Pubblichiamo la Terza e ultima parte del bel testo di Pino Bertelli sulla fotografia. La prima parte è apparsa venerdì 4 dicembre 2009, la seconda sabato 5 dicembre.
Pino Bertelli è una delle figure centrali del neosituazionismo italiano. Attivo da anni nella critica cinematografica indipendente, è sicuramente il più originale dei fotografi di strada operanti in Italia. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo: Cinema dell'eresia, Dell'utopia situazionista, Contro la fotografia.
Annotazioni sulla sovversione non sospetta del linguaggio fotografico
(Terza parte)
Pino Bertelli
La pace si fa con la pace. Chi semina pace raccoglie la pace. Toccare la pace significa disertare i codici, i valori, i credi dell’arte che fa spettacolo di sé. Una società consapevole chiede la pace e l'educazione alla pace comincia con il ripudiare la guerra. Non esiste un uso buono o cattivo della comunicazione (della libertà d'espressione), soltanto un uso insufficiente o inutile di essa. Quand’anche possedessi tutta la ricchezza degli uomini, avessi lo spirito libero degli antichi poeti e parlassi la lingua degli angeli, se non ho l’amore non sono niente.
I briganti dell’arte profanata, decostruita, riattualizzata… lavorano alla demistificazione dei saperi codificati e sulla fine del mercantilismo come forma diffusa dell’inutilità dell’arte. La libertà d’espressione come il rispetto dei diritti più elementari dell’uomo non si dà, si conquista. Capitalismo e schizofrenia sono viacoli dell’inconscio collettivo che ri/produce la comunicazione maniacale, repressiva, idolatrica della società moderna. Le macchine desideranti di Félix Guattari e Gilles Deleuze o la scatola degli arnesi di Michel Foucault, determinano modelli, comportamenti, bisogni dell’immaginario sociale e come negli studi sulla burocratizzazione del mondo di Bruno Rizzi, vanno a configurare l’ideologia dominante nei linguaggi di chiusura delle rappresentazioni artistiche, anche.
La scrittura nobiliare dei corsari dell’utopia non celebra ciò di cui parla né si confonde con i cerimonieri della critica domestica… si chiama fuori dalle menzogne dei commedianti e dalla disonestà dei truffatori… canta la grazia dei poeti e mostra che ogni opera d’arte è una puttana che striscia sugli scanni del consenso o è la celebrazione dell’assassinio di tutte le arti prostituite sul sagrato dell’eternità di falsi miti. Una riflessione autentica sui modi del farearte non si ferma in un museo, in un castello o in una chiesa… lì finisce col morire… ogni opera d’arte muore, infatti, con la deificazione del segno. La morale comune c’indigna non solo per la sua ipocrisia e per la sua mediocre crudeltà… nel cammino di una teologia di liberazione degli oppressi, soltanto una rottura radicale col presente stato di cose (non solo nell’arte), una profonda trasformazione dell’idea di bellezza, l’accesso degli esclusi nel concilio dell’accoglienza, della tenerezza, dell’amore o una rivoluzione della carezza ai quattro venti della terra… possono aprire il passaggio dell’uomo planetario alla visione di un’eu-topia (il luogo-felice) dove un tempo ciascuno era signore di sé e la poesia era pane e miele della vita quotidiana.
I maestri carbonari dello smascheramento della società dei simulacri, anche quando sono vilipesi, dileggiati, sbeffeggiati… hanno disseminato di idee eversive la comunicazione dell’arte… parole, cinema, fotografia, grafica, teatro, attorialità… sono stati contaminati, scomposti, reinventati dagli eretici di ogni eresia ed hanno annunciato la ventata libertaria esplosa nel Maggio francese del ’68 e che ancora si aggira come uno spettro nelle periferie invisibili della terra… c’è da dire che da qualche parte la ricchezza critica, radicale, ereticale di questi coltivatori di anime ribelli ha attecchito, ma non è ancora una foresta di torce quella che brucia il disordine genuflesso della creatività, senza averlo amato mai.
Lo spettacolo sociale, scrive Guy Debord, è concentrato, diffuso, integrato e la comunicazione ideologica della soggezione e del plauso passa per la cultura dei supermercati. Il divieto accende la trasgressione ma sovente ogni forma d'arte figura una libertà svilita dagli stessi artisti che galleggiano nel flusso della richiesta. L’arte è il maneggio di tutte le armi o una guida turistica alla quale mancano le pagine che riguardano i non-luoghi dell’utopia. Ai bambini allevati nella pubblica via, come noi, ai vagabondi delle stelle o ai sovversivi non sospetti d’ogni linguaggio, rimangono sempre addosso le parole e le immagini della loro infanzia. “L’istruzione obbligatoria è il miglior metodo di abbrutimento delle folle per mantenerle nell’ignoranza” (Louis Scutenaire). Nulla è più importante nella vita che evitare accuratamente le fogne del successo sociale.
Nel rizoma di poetiche senza bavagli, emergono desideri, sogni, schegge di utopie mai del tutto strozzate dall'impero massmediatico della civiltà dello spettacolo. Si tratta di restituire all'arte di comunicare lo stupore dell'infanzia e fare della meraviglia il principio di tutte le disobbedienze, a partire dall’educazione come pratica della libertà. “Nessuno educa nessuno. Nessuno si educa da solo. Le persone si educano nel dialogo e nel cammino della libertà” (Paulo Freire, diceva). L'obbedienza non mai stata una virtù. Non abbiamo paura delle rovine, perché il mondo nuovo del quale parliamo è già qui, tra le lucciole di maggio e la poesia in forma di solidarietà, di fraternità e di gioia. Quando a sognare è un uomo soltanto, resta solo un sogno, ma quando il suo sogno si trascolora nel sogno di tanti, diventa storia.
La teologia della fotografia di strada esprime — sotto ogni forma — la denuncia dell’ingiustizia e delegittima il sangue versato e rimasto impunito dell’ordine dominante. È l’amore dell’uomo per l’uomo che libera gli schiavi, fa crollare gli imperi e solleva gli oppressi. Il silenzio o l’accettazione dello sfruttamento dei deboli da parte dei potenti, passa attraverso il consenso massmediatico e le preghiere di sterminio sono deposte sugli scaffali dei grandi magazzini e nei parlamenti… si tratta di cogliersi come uomini planetari non ancora realizzati che rifiutano di vivere in una società alienata e si schierano a fianco degli esclusi. La liberazione degli affamati, degli offesi, degli umiliati… è prima di ogni cosa un atto politico. È la rottura con una realtà di sfruttamento e di povertà estrema, l’inizio della costruzione di quella società giusta e fraterna che molti uomini tengono nel cuore. La liberazione degli oppressi passa dalla difesa dei diritti fondamentali dei poveri, il castigo degli oppressori e la restituzione dei beni che hanno loro sottratto in secoli di angherie, saccheggi e genocidi.
La teologia della fotografia di strada non ha altra bellezza se non quella di aiutare a spezzare le catene della malvagità, sciogliere i legami del giogo, dare libertà agli oppressi… dividere il tuo pane con l’affamato, vestire chi è nudo e non voltare le spalle al tuo simile, diceva Isaia, è ricordare ad ogni essere umano che la liberazione autentica sarà opera degli oppressi o non sarà. Una teologia della speranza è, nel contempo, una teologia della risorgenza. Non c’è storia della politica se non c’è storia della libertà. La teologia dell’utopia è il canto più estremo della liberazione dell’uomo da se stesso. L’utopia non è solo il sogno di uguaglianza nella diversità e godimento dei beni comuni, che non prevede nella sua affabulazione, né servi né padroni… l’utopia è anche una denuncia dell’ordine esistente e l’eresia più concreta che sta al fondo dell’utopia è rifiutare la brutalità dei valori correnti e annunciare le “primavere di bellezza” che saranno e che ancora non sono… il presagio di una comunità differente e di una differente società di armonia. La teologia della fotografia di strada lavora sull’immaginario liberato. Il passaggio dalla poesia alla vita quotidiana impone un salto di qualità, una rottura con l’ordine dell’ingiustizia, l’intervento dell’immaginazione contro i disegni salvifici della civiltà dello spettacolo e dice: la mia parola è no!
La Teologia della fotografia di strada o di liberazione dell’immaginario assoggettato… esprime una poetica che include il punto di vista dei poveri. La Teologia della fotografia di strada è anche una teologia dei diritti umani che disvela il sistema dei poteri politici e mostra che la politica coloniale è figlia della politica industriale. Non esiste nessun uso innocente dell’immagine e della libertà. Potere significa oppressione, dominazione, costrizione. La democrazia dell’uguaglianza ha per fine la partecipazione degli uomini alla vita comune. In una società di liberi e uguali ciascuno è l’espressione della propria capacità di amare l’altro… ed è parte fondante della società di mutuo soccorso alla quale aspira.
La Teologia della fotografia di strada emerge dalla lezione etica di poeti del disagio rovesciato come Riis, Hine, Sander, Vischniac, Capa, Modotti, Smith, Cartier-Bresson, Lange, Evans, Shahn, Arbus, Weegee, Frank, Koudelka, Salgado… contiene una teoretica della dissidenza che si scontra con l’ortodossia o sovra-identità delle democrazie dello spettacolo che distruggono legami sociali e seppelliscono culture e memorie storiche. “Un popolo che venga generalmente maltrattato contro ogni diritto non deve lasciarsi sfuggire l’occasione in cui può liberarsi delle proprie miserie, scuotendo il pesante giogo che gli viene imposto con tanta ingiustizia… dimodoché le rivoluzioni… non si verificano in uno Stato per colpe leggere commesse nell’amministrazione degli affari pubblici… Quando in realtà si verificano colpe gravi, il popolo ha il diritto di resistere e difendersi” (Hannah Arendt). Ogni forma di rivoluzione è sempre in primo luogo distruzione dell’antico regime.
La fotografia, tutta la fotografia, “porta il suo referente con sé” (Roland Barthes) e quando è grande, coglie il significante fotografico. La cattiva fotografia marcisce di banalità splendenti e permea l’oggetto della sua attenzione nella celebrazione del mondano (Stieglitz, Steichen, White, Kühn, Newton, Hamilton, von Gloeden, Araki, LaChapelle, Warhol e la quasi totalità della fotografia italiana…). Ogni fotografia è una traccia della propria cultura o della propria stupidità. A leggere le opere dei grandi maestri si comprende che la Fotografia non si riconcilia con la società nel mito spettacolarizzato bensì ne disvela le brutture o l’effimero. La storia della fotografia come stupore, rimanda al cambiamento del luogo comune e fa del dolore degli altri (direbbe Susan Sontag), l’istante di un’adesione o, meglio ancora, il vero bene, che è un atto morale. Scoprire il nostro non-sapere nell’uguaglianza del sentire è un gesto d’accoglienza.
La fotografia randagia accetta i propri limiti e getta uno sguardo radicale al di là del visibile… è desiderio di qualcosa che non si possiede e a cui si aspira… rifiuta i simulacri che riconoscono la politica, la fede o la cultura come criteri del successo che legittimano la sola felicità possibile nella società data. La fotografia di strada custodisce lo sguardo, come il ribelle l’utopia, l’una e l’altro sono depositari dell’indicibile e l’attimo della loro diserzione da tutto quanto è merce o ideologia, segna l’interrogazione dell’ordine costituito.
La fotografia di strada o quella più genericamente di “impegno sociale”, coglie ciò che emerge dall’apoteosi dell’apparenza. In questo senso, tutta la fotografia non addomesticata è una sorta di denuncia del quotidiano aggredito e lavora alla sovversione dell’immagine, della parola, della legge… la fotografia che affronta il sangue dei giorni passa attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta sovente come linguaggio deturnato. La fotografia esiste per rompere l’egemonia della quotidianità impoverita o per prolungarla, diceva. La fotografia di strada ha la capacità straordinaria di spaccare il tempo della replica, di liberare il tempo fertile del falciare ciò che è stato coltivato e divampa dalla brace della sovversione dei generi.
Niente è sacro, tutto si può profanare. L’istante inchiodato dalla fotografia nella storia dell’uomo è parola, strappo, disaffezione con il silenzio prolungato del dire… non c’è fotografia del sociale se non al prezzo d’una rinuncia… la fotografia come distruzione dell’immaginario edulcorato è una seminagione di bellezza, un segno eversivo, una magnifica ossessione che travalica i limiti della realtà eccessiva o un’audacia visionaria che sborda fuori dai confini improvvisati della genuflessione artistica. C’è eternità solo nel desiderio, nel piacere, nella passione dei bastardi senza patria che vivono e muoiono al di qua o al di là di tutte le frontiere, perché sanno bene che “il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie” (Orizzonti di Gloria, di Stanley Kubrick). La fotografia di strada arrossa la vergogna del potere e mostra il divenire dell’umanità in un letamaio.
Commiato dal futuro
Teologia dell’amore ludro o Opera do Malandro. Una storiella ebraica (che mi è stata raccontata da fra’ Marcelo Barros, uno dei maggiori esponenti della Teologia della liberazione e mio compagno di strada): Un giorno un rabbino chiese ai suoi discepoli come si distingue il momento in cui finisce la notte e il giorno comincia. Un discepolo rispose: “Quando da lontano riusciamo a distinguere un cane da una pecora”. “No”, disse il rabbino. “È quando riusciamo a distinguere tra una palma e un albero di fichi”, chiese un altro. “No”, disse ancora il rabbino. “Ma, quando è allora?”, chiesero in coro i discepoli. Il rabbino rispose: “È quando si può guardare il volto di una persona e riconoscere in essa un fratello o una sorella. Finché non si riesce a vedere così, è ancora notte nel nostro cuore”. Solo nell’amare ed essere amati dunque, possiamo riconoscere in ogni uomo e ogni donna della terra, un fratello o una sorella. Allora e solo allora sarà giorno nei nostri cuori.
Riprendere dall'inizio
Riprendere dall'inizio
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