattedrale, su fogli sormontati da un casellario che
definisce data, carne, prezzo e importo, il giovane Fenoglio inizia
il suo racconto della Resistenza che è prima di tutto descrizione di
un paesaggio amato. “le Langhe del mio cuore – scrive Fenoglio
nel primo capitolo – quelle che da Ceva a Santo Stefano Belbo, tra
il Tanaro e la Bormida, nascondono e nutrono cinquemila partigiani e
gli offrono posti unici per battagliarci, chi ne ha voglia. E suonano
male a chi i partigiani li vuole morti ammazzati”.
Perchè è stata la
Langa, antica terra madre, a proteggere i partigiani e a sconfiggere
i nazifascisti:
“Loro – scrive in un
passo bellissimo degli “Appunti” - avevano ammazzato, più
borghesi che partigiani, avevano fatto falò di cascine, e razziato,
avevano sforzato donne, intruppati uomini e preti perchè gli
portassero le cassette delle munizioni e gli facessero scudo da noi.
Erano venuti in tre divisioni, per setacciare tutto e tutti. Ma,
chiedo perdono ai morti e alle loro famiglie, scusa a quelli che ci
han perduta la casa e il bestiame, ma io credo che allora tedeschi e
fascisti non si siano salvate le spese. Non fu abilità nostra, né
che loro fossero tutte schiappe. Fu, con la sua terra, la sua pietra
e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa”.
E stato Calvino a notare
come la Resistenza abbia rappresentato “la fusione tra paesaggio e
persone" Non c'è espressione migliore che possa definire la
guerra partigiana come la racconta Fenoglio. Una guerra feroce che
nasce e si svolge tra i boschi, le colline, nei luoghi più nascosti
di quella terra fra Tanaro e Bormida chiamata Langa. “Un mondo
fatto per vivere in pace”, scrive ne “I ventitre giorni”,
sconvolto dalla violenza cieca della guerra. Niella
Belbo,Mombarcaro, San Benedetto Belbo, Mango, Murazzano, borghi senza
tempo persi in un mare di colline, diventano testimoni e attori di
una storia grande e terribile di ribellione e di riscatto.
In questo paesaggio si
inseriscono le vicende dei partigiani ed in particolar modo
l'esperienza del partigiano Johnny (alter ego dello scrittore). E' il
grande romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1968 (e in una
nuova versione, forse definitiva, nel 2015) che racconta l'epopea
partigiana di Johnny/Fenoglio dal suo ritorno a casa dopo l'8
settembre fino allo scontro di Valdivilla del 24 febbraio 1945.
Poco compreso ai suoi
inizi letterari, duramente criticato da sinistra, Fenoglio fu
accusato addirittura di aver denigrato la Resistenza, di averla
raccontata in modo farsesco e poco eroico. Principale accusatore Davide Lajolo, allora direttore dell'edizione milanese de “l'Unità”
che anni dopo riconoscerà il suo errore e farà ammenda scrivendo
una biografia di Fenoglio, un sincero e fraterno omaggio allo
scrittore rappresentato come un puritano, “un guerriero di Cromwell
sulle colline delle Langhe”.
“Eravamo tra quelli –
scrive Lajolo – che si sono adontati e non riconoscemmo in Fenoglio
il cantore della Resistenza (…) ci diede l'impressione che non
avesse capito né durante né dopo cos'era stata quell'unica guerra
patriottica”.
Colpiva negativamente
nella sua scrittura la assoluta mancanza di retorica resistenziale,
quella retorica propagandistica, ammetterà Lajolo, retaggio del
passato fascista e che Fenoglio non conosceva proprio per essersi
formato negli anni delle parate e delle divise, da autodidatta nel
piccolo mondo di Alba sui testi dei grandi classici inglesi,
Shakespeare e Milton soprattutto.
Per cui (e riprendiamo
Lajolo) “Oggi, a distanza di anni, appare ancor più vera la
Resistenza così come l'ha narrata Fenoglio perchè se fosse stata
quale noi l'abbiamo descritta (…) non avrebbe potuto essere messa
da parte dal ritorno conservatore del prefascismo, dall'arroganza
antidemocratica di chi l'ha perseguitata e esclusa dalle scuole. (…)
Anche in questa luce Fenoglio vide giusto e fu lo splendido cantore
del nostro autentico risorgimento”.
Beppe Fenoglio muore di
tumore all'Ospedale Molinette di Torino il 18 febbraio 1963. Non
aveva ancora compiuto quarantuno anni. Con lui sparisce forse il più
grande scrittore nel dopoguerra. Muore semplicemente, come
semplicemente era vissuto. Il giorno prima di morire lascia scritto
al fratello: “Funerale civile, di ultimo grado, domenica mattina,
senza soste, fiori e discorsi”.
Sulla sua tomba vuole sia
scritto: “Beppe Fenoglio. Partigiano e scrittore”