Pubblichiamo la seconda parte del bel testo di Pino Bertelli sulla fotografia. La prima parte è apparsa ieri, venerdì 4 dicembre 2009.
Pino Bertelli è una delle figure centrali del neosituazionismo italiano. Attivo da anni nella critica cinematografica indipendente, è sicuramente il più originale dei fotografi di strada operanti in Italia. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo: Cinema dell'eresia, Dell'utopia situazionista, Contro la fotografia.
Pino Bertelli è una delle figure centrali del neosituazionismo italiano. Attivo da anni nella critica cinematografica indipendente, è sicuramente il più originale dei fotografi di strada operanti in Italia. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo: Cinema dell'eresia, Dell'utopia situazionista, Contro la fotografia.
Annotazioni sulla sovversione non sospetta del linguaggio fotografico
(Seconda parte)
Pino Bertelli
Della fotografia documentaria
Per fotografia documentaria s’intende che la rappresentazione del reale è cercata, scavata, rubata alla realtà dallo sguardo fantastico o dall’indignazione del fotografo. Ora, qualsiasi foto è un “documento” ma la fotografia documentaria fa dell’atto visivo anche, o spesso, una raffigurazione della verità non dolcificata, tradita o semplicemente non censurata dalle richieste del mercato. Non importa intervenire su ciò che si fotografa o che la fotografia riproduca l’immagine fedele della realtà, quello che conta è che la fotografia contenga il vero, e niente è più vero del falso. La fotografia documentaria contiene un significato generale che trapassa la fotografia d’attualità e mostra non solo il dato storico ma anche il coinvolgimento dell’autore.
La fotografia documentaria contiene lo storico, il poetico, il realistico… ma ne travalica i generi per interpretare in profondità l’accadere del mondo. La fotografia così fatta, o così sognata, deborda da ogni sorta di confezione e fa della crudeltà esercitata da una minoranza dell’umanità arricchita, il rovesciamento di prospettiva della sua barbarie. La fotografia documentaria non è ritratto, né paesaggio, né scene scippate alla strada, né frammenti di surrealtà dell’arte di vedere ciò che è celato nell’immaginario… è la rappresentazione o la fattualità di una visione soggettiva di un’epoca.
L’immagine documentaria è un’icona del pianto degli altri al quale ciascuno partecipa con i mandanti e i giannizzeri di quell’esecuzione materiale. La complicità diretta o indiretta dei consumatori di ideologie, fedi o merci… è una specie di gogna e una forma di sfruttamento dei popoli impoveriti dalle guerre del petrolio, dell’oro, dei diamanti, dell’acqua… l’immagine documentaria dunque è un atto di poesia etica, un valore di comunicazione altra che porta in sé anche la critica radicale dell’ordine.
Il divieto fa emergere la trasgressione ma per la quasi totalità della fotografia mercantile, l’immagine documentaria resta all’interno di quella proliferazione d’informazioni audiovisuali che investono la quotidianità e rendono indifferenti a tutto, compreso il patibolo delle lacrime. L’assoluta tolleranza di tutte le opinioni fotografiche ha come fondamento l’intolleranza assoluta di tutte le inciviltà. Il diritto di scrivere, fotografare, filmare, pensare, dire di tutto su tutto…non ha niente a che vedere con la libertà di pensiero… semmai ha molto a che fare con la libertà di uccidere, torturare, opprimere, affamare, sfruttare il povero… e permettere ai mass-media, alle università, alle gallerie d’arte… di sostenere la dis/umanizzazione della comunità che viene.
Le immagini più consumate della civiltà dello spettacolo sono gogne. Ci sono interi popoli che non hanno diritto d’opinione e di vita di fronte alle potenze occidentali eppure sono i più fotografati, filmati, videoripresi… il digitale fa miracoli… il genocidio in diretta è come un medicamento sociale… fa bene a tutti e anche i bambini hanno i giocattoli telematici per dare agli ultimi la sorte che meritano. Nemmeno i “bastoni animati” di Walt Disney hanno fatto tanti danni nella testa dei bambini d‘ogni tempo, quanto le “scatole desideranti” dei grandi centri commerciali. “Ciò che sacralizza uccide. L’esecrazione nasce dall’adorazione. Sacralizzati, il bambino è un tiranno, la donna un oggetto, la vita un’astrazione disincantata” (Raoul Vaneigem). E gli uomini tutti, guardano passare sui marciapiedi della storia (come puttane sfiorite), i loro profeti con le mani lorde di sangue. Messia, Papa, Imam, Rabbino, Pope, Guru o Pastore fa lo stesso… è nel dogma, credo o fede che si alzano le croci, le bandiere, i monumenti, le forche, i campi di sterminio, i mattatoi delle guerre… la circoncisione del cervello è la pratica del vivente e l’arte di conciliare la colonizzazione del mondo con il massacro di intere popolazioni e fare finta che questo sia nell’ordine del mercato globale è quantomeno bizzarra. Le polemiche religiose, politiche o culturali che circolano nelle “grandi” fonti d’informazione… sono baruffe di buffoni che continuano a generare mostri.
Della fotografia di strada
La fotografia documentaria contiene lo storico, il poetico, il realistico… ma ne travalica i generi per interpretare in profondità l’accadere del mondo. La fotografia così fatta, o così sognata, deborda da ogni sorta di confezione e fa della crudeltà esercitata da una minoranza dell’umanità arricchita, il rovesciamento di prospettiva della sua barbarie. La fotografia documentaria non è ritratto, né paesaggio, né scene scippate alla strada, né frammenti di surrealtà dell’arte di vedere ciò che è celato nell’immaginario… è la rappresentazione o la fattualità di una visione soggettiva di un’epoca.
L’immagine documentaria è un’icona del pianto degli altri al quale ciascuno partecipa con i mandanti e i giannizzeri di quell’esecuzione materiale. La complicità diretta o indiretta dei consumatori di ideologie, fedi o merci… è una specie di gogna e una forma di sfruttamento dei popoli impoveriti dalle guerre del petrolio, dell’oro, dei diamanti, dell’acqua… l’immagine documentaria dunque è un atto di poesia etica, un valore di comunicazione altra che porta in sé anche la critica radicale dell’ordine.
Il divieto fa emergere la trasgressione ma per la quasi totalità della fotografia mercantile, l’immagine documentaria resta all’interno di quella proliferazione d’informazioni audiovisuali che investono la quotidianità e rendono indifferenti a tutto, compreso il patibolo delle lacrime. L’assoluta tolleranza di tutte le opinioni fotografiche ha come fondamento l’intolleranza assoluta di tutte le inciviltà. Il diritto di scrivere, fotografare, filmare, pensare, dire di tutto su tutto…non ha niente a che vedere con la libertà di pensiero… semmai ha molto a che fare con la libertà di uccidere, torturare, opprimere, affamare, sfruttare il povero… e permettere ai mass-media, alle università, alle gallerie d’arte… di sostenere la dis/umanizzazione della comunità che viene.
Le immagini più consumate della civiltà dello spettacolo sono gogne. Ci sono interi popoli che non hanno diritto d’opinione e di vita di fronte alle potenze occidentali eppure sono i più fotografati, filmati, videoripresi… il digitale fa miracoli… il genocidio in diretta è come un medicamento sociale… fa bene a tutti e anche i bambini hanno i giocattoli telematici per dare agli ultimi la sorte che meritano. Nemmeno i “bastoni animati” di Walt Disney hanno fatto tanti danni nella testa dei bambini d‘ogni tempo, quanto le “scatole desideranti” dei grandi centri commerciali. “Ciò che sacralizza uccide. L’esecrazione nasce dall’adorazione. Sacralizzati, il bambino è un tiranno, la donna un oggetto, la vita un’astrazione disincantata” (Raoul Vaneigem). E gli uomini tutti, guardano passare sui marciapiedi della storia (come puttane sfiorite), i loro profeti con le mani lorde di sangue. Messia, Papa, Imam, Rabbino, Pope, Guru o Pastore fa lo stesso… è nel dogma, credo o fede che si alzano le croci, le bandiere, i monumenti, le forche, i campi di sterminio, i mattatoi delle guerre… la circoncisione del cervello è la pratica del vivente e l’arte di conciliare la colonizzazione del mondo con il massacro di intere popolazioni e fare finta che questo sia nell’ordine del mercato globale è quantomeno bizzarra. Le polemiche religiose, politiche o culturali che circolano nelle “grandi” fonti d’informazione… sono baruffe di buffoni che continuano a generare mostri.
Della fotografia di strada
La fotografia di strada esprime una teologia della liberazione (sempre) o non è niente. La fotografia selvatica dei randagi senza frontiere è un contenitore di segni dove la libertà d’espressione o la poesia della vita quotidiana decostruita, non è soltanto posta in difesa dell’umano ma è appartenenza alla libertà dell’umano. La fotografia di strada cuoce i maestri e i santi della storiografia fotografica in salsa piccante e li serve con le loro eureole fritte sulla tavola dei giusti e dei banditi di confine. Le briciole delle loro vestigia mercanteggiate le riserva ai cani da guardia dell’informazione totale. I saperi della foto-grafia dominante, li getta direttamente nell’immondezzaio dell’arte per tutti.
La fotografia è un mezzo di riproduzione o di espressione, sempre. Fissa, preserva o tradisce l’informazione. È una scrittura iconica che al di là del supporto usato (analogico o numerico) costituisce una presenza visiva che scippa l’istante della cronaca e lo rende espressione della storia. Il fotografo non è mai innocente o ladro soltanto, è anche testimone di un fatto e la sua capacità o incapacità fattuale è comunque una traccia mai “oggettiva”, semmai incosciente, della cosa fotografata.
La scrittura con la luce è una lingua bastarda, trasfigura e moltiplica i segni e fa di un’immagine una celebrazione, un crimine o una pregevole disobbedienza alle regole dei saperi codificati. La fotografia, tutta la fotografia, è una tecnica di comunicazione sociale che attraverso la selezione degli spazi (per mezzo degli obiettivi), della scelta dei tempi (l’attivazione dell’otturatore o della tecnologia digitale) e l’individuazione delle scale e prospettive variabili al momento della ripresa… è sempre una finestra aperta sul mondo e una fotografia, quando è grande, contiene il ritratto di un’epoca e (Walter Benjamin, diceva) pone fine alla concezione aristocratica dell’arte.
La fotografia è un mezzo di riproduzione o di espressione, sempre. Fissa, preserva o tradisce l’informazione. È una scrittura iconica che al di là del supporto usato (analogico o numerico) costituisce una presenza visiva che scippa l’istante della cronaca e lo rende espressione della storia. Il fotografo non è mai innocente o ladro soltanto, è anche testimone di un fatto e la sua capacità o incapacità fattuale è comunque una traccia mai “oggettiva”, semmai incosciente, della cosa fotografata.
La scrittura con la luce è una lingua bastarda, trasfigura e moltiplica i segni e fa di un’immagine una celebrazione, un crimine o una pregevole disobbedienza alle regole dei saperi codificati. La fotografia, tutta la fotografia, è una tecnica di comunicazione sociale che attraverso la selezione degli spazi (per mezzo degli obiettivi), della scelta dei tempi (l’attivazione dell’otturatore o della tecnologia digitale) e l’individuazione delle scale e prospettive variabili al momento della ripresa… è sempre una finestra aperta sul mondo e una fotografia, quando è grande, contiene il ritratto di un’epoca e (Walter Benjamin, diceva) pone fine alla concezione aristocratica dell’arte.
(continua)
http://www.pinobertelli.it/index.php?pb=fotografia