Il centro sociale
Leoncavallo di Milano sta festeggiando in queste settimane
i quarant’anni dalla prima occupazione al Casoretto. Lo fa con
concerti ed eventi culturali. Con la pubblicazione di un libro ricco
di fotografie e testimonianze storiche. E con un incontro
nazionale – che si svolgerà negli attuali spazi di via Watteau
sabato 30 e domenica 31 gennaio 2016 – dal titolo «Democrazia,
reddito, ecologia. Siamo il sangue nuovo nelle arterie della
metropoli». Anticipiamo qui una sintesi dell’invito.
Centro Sociale
Autogestito Leoncavallo
I nostri primi
quarant'anni...
A partire dai
festeggiamenti per «i nostri primi quarant’anni», vorremmo
proporre uno sforzo comune che punti a una nuova narrazione
condivisa, e non solo alla comunicazione e alla
contaminazione delle lotte sociali, ma anche alla loro
riproducibilità nella prospettiva della costruzione di quel potere
dei «molti», oggi più che mai necessario ad aprire spazi reali per
l’alternativa.
Nel nostro immaginario,
se siamo capaci di non ridurle a icone ideologiche o a
modellini, le esperienze della Rojava — le regioni autonome del
Kurdistan siriano che sono riuscite a liberarsi confliggendo con
la barbarie fondamentalista — e di metropoli come Barcellona
e Madrid – dove, a partire dalle lotte contro austerity
e corruzione e per il diritto all’abitare, inedite
coalizioni municipaliste hanno vinto le elezioni e governano le
città — viaggiano insieme. In queste concrete esperienze, e nelle
loro profonde differenze, ritroviamo la medesima tensione
all’autogoverno delle comunità, alla sperimentazione di pratiche
realmente democratiche, in una cornice in cui autonomia
e cooperazione sociale, vecchi e nuovi diritti sociali,
ecologia e femminismo si alimentano vicendevolmente.
Un nuovo mutualismo
La metropoli è «fabbrica
sociale», comandata dalle funzioni della finanza, dai dispositivi
del credito e del debito. Qui i meccanismi prevalenti di
estrazione del valore prodotto dalla cooperazione sociale sono quelli
della rendita e della speculazione. Nello stesso tempo, la
metropoli è anche fabbrica di soggettività altra, spazio di
iniziativa, di resistenza e autovalorizzazione tra chi coopera.
Da qui la proliferazione di figure nuove nella composizione sociale
del lavoro, figure che attraversano e fanno vivere
quotidianamente i nostri spazi: precari, intermittenti, autonomi
di seconda e terza generazione, micro-imprenditori, cooperatori.
In questo panorama il
vecchio schema del rapporto sindacato/lavoratori, basato su
vertenzialità ed erogazione di servizi, seppur necessario, non è più
in grado di conquistare un allargamento dei diritti. Oggi, un nuovo
«sindacalismo sociale» deve essere incubatore di cooperazione,
praticare condivisione democratica delle risorse materiali
e immateriali, deve far evolvere il mutualismo in una macchina
di produzione di diritti, ricchezza e trasformazione sociale.
E in questo processo riconoscere e inventare le forme nuove
e più efficaci del conflitto, che cosa significhi lo «sciopero
del XXI secolo». Sindacalizzare gli insindacalizzabli,
e socializzare le lotte della solitudine, necessitano prima di
tutto punti di incontro.
E, se diamo buono
l’assunto che vede gli spazi sociali autogestiti come laboratori
del comune, fuori da logiche gruppettare e identitarie, possiamo
iniziare finalmente a intravedere un loro sviluppo in «Camere
del lavoro» intermittente, precario e autonomo, dispositivi
adeguati ai tempi di nuova organizzazione e di conflitto
costituente, vettori di trasformazione sociale.
Lo spazio europeo
Lo scenario europeo,
ovvero di quello spazio politico che è oggi la scala minima di
ogni pensabile possibilità di cambiamento, pare investito da fatti
nuovi, di segno diverso, che ne sconvolgono repentinamente il
panorama: pensiamo alla pur contradditoria vicenda greca, alla marcia
dei migranti lungo la rotta balcanica, alla dialettica tra piazze
e urne elettorali nella penisola iberica, ma anche all’irruzione
del terrore jihadista e alla logica liberticida dello «stato
d’emergenza», alla crescita di nuovi nazionalismi, razzismi
e fascismi, all’apparentemente imperturbabile normalizzazione
delle politiche di austerità, con il loro corollario di
precarizzazione e privatizzazioni.
Vi sono eventi che hanno
prodotto rotture positive, sedimentano consapevolezza, diffondono
saperi e pratiche trasformative. Ed altri che sembrano
precludere ogni strada, negare la possibilità stessa del
cambiamento, determinare orrende involuzioni. E lo stesso
discorso si potrebbe riprodurre nei singoli territori, dove di fronte
alla quotidiana catastrofe del climate change, le lotte ambientali,
per i beni comuni (materiali e immateriali), per il diritto
alla città determinano significativi risultati locali, accumulano
saperi critici e partecipazione attiva.
Tutte queste lotte
presentano un minimo comune denominatore che parla di «democrazia»
come decisione condivisa dal basso su ciò che è comune; di
«reddito», diretto e indiretto, come leva redistributiva
adeguata a combattere l’insostenibile crescita di
diseguaglianze e povertà; di «ecologia», ambientale
e sociale, come necessità immediata per rovesciare la
catastrofe climatica in occasione di cambiamento radicale. Tre grandi
temi che potremmo definire «glocal», capaci cioè di tenere assieme
dimensione locale e transnazionale, istanze comunitarie e di
classe, singolarità e moltitudine.
La prima sede (foto di Alberto Cane)
Oltre la rappresentanza
Se guardiamo alle tante
esperienze dal basso che, nelle metropoli e nei territori
d’Europa, cercano di trasformare l’esistente costruendo
coalizioni inedite che promuovono conflitto e partecipazione,
e mettono in comunicazione movimenti sociali e realtà
associative, forze sindacali e politiche, proponendo
e praticando direttamente soluzioni di governo e amministrazione
locale, possiamo iniziare a intravedere nuovi dispositivi
politici, che vanno oltre il classico rapporto tra movimenti
e partiti, fuori dalla logica della rappresentanza. Un movimento
reale, che abbia l’ambizione di cambiare lo stato di cose presenti,
deve essere in grado di pensare la complessità e di agire
simultaneamente su tutti questi diversi piani.
Vorremmo provare a farlo, confrontandoci con altre esperienze che cercano di fare del proprio territorio metropolitano le «città del cambiamento» e cominciando a scrivere, insieme a loro, la bozza di «una carta per l’Europa», nuova e altra da quel panorama di rovine che gli interessi di pochi ci stanno consegnando.
Il Manifesto – 13 gennaio 2016