TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 19 novembre 2009

Stelio Rescio e il Futurismo a Savona




Stelio Rescio

Futurismo Itinerante a Savona


C'è voluto tempo perchè venisse meno l'atteggiamento con cui tra sufficienza e presa di distanza per decenni si è guardato alla presenza del futurismo a Savona, considerandolo non più che un fenomeno di costume (nel caso migliore, non essendo mancate le posizioni di aperta avversione). Non diversamente che nel resto del Paese, questa rimozione collettiva era la risultante, al fondo, della riduzionistica equazione “futurismo uguale fascismo”. È però da aggiungere che qui il moto di rifiuto aveva trovato saldo ancoramento nella indiscussa egemonia culturale della sinistra, che, bisogna pur dirlo, si esprimeva in un contesto fortemente marcato da un'impronta operaistica.

Beninteso non erano mancate le pubblicazioni di poesie di Farfa. Ma il primo tentativo, acritico anche se non privo di buona volontà, di “rimettere insieme” queste pagine di storia savonese, è opera di Carlo De Benedetti (Il futurismo in Liguria, Sabatelli editore, Savona 1976). Fu, date le circostanze, un'opera “laica”, che diede una buona spinta alla caduta delle preclusioni nei confronti di un fenomeno artistico e culturale sicuramente non “minore”. Altre ricerche, dedicate a singoli esponenti del futurismo savonese, seguirono a ritmo sempre più accelerato. Basterà ricordare il catalogo “Ricostruzione futurista dell'Universo”, pubblicato in occasione della mostra omonima allestita nel 1980 a Torino, dove ricorrente è il richiamo ai luoghi e ai protagonisti di quella stagione savonese; il catalogo della mostra “La ceramica futurista da Balla a Tullio d'Albisola” (Albisola Superiore, 1982); la mostra delle opere di Farfa (aprile 1985) e la retrospettiva di Maria Ferrero Gussago (febbraio 1986), promosse dall'Amministrazione Comunale di Savona e che hanno dato occasione di reperire altro materiale inedito; l'attività editoriale che, intrapresa nel 1981 dalla casa editrice Liguria con la pubblicazione delle lettere a Tullio d'Albisola (a quando il quarto volume, che dovrebbe comprendere le lettere di Lucio Fontana?), offre la viva testimonianza dei molteplici, intensi rapporti che legavano questa figura centrale della vicenda artistica albisolese ai più noti esponenti del movimento futurista.

Si è andata così accumulando una ingente massa di informazioni alla quale è possibile attingere per una ulteriore riflessione su questa fervida stagione artistica, che va ricordata anche perchè vi agì una spinta aggregante, oltre che lo stimolo ad una creatività collettiva. È una materia preziosa che, presentandosi tuttora allo stadio fluido, richiede una meditata messa a punto intesa a far emergere, entro il pu necessario riepilogo cronologico, alcuni dati ricorrenti che depongono sulla specificità del futurismo savonese; sul suo darsi ad una lettura attraverso cui abbastanza chiaramente traspare la determinata realtà nella quale aveva messo le radici; un paradosso, si direbbe, stante il ruolo che vi hanno esercitato i suoi protagonisti, i quali, originari di altre aree geografiche, erano savonesi d'importazione: Farfa, all'anagrafe Vittorio Osvaldo Tommasini, era triestino e Giovanni Acquaviva era nato a Marciano Marina, nell'Isola d'Elba; faceva eccezione Tullio Mazzotti, ligure soltanto a metà; il nonno paterno, nativo di Coccaglio, in provincia di Brescia, si era infatti trasferito nella cittadina rivierasca, prendendovi moglie, per lavorare alla costruzione della ferrovia Genova-Ventimiglia.Al di là delle note biografiche, che abbiamo ripreso da una testimonianza del fratello Torido (Fulvio M. Rosso, Per virtù del fuoco – Uomini e ceramiche del Novecento italiano, Musumeci, Aosta 1983) va detto che Tullio, la cui creatività traeva alimento, in modo tanto più autentico in quanto non mediato dai parametri e dal linguaggio “colti”, dalla matrice locale (ne fu altro interprete, lavorando su una linea che oggi definiremmo di recupero antropologico), per la sua “altra metà”, e cioè per temperamento e carattere, savonese certamente non fu; la disinibita spinta vitalistica che lo muoveva e la robusta vena popolare del suo canto poetico sono chiaramente debordanti, rispetto all'asciutta contenutezza che è l'inconfondibile marchio di questo angusto lembo di terra, la cu più aderente espressione letteraria va semmai ricercata nell'introversa, sommessa voce di Camillo Sbarbaro.

Tullio d'Albisola si affaccia per la prima volta fuori dall'ambito locale nel 1925, anno in cui partecipa all'Esposizione di Arti decorative e industriali moderne a Parigi. Vi erano esposte tra l'altro opere di Balla, Depero e Prampolini; il giovane e intraprendente ceramista che, insofferente verso la pur valida tradizione albisolese, già da più di un anno andava sperimentando forme nuove, trovò sicuramente nelle proposte dei tre artisti futuristi uno stimolante termine di confronto: non poteva non trarne la conferma a proseguire nella sua linea di rinnovamento.

È del 1927 l'incontro di Tullio con Marinetti, avvenuto a Milano per interessamento del “comunista-futurista” torinese Franco Rampa Rossi, e al quale furono presenti anche Nino Strada e Bruno Munari, futuristi di breve stagione. Rispetto a questo iniziale momento “milanese” e a parte il legame con Marinetti, che rimase, ben più intenso e produttivo fu il rapporto con il gruppo di Torino, in primo luogo Fillia, instancabile animatore della presenza futurista in Liguria, e Diulgheroff, con i quali Tullio entrò in contatto in quegli stessi anni. Come si vede fu in un breve arco di tempo che ebbe luogo il suo pieno inserimento nel movimento futurista, alle cui iniziative, sul piano nazionale ed internazionale, fu sempre presente, a partire dalla mostra del 1929 “Trentatre futuristi” alla Galleria Pesaro di Milano.

Da qui la “scoperta” di Albisola. Il luogo di nascita della ceramica futurista italiana (a parte la ininfluente parentesi di Faenza) fu la fornace che il padre di Tullio, Giuseppe Mazzotti, aveva fondato nel 1903 a Pozzo della Garitta; un luogo che finì per caricarsi di una forte connotazione simbolica; fu, oltretutto, il cordone ombelicale che unì i due momenti, distinti non solo perchè separati dalla arentesi della guerra, in cui prese vita e si consumò la straordinaria vicenda artistica albisolese. Fu qui che Farfa e Fillia, tra gli altri, crearono ceramiche, fino alla messa in attività, nel 1934, della nuova sede della “Casa Mazzotti”, costruita su progetto di Diulgheroff. Ed era in questo stesso cortile di Pozzo della Garritta che negli anni Cinquanta si affacciava la casa estiva di Lucio Fontana.

Tullio d'Albisola assunse un ruolo di primo piano non solo per l'apporto che diede alla ceramica d'arte ma per la stessa funzione che ebbe nella gestione della “bottega” paterna; in realtà una vera e propria azienda (fu anche la prima fornace che sostituì l'alimentazione a legna con l'energia elettrica). Da qui i molteplici contatti con gli artisti, che grazie alla sua competenza tecnica potevano realizzare in ceramica i loro progetti. Ma la fornace di Pozzo Garritta va ricordata sopratutto perchè contribuì a delineare i tratti specifici del futurismo savonese. Gli artisti potevano infatti contare su una struttura produttiva e su una rete di distribuzione che erano in grado di mediare il rapporto fra creazione e destinazione, consentendo di raggiungere una larga cerchia di fruitori. Si potevano così tradurre in oggetti d'uso le “nuove forme”, ispirate alle concezioni innovatrici che il secondo futurismo ebbe anche in questo campo, dove più facilmente poteva operare la spinta al superamento dell'arte elitaria. Rilevante fu il contributo di Fillia e Diulgheroff, la cui opera confluì nella sperimentazione allora in atto ad Albisola non soltanto nella ceramica d'arte ma anche nella produzione di serie. Si devve ricordare che entrambi gli artisti del gruppo torinese nutrivano interesse per l'architettura ed erano in contatto con le avanguardie europee. In particolare attraverso Diulgheroff, che nel 1923, a Weimar, era entrato in rapporto con il Bauhaus, passò per Albisola questa grande esperienza che aveva assunto l'operatività artigianale entro l'istanza funzionale; si possono rinvenirne la tracce in alcuni prodotti di una rara purezza geometrica (servizi da tè di Fillia e Diulgheroff e “oggetti” di Tullio d'Albisola). Di suo, Tullio vi mise l'inventività delle “creazioni antimitative”; e su un altro versante, l'interesse per la tradizione “bassa”, che reinterpretò in chiave di stilizzazione formale, conservandone tuttavia la freschezza; un interesse che in epoca successiva doveva dar luogo a quella parte della sua opera poetica ispirata alla mitologia locale e intrisa di sapidi umori.

Già nella figura di Tullio d'Albisola sono presenti i tratti più caratteristici del futurismo savonese, nella cui vicenda un particolare rilievo ha assunto il rapporto tra operatività manuale (e tecnica) e ricerca artistica. Fu un caso insolito nello stesso ambito di questo movimento d'avanguardia, a maggior ragione in quanto non fu di breve durata e diede luogo a molteplici esperienze, tra queste (e a parte beninteso la produzione ceramica) i “libri di latta”.

In quegli stessi anni la “bottega” di Pozzo Garritta sfornava, assieme agli “aerovasi” di Fillia, le “ceramiche meccaniche” di Farfa, nelle quali l'artista triestino riversava quella irriverente immaginazione che ritroviamo nelle “cartopitture” e nella sua opera poetica. Ad Albisola, i propositi di rinnovamento della ceramica si giovarono in primo luogo di queste due personalità creative (Tullio Mazzotti e, appunto, Farfa) che, diversissime tra loro per carattere (e comportamento), cultura e, non va dimenticato, linee della ricerca espressiva, costituiscono due distinti, ma non contrapposti, punti di riferimento che agirono da elemento aggregante.

Trasferitosi nel 1929 a Savona, Farfa vi abitò per trent'anni, stabilendosi nel quartiere operaio dove si trovò inserito nel modo più naturale. Lasciando da parte la ricca anedottica fiorita attorno alle sue anriconformistiche abitudini di vita, conviene ricordare che egli era “per costituzione” un inveterato trasgressore: un “diverso”, diremmo oggi. Più per sovrana indifferenza che per determinazione, poneva tra parentesi ogni elemento costrittivo della realtà, occupandosi sopratutto di trasformare ogni cosa in “materiale” per la sua produzione poetica prorompente, non di rado ai limiti dell'incontinenza.
Non mancano però esempi di una stringata strutturazione formale. Così come non manca l'apertura ad un'avvertita sperimentazione linguistica, di cui Farfa può essere considerato un precursore. Basterà ricordare la “sincopatia” consistente in un solo verso: “Orchidee idee d'orchi in fiore”; è tutt'altro che un'ingegnosa trovata, visto che il gioco anagrammatico 8e l'effetto è spiazzante) vale a restituirci l'immagine di un fiore la cui inusuale bellezza non è priva di una sua "mostruosità”.

Farfa si produsse in un'attività molteplice: creò “figurini di abiti per signora” nonché costumi per una compagnia di rivista e non mancò di interessarsi di fotografia. Fu, il suo, uno straordinario “gioco d'anticipo” sui temi che lo portò persino a coltivare, a metà anni Cinquanta, un progetto -rimasto sulla carta- di “compotamento”: esso consisteva nell' “invadere” lo spazio di una galleria d'arte milanese con un gruppo di rastrellatrici valdostane, “con tanto di fieno e mucche”. Ma dobbiamo tagliare corto. Non tralasciando però di dire del suo interesse, che fu continuativo, per la cartellonistica. Nella intercambiabilità degli strumenti espressivi, in cui abolendo la separazione fra linguaggio “alto” dell'arte e comunicazione funzionale, la creazione artistica veniva ad intrecciarsi con la pratica pubblicitaria, si manifestava non tanto una generica versatilità; il dato da tenere presente è piuttosto la ricerca, che qui si esprimeva con modalità peculiari, e dunque, non importate e non riproducibili atrove, di un rapporto totalizzante con la realtà urbano-industriale a cui il movimento futurista aveva teso fin dagli esordi, giungendo ad una più compiuta formulazione nel manifesto “Ricostruzione futurista dell'Universo”, redatto nel 1915 da Balla e Depero.

Nel caso di Farfa, volendo stare alle opere più che all'ideologia dichiarata, il rapporto con la realtà industriale non era affatto appiattito su una posizione apologetica. La scelta futurista, ch'egli professò fino all'ultimo, risulta infatti inscritta fra i due poli dell'incontro-scontro con la macchina che sottopone sovente ad un iperbolico, ilare, stravolgimento. Non è solo questione di “patafisica” (di cui fu pure un celebrato “esponente”): a guardar bene, lo spazio di questo suo sfrenato esercizio ludico non è così compatto da impedire che vi si insinuino accenti di intensa drammaticità, dove in modo inatteso emerge una densa materia esistenziale.

Del resto il rapporto di Farfa con la “macchina” non fu privo di momenti traumatici. Egli morì nel 1964 a Sanremo, travolto da un'auto. Aveva 85 anni, èvero, ma è da ricordarsi che l'evento trova riscontro in un altro, di gran lunga precedente, non felice episodio: l'infortunio che gli era occorso nella sua breve esperienza di lavoro (nel 1919 o 1920, non si sa bene, fu per qualche mese operaio nella fabbrica-simbolo, a Torino) e di cui ha lasciato testimonianza nella poesia “Tenerezze fresatorie”. Due avvenimenti che inducono a sconcertanti riflessioni su quei momenti della sua opera poetica che rivelano un'ambigua identificazione con la “macchina”.

Valgano alcune citazioni: “Se un paio/d'auto/fanno coito d'acciaio/armate/di velocità/e rimanga/ un'atrocità in poltiglia...” dove, accanto alla rara “visualizzazione” delle immagini, e malgrado lo stesso disciogliersi della tensione nei versi successivi, che scadono in una comica inversione delle parti tra uomo e macchina, alita un soffio di tragedia. È un tema che ritornerà (premonitoriamente, si direbbe): “Il circuito/ automobilistico/ è la lama flessibile/ la vettura/ l'impugnatura/ pel duello con la morte...”. E ancora: “semiesangue rimarrà/ dalla paura/ chi si salverà da un'autovettura/ ma non potrà salvarsi mai/ dall'occhiata irosa/ del guidatore folle bestemmiante il suo furore/ contro chi s'è schivato/ così che gli è mancato/ l'agognato battesimo di sangue”. Un battesimo al quale la sorte volle che Farfa non si sottraesse.

Rispetto a Tullio d'Albisola e a Farfa la personalità di Giovanni Acquaviva appare a prima vista defilata. La sua appartenenza sociale e gli studi compiuti indurrebbero in effetti a ritenere ch'egli fosse piuttosto incline ai modi e alle forme dell'esercizio “colto”. Questo vi fu, ma solo in parte. E in epoca tardiva, allorquando il magistrato e “uomo di lettere” trapiantato a Savona scrisse alcuni testi, resi poi noti ad opera di Giovanni Farris (Manifesti futuristi savonesi, Sabatelli editore, Savona 1981), che per la verità sono chiara espressione dell'estrema fase involutiva a cui il movimento futurista era pervenuto: non si possono certo prendere in considerazione se non come documenti storici, formulazioni quali la “patriarte”. Ben più che come “teorico” del tardo futurismo, Acquaviva merita di essere ricordato per la sua attività creativa; al pari di Farfa e di Tullio d'Albisola fu artista “multimediale”: lavorò instancabilmente, lasciando un vero e proprio “giacimento culturale”.
Pittore di alta qualità, annota Enrico Crispolti (La ceramica futurista da Balla a Tullio d'Albisola, già segnalato) e grafico di rapido incisivo tratto, si dedicò anche alla scenografia, si occupò di progetti urbanistici e della progettazione di mobili. Non sfuggì al richiamo della ceramica: su suoi bozzetti la “Casa Giuseppe Mazzotti” realizzò nel 1939 un servizio di piatti ispirato alla vita di Marinetti; vi si avverte come un presagio di “informale”, che trova poi riscontro in quelle sue numerose composizioni ottenute disponendo spazialmente o sovrapponendo materiali tra i più diversi: carte colorate, bambagia, filo.

Significativo per il discorso che qui interessa è il “manifesto” di Farfa, illustrato appunto da Acquaviva, che contribuì anche alla sua realizzazione in “lito-latta”. L'opera, che è del 1931, risale ai primi momenti della presenza dell'artista toscano a Savona, dove si era trasferito dopo aver aderito in gioventù al futurismo. E dove, come si vede, non tardò ad integrarsi in quella cultura tecnico-produttiva che ne era il tratto distintivo, stabilendo un duraturo sodalizio con Farfa.

È all'intreccio di rapporti tra Savona e Torino che va ricondotto l'interesse per la cartellonistica da parte dei due artisti, che vi si dedicarono con una certa continuità. Risale almeno al 1922 la partecipazione di Farfa al gruppo futurista torinese, nell'ambito della cui attività aveva avuto luogo, nella primavera di quell'anno, il suo incontro con Marinetti. A Torino aveva compiuto esperienze innovatrici anche in questo campo, partecipando assieme a Diulgheroff (che fu il primo a sperimentare l'uso di questo materiale in funzione della comunicazione visiva) ad una mostra all'aperto di cartelloni pubblicitari di latta.

Acquaviva assume una parte di rilievo nel momento in cui, dopo la metà degli anni Trenta, l'asse della presenza futurista di sposta da Albisola a Savona; dopo aver promosso, nel 1938, il gruppo “Sant'Elia” (che alla morte di Marinetti ne prenderà il nome) è, con Farfa, l'animatore dei “quarti d'ora di poesia”, che dall'aprile del 1944 si succedono con serrata frequenza fin quasi alla fine della guerra.

Nel quadro di questa presenza del futurismo a savona va ricordata la sua ramificazione nell'entroterra collinara, ad Altare, antico insediamento dell'arte vetraria. Dedita ad un'attività che aveva attinenza con l'arredo, la “corporazione” dell' “Artistico Vetraria” aveva frequenti rapporti con Albisola. Di questa influenza che la cittadina della riviera esercitò sui più intraprendenti e dotati “maestri” altaresi non mancarono i risultati in fatto di rinnovamento dell'arte vetraria. È rimasto, circondato da un alone mitico, il ricordo del pranzo dato in onore di Marinetti nel 1932, che è da segnalare per gli effetti luminosi ottenuti mediante l'alternanza dei colori in tubi al neon: un elemento scenografico che era in piena rispondenza con le proposizioni futuriste.

Tali furono i connotati che il secondo futurismo assunse nel savonese. Vale la pena di registrarli, prendendo atto che Albisola non fu soltanto il luogo dove una produzione ceramica di alta qualità espressiva trovò la sua codificazione nel “Manifesto della ceramica futurista”, scritto da Marinetti e Tullio Mazzotti nel 1938: tardivamente, è vero, visto che il fervore creativo stava ormai venendo meno, vuoi per la crisi di attivismo che seguì alla morte di Fillia, vuoi per l'ormai incombente tragedia della guerra. Si vuole dire che Albisola fu tutt'altro che un momento transitorio del futurismo italiano, nell'ambito della sua strategia espansionistica. Fu il punto di coagulo di una presenza attiva e qualificata il cui contributo al futurismo italiano (personalità artistiche, fermenti, opere “rivoluzionarie”, quali furono appunto, ricordiamolo nuovamente, i “libri di latta”) è da acquisire come una sua articolazione. Da qui la sua tenuta nel tempo, nonché il suo proporsi e l'avere in qualche momento potuto operare come una realtà collettiva.

La “riappropriazione” di questa esperienza è un compito che resta ancora tutto da svolgere. Ed è richiesto, intanto, anche ai fini di una più approfondita conoscenza delle vicende e dei protagonisti, il recupero di materiale tuttora inedito; così come è richiesta una attenta riflessione su quanto più recentemente è stato acquisito. Il contributo che in questa occasione è parso di dover dare è inteso sopratutto a porre in evidenza le interrelazioni dello specifico contesto savonese entro cui la vicenda è venuta assumendo i propri ben definiti caratteri.

Il quadro è tale per cui acquista un chiaro significato il rapporto, ripetutamente segnalato, con Torino, e di cui si trova cenno anche in uno scritto di Diulgheroff. Un rapporto che richiede una sia pur breve messa a punto, non fosse altro perchè in mancanza di questo storico legame tra le due città non si spiegherebbe la stessa influenza esercitata dai due maggiori esponenti del gruppo torinese. Una prima, elementare, considerazione riguarda la complementarietà economica allora esistente fra le due città (il Piemonte, Torino in primo luogo, è il naturale hinterland del porto di Savona) nonché la contiguità e i fenomeni di rimescolamento della popolazione, ricordando che la città ligure è stata in passato il luogo di insediamento dei contadini delle vicine Langhe, che in gran numero nel corso degli anni vi si erano stabiliti, anche seguendo il richiamo del mare (ricorrente, non a caso, nelle pagine di Cesare Pavese e di Beppe Fenoglio).

Anche per quanto riguarda gli interessi culturali, savona manteneva più stretti rapporti con Torino che con Genova. L'osservazione vale in particolare per le arti figurative; è un fatto ad esempio che, almeno fino alla seconda guerra mondiale, le prime aspirazioni dei pittori locali, una volta affermatisi in città, erano di far conoscere la loro opera nella capitale piemontese; più recentemente, il Liceo Artistico di Savona non era, all'inizio, che una sezione dell'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, presso la quale molti artisti savonesi del passato hanno compiuto i loro studi; una tradizione che ha mantenuto un sottile filo di continuità fino all'ultima generazione di artisti di Savona e della Val Bormida.

Fra le due città, industrialmente avanzate, non mancavano altri elementi in comune che risultarono determinanti; in primo luogo il dato che la sostanziale omogeneità, dovuta alle loro caratteristiche di centri industriali, si risolveva, sul piano culturale, nel dare ampio spazio alle istanze tecnicistiche. Questo intreccio di industrializzazione, di positivismo, di cultura tecnicistica e di manualità professionalizzata era la “materia” con cui la presenza futurista aveva interagito, derivandone le sue peculiarità.

Si consideri l'esistenza della metallurgia e dell'industria siderurgica che, assieme allo scalo marittimo, ha contribuito a definire l'identità storica di Savona; un'attività che risale alla seconda metà dell'Ottocento ma che affonda le radici nella più antica lavorazione del ferro, indubbiamente legata alla grande estensione di boschi, inesauribile riserva di legname da impiegare come combustibile. Ma non è questa stessa condizione geografico-ambientale a dar ragione di secolari insediamenti produttivi, quali la fabbricazione della ceramica nel capoluogo e ad Albisola, e, ad Altare, la lavorazione del vetro, che veniva fuso in forni ad alta temperatura? Nella tradizione delle fornaci di Albisola questo dato culturale, profondamente interiorizzato, ci viene restituito dallo stesso mito del “gran fuoco” cantato da Tullio d'Albisola e, con tono più discorsivo, una volta tanto, dallo stesso Farfa.

È dallo stabilimento siderurgico Ilva che proveniva il materiale con cui furono realizzati i due “libri di latta” e le etichette per la “Premiata Fabbrica G. Mazzotti”, stampate su disegni di Diulgheroff (autore, tra l'altro, di quella pregevole opera grafica che è il marchio di fabbrica della “Lito-Latta”). La stampa sull'insolito supporto aveva avuto luogo proprio in questa azienda; l'operazione, che comportava la ricerca di non facili soluzioni tecniche, potè essere compiuta grazie all'impegno di un abile litografo, dipendente dello stabilimento. Le stesse considerazioni sull'apporto, non di rado risolutivo, della “mano d'opera” specializzata, valgono per le ceramiche futuriste sfornate dalle “botteghe” di Albisola, in primo luogo del 'maestro vasaio' Giuseppe Mazzotti, di cui i figli Torido e Tullio furono i migliori allievi.

La realtà urbana savonese, con la sua intensa attività industriale era, è vero, in pefetta sintonia con “luoghi comuni” (a giudicarli con senno di poi) del movimento futurista. Interessa però sottolineare ch i dati strutturali (ambiente, tipologia produttiva, articolazione sociale) hanno permeato di sé il lavoro degli artisti che in quella determinata realtà hanno vissuto. E, di converso, hanno finito per “darsi a vedere” attraverso i prodotti della loro attività. Un'attività, è appena il caso di precisarlo, ch non si esaurì certo in questi aspetti; ma importa aver presente, al di là di ogni visione sc hematica, che essi vi furono: che qui insomma, l'esaltazione della macchina si era tradotta in una pratica artistica nella quale, data la stessa scelta dei materiali, veniva a realizzarsi un legame “strutturale” con quella realtà industriale alla quale il movimento si richiamava.

Dei “libri di latta” si è detto. Ma elementi di questa realtà è dato coglierli sopratutto nell'opera di Farfa, dove trovano posto con una naturalezza, pur in una turbinosa manipolazione fantastica, che li pone al di sopra di ogni sospetto di “contenutismo”. Si pensi al “bullonvaso” (o “bevibullon”), indifferentemente – ed è indicativo – portafiori o contenitore di bevande, che consiste in un bullone, eretto ovviamente, e vivacissimo di colori con il suo apposito dado in funzione di manico. A quest'opera sembra fare riscontro la coppia “Buonanotte” di Tullio d'Albisola, i cui due “pezzi” hanno per impugnatura una chiave inglese. E non dice del resto, Tullio, nell' “Anguria lirica” litografata sul “libro di latta”, di nubi che “hanno un colore siderurgico”? Ma è in particolare nei vesi del poeta triestino che possiamo ritrovare gli elementi di una realtà che era parte della sua esperienza di ogni giorno. Vediamolo in “Affaraffari”: “Ottocentoottantotto milioni/ ottocentoottantottomila/ ottocentoottantotto tonnellate/ tondini ottone otto millimetri...”. Inoltre in “Vedere oltre/ cinta della città/ incinta d'industrie...”; nella breve “sincopatia”: “Iermattina osservavo/ estatico/ la segheria fantastica/ mordente l'azzurro/ tavolame del cielo coi denti aguzzi/ di multipli tetti/ d'officina”.

Ma in modo più pertinente, in quanto il mondo della produzione vi si esprime come parte integrante dell'opera, ispirandone la stessa struttura formale, questa realtà la ritroviamo nella già segnalata “Lito-Latta” (“sincopatia distagnata in libertà”): andamento timbrato, secco; onomatopee; alternanze di deliri elencatori; spezzature (nella ritornante interiezione “Boccioni-Modernolatria”) e blocchi compatti costruiti in linguaggio telegrafico che lasciano scorrere flussi ininterrotti di immagini: ci si trova risucchiati (piani, volumi, movimento, rumore) nella ipertesa, febbrile realtà della fabbrica.
È in questa lirica che ci imbattiamo nell'immagine antiretorica del “mare latta infinita” che verrà poi ripresa da Marinetti (“L'ampia latta del mare”) nella presentazione del secondo “Libro di latta”.

(Da: Palomar, Quaderni di Porto Venere, n.3, primavera 1987, pp. 178-188)

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