Un libro ricostruisce
la storia dell'Autonomia Operaia a Varese. Dal rifiuto del lavoro ai
centri sociali autogestiti la parabola di un movimento che tentò
l'assalto al cielo.
Gigi Roggero
Diventare figli di
nessuno
Leggere l’insieme
attraverso il particolare: è uno dei grandi meriti di Sergio Bianchi
con Figli di nessuno. È la «storia di un movimento autonomo»
in un’area territoriale tra Milano e Varese (Tradate, Venegono,
Castiglione Olona). Una provincia metropolitana, tra gli anni
Sessanta e Novanta investita dalle lotte e dai profondi mutamenti
produttivi e della composizione di classe: dalla fabbrica alla
fabbrica diffusa, dall’operaio massa all’operaio sociale, fino ai
lavoratori autonomi e precari. In questo contesto negli anni Settanta
nasce l’esperienza dei collettivi autonomi, raccontata e analizzata
attraverso testi, testimonianze e corrispondenze.
Sono figli di nessuno,
non hanno legami di parentela con la sinistra e segnano una cesura
con i gruppi. E sono protagonisti di uno scontro generazionale
materialisticamente interpretato: la trasformazione della
soggettività di classe si manifesta anche in conflitto tra padri e
figli, figure sociali divise dal rapporto con il lavoro, dall’accesso
ai consumi e alla scolarizzazione di massa. I giovani si rivoltano ai
genitori, alla fatica della fabbrica e al ricatto del lavoro, alla
rinuncia della libertà in cambio delle garanzie dello sfruttamento.
E si contrappongono alle istituzioni tradizionali, dai partiti alla
chiesa, dalla fabbrica alla scuola.
La teoria delle «due
società» è perciò una mistificazione, quelli che il PCI
considerava soggetti marginali costituivano il vettore di una nuova
composizione politica di classe, portatrice di nuovi comportamenti,
bisogni e possibilità di antagonismo. Era la «prima società» a
scivolare nella marginalità politica della mera resistenza. Il
rifiuto del lavoro, dunque, si incarnava in una ricchezza di
cooperazione sovversiva non più contenibile nell’involucro etico
di una società definitivamente rotta.
Questi figli di nessuno
della provincia, spesso immigrati di seconda generazione, erano gli
operai della fabbrica sociale, si aggregavano nei bar e nelle piazze,
volevano appropriarsi della ricchezza prodotta e di spazi di
autonomia. Così nasce l’esperienza del Cantinone a Tradate, centro
sociale occupato a metà anni Settanta: qui l’espressione culturale
si radica nella condizione materiale, anche il teatro vive dentro e
contro la fabbrica diffusa. Il proletariato giovanile si ricompone
infatti a livello territoriale, sceglie i punti di attacco, conquista
tempi e luoghi della rottura. Il capitale lo insegue per frammentarlo
e metterlo a valore individualmente, l’operaio sociale tenta di
sfuggirgli e aggredirlo dove è più forte.
Con estremo rigore
analitico, i testi discutono i punti di avanzamento e di blocco, tra
lo sviluppo dei processi di organizzazione autonoma e l’affacciarsi
della lotta armata. Alla fine degli anni Settanta ci sarà il
carcere, riattraversato con le corrispondenze e Gli invisibili.
E ci sarà l’eroina, devastante soprattutto in aree di provincia,
che penetrerà nelle contraddizioni soggettive della composizione di
movimento: «Sergio Bologna, a tempo debito, l’aveva detto
esplicitamente: se si teorizza a fondamento della liberazione il
desiderio di per sé, disancorato dai processi di liberazione che
devono segnare passaggi materiali, è inevitabile finire in una certa
direzione».
Arriviamo così agli anni
Ottanta e Novanta: la sconfitta non si spiega solo con la
repressione, ma innanzitutto con l’innovazione. Il lavoro
indipendente, nella morsa tra scelta e necessità, mantiene nella
propria origine il rifiuto del lavoro di fabbrica, ma lo rimodella
dentro il riflusso nel privato e nell’individualismo. L’ambivalenza
diventa schizofrenia, ricomposta dal capitale nella forma
dell’autosfruttamento. Ecco le «identità smarrite», analizzate
in un fondamentale testo del 1993. Nelle trasformazioni della
composizione di classe e sociale si colloca il fenomeno leghista,
nella ricostruzione di un’identità per quei frammenti. Qui la
soggettività antagonista si arrocca e scivola nella marginalità
abbandonando il tema della composizione di classe, mentre proprio
nella sua comprensione si radica il primo progetto leghista, come
quello salviniano è basato sulle trasformazioni della crisi.
Dall’autonomia all’autonomismo, la composizione politica si
ribalta di segno.
In questo passaggio i
centri sociali sono luoghi di resistenza, però nella crisi politica
molti tornano sotto il tetto del cadavere putrescente della sinistra:
«Spesso, all’impegno dell’autoproduzione fa da presupposto
motivazionale una concezione volontaristica, miserabilista,
populista, moralista, un’attrazione fatale per le tematiche
riferite ai poveri, ai disperati, agli emarginati ecc. È
stupefacente questo riemergere di concezioni “terzomondiste”,
retroterra di un agire che rischia una comunione oggettiva di
intenti, e una competizione soggettiva impossibile da sostenere, con
il volontarismo cattolico». Parole del 1995, sembrano pronunciate
oggi.
Insomma, il passaggio
all’operaio sociale resta il nodo irrisolto, da qui dobbiamo
ripartire per andare in un’altra direzione: riappropriarci di una
storia lunga, ripercorrerla nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte
come fa Bianchi, non vuol dire ricavare la propria identità da padri
e madri più o meno immaginari. L’autonomia dei figli di nessuno è
piena di genealogia sovversiva, un’eredità da utilizzare e non un
testamento notarile da esibire. Ecco perché ripensare quella storia
ci fornisce delle indicazioni decisive sulla nuova curva da
intraprendere, sugli errori da non ripetere, sulle rotture da
conquistare.
Sergio Bianchi
Figli di nessuno.
Storia di un movimento autonomo
Milieu, 2015
€ 14,90
https://www.alfabeta2.it/