TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 4 dicembre 2009

Pino Bertelli, Sulla teologia della fotografia di strada

Pino Bertelli

Pino Bertelli è una delle figure centrali del neosituazionismo italiano. Attivo da anni nella critica cinematografica indipendente, è sicuramente il più originale dei fotografi di strada operanti in Italia. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo: Cinema dell'eresia, Dell'utopia situazionista, Contro la fotografia.
Iniziamo la pubblicazione di una sua appassionata (e lucida) riflessione sulla fotografia, le sue potenzialità come linguaggio di liberazione e il suo uso nella mercificazione spettacolare del reale. Sappiamo che un blog è fatto prevalentemente di comunicazioni veloci, ma crediamo che questo testo ripaghi la fatica (peraltro resa molto piacevole da un linguaggio semplice e vivo) del lettore offrendo spunti di riflessione che vanno ben al di là di una semplice estetica dell'immagine.

Pino Bertelli

Annotazioni sulla sovversione non sospetta del linguaggio fotografico
(Prima parte)


“La teologia della liberazione che cerca di partire dall’impegno per abolire l’attuale situazione d’ingiustizia e per costruire una società nuova, deve essere verificata dalla pratica dello stesso impegno… Tutte le le teologie politiche della speranza, della liberazione, della rivoluzione, non valgono un gesto di solidarietà con gli uomini, con le classi e con i popoli oppressi”.
Gustavo Gutierrez

“L'uomo nasce libero ed ovunque è in catene”
J-J. Rousseau

“È deplorevole per l’educazione della gioventù che i ricordi sulla guerra siano sempre scritti da gente che la guerra non ha ammazzato”.
Louis Scutenaire



Ouverture in forma di rosa

Mio padre e mia madre mi hanno insegnato ad amare il diverso, il povero, l’escluso e mi dicevano vicino al fuoco, mentre il pesce azzurro arrostiva nel sale, che nessuno può comprare un sorriso… e ancora… una mosca quando muore soffre quanto un re… e quando fuggivo sul tetto a guardare le stelle, a cercare la regina degli stracci sulla Via Lattea… fai quello che vuoi, ma quello che fai fallo con amore… perché quand’anche avessi tutti i mari e i cieli della terra, e tutto l’onore degli uomini, se non ho l’amore non sono niente… e quando penso a mio figlio e al figlio suo che sta per nascere… penso a tutta la cattiveria alla quale andrà incontro, alla mediocrità, alla rapacità, alla violenza della quale è capace una grande parte dell’umanità ricca… è a quel bambino che penso e ai poveri della terra… e allora sogno di andare a costruire un mondo in cui ogni uomo, senza eccezione di razza, di religione, di nazionalità… possa vivere una vita pienamente umana, liberata dalle schiavitù che gli vengono da altri uomini… fuori dall’amore non c’è salvezza.

La Teologia della fotografia di strada (che facciamo nostra) si riconosce nella pedagogia degli oppressi che unisce teoria e prassi e secondo l’insegnamento di Paulo Freire, tende a modificare la relazione tra l’uomo oppresso e l’ambiente che lo circonda. La coscienza critica della fotografia di strada come teologia di liberazione, trova un suo linguaggio e diventa essa stessa icona o traccia di trasformazione radicale della società ingiusta. “Indicami qualcuno che ami ed egli comprenderà quello che sto dicendo. Dammi qualcuno che desideri, che cammini in questo deserto, qualcuno che abbia sete e sospiri per la fonte della vita. Mostrami questa persona ed ella saprà quello che voglio dire” (Agostino, il berbero).

La teologia della fotografia di strada si oppone alla violenza istituzionalizzata e non si scandalizza che contro la violenza ingiusta degli oppressori, possa sorgere la violenza giusta degli oppressi. Quando l’ingiustizia ha posto al suo servizio la legalità, l’ordine, il diniego… le classi povere private del diritto alla voce, alla dignità, alla presenza… alla fotografia di strada non resta che lavorare per un’educazione liberatrice e passare dalle condizioni di vita inumane a condizioni più umane, con ogni mezzo.

Del documento fotografico

Il documento fotografico è qualcosa di diverso dalla fotografia documentaria e dalla fotografia di strada… sono moti i libri, manuali, guide alla critica fotografica che dedicano interi capitoli al documento fotografico o alla fotografia documentaria e sovente li confondono. Il documento fotografico riguarda l’insieme delle fotografie che nel tempo si trascolorano in storia delle immagini… è uno strumento informativo e non necessariamente l’intervento dell’autore è cosciente. Il documento fotografico indica un momento, un accadere, una situazione indicativa… comunica un messaggio, è l’attimo fermato in un’immagine al quale il tempo conferirà un’aurea storica. Il documento fotografico registra un avvenimento e questa “causalità iconografica” si traduce in “documento”, quando contiene significati subito riconoscibili e portata sociale d’interesse comune.

In questo senso, (al di là del valore estetico), un matrimonio, un funerale, una fototessera, una foto segnaletica della polizia, la lapidazione di una puttana araba, un paio di torri di cemento che crollano incendiate da atti di terrorismo, la diva del cinema senza mutande, il presentatore televisivo che si confessa gay davanti alle telecamere, operai uccisi dal cancro nelle fabbriche dell’Occidente, minatori morti nelle miniere della Russia o della Cina, bambini morti per fame nei Sud della terra, soldati morti nelle guerre del petrolio, delle fedi (ebree, cristiane, musulmane) o del mercato globale… in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo (digitale o analogico fa lo stesso) queste immagini sono raccolte, si rovesciano in documento. Non importa che siano a fuoco, mosse o appena leggibili. L’importante è che il “segno” del momento sia fissato su un supporto e non soltanto nelle parole dei giornalisti, dei preti, degli storici o dei politici. Come sappiamo, col senno di sempre, i detentori dell’informazione, delle dottrine, dei saperi e dei governi hanno riempito le fosse comuni dell’umanità disprezzata.

I galleristi, gli operatori culturali, i critici prezzolati… riciclano tutto, dall’icona di “Che” Guevara ai bambini che tiravano i sassi in Palestina (prima che il massiccio intervento dei dollari americani mettesse il bavaglio alla terra dei senza terra e infilasse nei fucili la stoppa del futuro benessere). La fotografia non vende ma serve per riciclare altre cose, fare mercimoni, scrivere e parlare di nuove scemenze che fanno tendenza. La fotografia è una guida turistica alla quale mancano (o sono state strappate) le immagini essenziali della sua storia: quelle del disvelamento di un’esistenza planetaria vessata, umiliata e offesa. Se c’è un angolo culturale che fa pensare all’industria zuccheriera o al tanfo delle fogne, è proprio il mondo dorato della fotografia: poco succo, molta merda.

Quando l’etica dei fotografi, come quella degli operai, non si preoccupava molto dei comandamenti mercantili e i bambini crescevano nelle strade, in prossimità delle bettole, con i piedi scalzi nel sole… gli uomini con la “scatola delle illusioni” inventarono la disinvoltura, l’amore e la libertà. Sfuggivano ad ogni patria e alla cittadinanza del nome… trovavano sempre non-luoghi della fantasia dove ritornare a giocare alla propria infanzia. La più grande catastrofe di tutti i tempi fu la fuga del mio canino Titti. Un bastardo che quando morì mia nonna, scappò di casa e volò (forse) nei colori irrecuperabili di quel cielo africano bagnato dallo scirocco. Così presi a leggere. Di tutto, all’infuori dei libri di scuola. Ho compreso poi che “l’istruzione obbligatoria è il miglior metodo di abbrutimento delle folle per mantenerle nell’ignoranza” (Louis Scutenaire). Però mi piacevano le fotografie dell’album di famiglia. Mio padre in guerra, la seconda, quella mondiale, in Africa. Le donne nude, i seni alti, i sorrisi incerti, gli occhi malinconici dei servi… e i coltelli puliti dei guerrieri… non avevano mai tagliato una gola dell’oppressore. Erano solo oggetti per la fotografia. E mio padre. In posa con la divisa da marinaio libertino. Bello e anarchico. Se ne fregava della guerra, del duce e del re. Amava la vita e dietro una di quelle immagini di cartone ingiallito, di lui sorridente e con i baffi lucidi, c’è scritto: “A Lina, ti amo e vorrei mangiarti un po’, senza distruggerti”. Era mia madre. Mio padre non aveva mai avuto bisogno di patria, perché mi diceva, il posto dove stai bene e c’è il tuo amore è la tua terra. Ogni bandiera piantata su un palazzo, come ogni croce fissata su una chiesa, rende l’aria irrespirabile e anche il profumo dei tigli muore. Le fotografie di mio padre sono il primo documento fotografico nel quale mi sono imbattuto. Lì dentro ho compreso il valore di un’immagine come memoria o accusa di una storia universale dell’infamia.

(continua)
http://www.pinobertelli.it/index.php?pb=fotografia