Malevic, Quadrato rosso (1915)
I simboli non
tramontano mai, ed anche se non ce ne accorgiamo, continuano ad
esercitare il loro influsso su di noi. Una riflessione sul simbolismo
del colore rosso dal Campari al mito della Grande Madre.
Raffaele K. Salinari
Lo spritz e il velo di
Maria
In questa stagione così
torrida, al calar della sera un buon Spritz ghiacciato,
magari all’Aperol o al Campari, col suo colore rosso, sembra
allontanare per un momento il calore opprimente. L’immaginazione,
liberata dallo spirito mercuriale dell’alcool, trasporta la mente
in quel microcosmo colorato che scende nel nostro corpo mentre
sussurra segretamente alla nostra anima, anch’essa assetata, ma di
una trascendenza mai del tutto oscurata dalla luce feroce della
modernità.
Da dove viene il potere
evocativo di quel rosso fluente, profondo, corposo, il fascino
misterioso e sensuale di un pigmento un tempo naturale che ci da
ancora l’illusione di tenere in mano un pulsante cuore liquido? Di
bere, come allegri vampiri incoscienti, un poco di sangue, dolce e
amarognolo al tempo stesso? Ancora una volta è alla Grande Dea
dell’Evo cristiano, alla sua figura di teotoca, di Madre di
Dio, che ci dobbiamo rivolgere per capire ciò che lega psiche a
psiche, cioè anima a frescura.
Il Maphorion di Maria
Per riannodare il filo
delle suggestioni, spesso inconsce ma non per questo meno potenti,
che ci attirano verso il colore rubino del nostro Spritz,
dobbiamo risalire a com’era colorato in origine il velo delle donne
sposate nell’antica Galilea, ed in particolare al colore
delMaphorion di Maria di Nazareth. Cominciamo da questo: nella
tradizione bizantina l’indumento viene raffigurato com’era in
origine: dipinto di rosso. Ci riferiamo a Bisanzio perché
notoriamente la fede nella Madonna è in Oriente molto più radicata
e potente di quella Occidentale. A questo proposito basta ricordare
come il Velo di Maria fosse ritenuto la reliquia che proteggeva da
ogni male la città di Costantinopoli. Torneremo tra poco sulla sua
storia; per ora basta dire che esso fu portato dalla Palestina, nel
473, e posto nella chiesa della Panaghia delle Blacherne.
Panaghia in
greco è un attributo mariano e significa Tutta Santa.
Nell’iconografia del cristianesimo orientale si trovano diverse
raffigurazioni della Panaghia. Ad esempio la Panaghia Platytera, «la
più grande dei cieli»: in questa raffigurazione Maria ha le braccia
alzate e porta sul petto un grosso cerchio con il Bambino
benedicente. Altro nome è Blachernitissa, secondo l’icona di questo
tipo venerata in modo speciale appunto nella chiesa del quartiere
delle Blacherne a Costantinopoli, nella quale fu
traslato il Santo Velo. Altre raffigurazioni sono
la Panaghia Odighitria, «che indica la via» (hodòs),
chiamata così da una chiesa di Costantinopoli nella quale erano
solite ritrovarsi le guide delle carovane dei pellegrini, e
la Panaghia Nikopoia «che dà la vittoria»: maestosa
e severa tende con ambedue le mani il Bambino verso l’osservatore.
Ma forse la più
simbolica è la Panaghia Strastnaia, che rappresenta la Madre di
Dio sofferente perché vede dinnanzi a sé la passione del Figlio.
Qui la Madonna non è altro che la trasposizione cristiana della
Grande Madre della paganità preclassica, che generava il suo
figlio-paredro per poi sacrificarlo e resuscitarlo, secondo il ciclo
indistruttibile della zoé. La Madre di Dio che ne vede già la
Passione, infatti, sarà anche quella che gli restituirà la vita.
Qui, tra le altre cose,
si ravviva la relazione tra dionisismo e cristianesimo, ma ci
porterebbe troppo lontano, ed Elémire Zolla, nella sua splendida
introduzione all’antologia Il dio dell’ebbrezza, l’ha
magnificamente trattata.
Tornado al mantello di
Maria, il termine Maphorion deriva dal greco omos (spalla)
e pherein(portare). In epoca anteriore alla cristianità
corrispondeva ad un pallio, una sorta di sopravveste formata da un
ampio rettangolo o quadrato di stoffa che i Romani indossavano sopra
la tunica fermandolo sotto il mento o su una spalla con una fibbia.
Di questo gioiello ne rimangono di pregevoli al Museo di Villa Giulia
a Roma. Il mantello derivava a sua volta dall’himation greco,
adottato da chi aveva a che fare in qualche modo con questa cultura.
Il Maphorion di
Maria, abbiamo detto, è di un colore rosso porpora che, secondo la
tradizione Orientale, è simbolo della regalità acquisita dalla
persona umana Maria attraverso l’Incarnazione mistica del Cristo in
lei. Sempre secondo l’iconografia classica, infatti, per ribadire
questo Mistero, sul capo e sulle spalle il Maphorion mariano
ha impresso tre stelle, antichissimo simbolo siriaco della verginità.
La reliquia rossa
La tradizione Orientale
narra che la reliquia venne scoperta a Cafarnao, in Palestina,
dai patrizi Galbio e Candidus durante il regno
dell’ImperatoreLeone I (457-474). Le cronache dicono che in
origine essa apparteneva ad una ebrea che la teneva, naturalmente, in
un’arca di legno, e che i due bizantini riuscirono a rubarla
sostituendola con una copia. Da Cafarnao portarono quindi il Sacro
Velo a Costantinopoli, dove rimase fino alla conquista turca
del 1453.
Una versione alternativa
attesta che il Maphorion mariano rimase a Costantinopoli
non oltre il 568, quando fu portata ad Imola nella chiesa
diSanta Maria in Regola come dono dell’esarca Longino,
che avrebbe ricostruito la chiesa proprio in occasione dell’arrivo
della reliquia.
Purtroppo dai rilievi
fatti recentemente, come nel caso della Sindone, il manufatto risulta
essere una tela a strisce, finissima, che da una parte ha i fili
rilasciati, come un vello; in sintesi la sua datazione non va oltre
il VI secolo. Originalità o meno a parte, e questo è un punto
interessante, la questione in realtà non scalfisce in nessun modo il
supposto potere taumaturgico e spirituale che viene, a torto o a
ragione, attribuito alle reliquie dalla devozione popolare.
A riprova di ciò resta
il fatto che, anche se il Maphorion di Maria si trovava ad
Imola già nel 568, il popolo bizantino non doveva essersene accorto,
visto che le cronache storiche ci raccontano di un entusiasmo
popolare alimentato grazie alla reliquia della Vergine presso la
chiesa delle Blacherne che respinse l’assedio degli Avari contro
Costantinopoli nel 626.
Ci parlano di questo
episodio alcuni versi del lungo poema di Giorgio Pisides, il
poeta di corte dell’Imperatore Eraclio (Cappadocia 575 –
Costantinopoli 641): «Maria protegge la sua città e le sue
mura, e con esse la sua Casa di Preghiera attraverso la forza magica
e apotropaica del Maphorion a Lei appartenuto, Pallade e Atena
cristiana». Qui dunque il parallelo tra Atena, protettrice di Atene,
e Maria di Costantinopoli, viene reso sotto la forma della potenza
magica legata alla reliquia.
Ora, come abbiamo già
accennato, col termine reliquia si indica un qualcosa che fa parte
del ricordo di un personaggio venerato, e può comprendere qualsiasi
cosa abbia avuto a che fare con lui o, naturalmente, parti del suo
stesso corpo. La reliquia «assorbe» dunque la santità del
personaggi e la riverbera, generando così il suo stesso culto. Il
fenomeno della venerazione delle reliquie è una pratica molto
antica, che si fonda su questa convinzione apotropaica.
Ciò che spinge verso la
venerazione di una reliquia, ancora oggi, non è solo la convinzione
che attraverso di essa continuasse ad operare la Grazia, ma anche che
in qualche modo il potere taumaturgico, o di mediazione col divino,
passasse anche a chi la possedeva e la gestiva, vedi i vari culti
ostensori ancora praticati. E dunque possedere una reliquia divenne
una pratica di potere e di fama, sia per colui che se ne
impossessava, sia per il luogo in cui veniva deposta, come dimostra
ancora oggi il grande rilievo del «turismo-religioso».
Ora, tornando al
nostro Spritz Campari, perché il Velo di Maria è rosso,
come possiamo vedere in tutte le icone bizantine, e di cosa era
composto quel colore? La tradizione Orientale attribuisce a quel
particolare pigmento un significato di totalità. Esso deriva,
infatti, e qui sta l’arcano, dall’unione di due colori
fondamentali opposti: il rosso, caldo, e il blu, freddo, ottenuti in
pittura con il cinabro, che rappresenta il fuoco, e il lapislazzulo
che rappresenta invece l’acqua. Siamo dunque in presenza di un
colore doppio, che racchiude, e al tempo stesso bilancia, le opposte
polarità: da ciò il suo carattere regale.
Non dimentichiamo che gli
antichi simboli alchemici dell’acqua e del fuoco, gli opposti per
eccellenza, sono due triangoli equilateri con i vertici opposti, che
combinati insieme compongono la figura del Sigillo di Salomone.
Ma è decisamente la sua
origine organica che rende ragione, non solo del suo significato
simbolico, ma anche dell’analogia con altri pigmenti dello stesso
colore, come vedremo analizzando quello del nostro Spritz. La
porpora antica derivava, infatti, dal mollusco, oggi purtroppo
estinto, chiamato Murex Trunculus; come ci dice Plinio, è una
sostanza che, disseccata, si separa in due: una azzurra e una rossa.
Ciò spiega il famoso effetto cangiante dei tessuti tinti con questa:
presentavano infatti riflessi che andavano dal rosso all’azzurro.
Il valore simbolico è pertanto intuibile come misteriosa unione
degli opposti in una totalità. Nelle icone della Madre di Dio
il Maphorion può assumere allora le diverse gradazioni
della porpora, ove prevalga il rosso o l’azzurro.
A riprova della
complementarietà tra la Grande Dea ed il suo figlio-paredro, vale la
pena notare come i colori della veste e del manto mariano sono
l’inverso di quelli del Cristo. Infatti la Madre di Dio indossa il
Maphorion di color porpora sopra una tunica di tinta azzurra che
si intravede solitamente sul capo, sul petto e sulle maniche. I
colori rivelano che Maria è la Madre di Dio, colei che è piena
della sua Grazia; e così mentre il color porpora del manto ne
simboleggia la divinità, la sua umanità viene invece rappresentata
dalla veste di colore azzurro.
Il rosso Campari
Le correnti cruelty
free, come vedremo, hanno vinto, almeno sulle etichette, la loro
battaglia: il pigmento rosso del Campari non proviene più da un
altro essere vivente, non acquatico ma terreste, che conserva le
stesse caratteristiche cromatopoietiche dell’estinto Murex, un
insetto che vive sulle pale delle opunthie (fico d’india): la
Cocciniglia. Da non confondersi assolutamente con la Coccinella,
questo animaletto si nutre della linfa delle piante, in particolare
di quelle grasse, e si protegge dai predatori secernendo una sostanza
densa, simile alla cera: il carminio di Cocciniglia.
Solo le femmine di questa
specie hanno il pigmento rosso, l’acido carminico, ed in
particolare quelle gravide. Per ottenere la tinta bisognava quindi
raccoglierle prima che deponessero le uova. Il carminio di
Cocciniglia, una volta essiccato, veniva ridotto in polvere per
essere trattato con ammoniaca o con una soluzione di carbonato di
sodio. La parte solida è poi eliminata filtrandola, e lasciando così
il liquido purificato. Per ottenere le varie sfumature di color
porpora, dal rosso del Campari all’arancione dell’Aperol, si
aggiungeva della calce. Dunque molti insetti venivano di fatto
sacrificati sull’altare del rosso.
Sappiano inoltre le
signore cruelty free che la tinta proveniente dal carminio
di Cocciniglia veniva ( viene?) anche utilizzata per prodotti di
bellezza come fard e rossetti. Il Perù produceva, sino ad anni
recenti, circa l’85% delle scorte mondiali di Cocciniglia; in
Europa la produzione si concentrava nelle Canarie e nella Spagna
meridionale. L’uso delle cocciniglie era così diffuso che, dal
1650 circa fino al 1870, fu considerata la più preziosa merce
d’esportazione del Messico dopo l’oro e l’argento.
Ma perché parliamo al
passato? Perché, almeno in Italia, questo pigmento rosso di origine
animale, denominato con la sigla E120, è stato sostituito, almeno da
quanto si evince dalle etichette, dall’E122 di origine sintetica.
Questo, se da una parte rende appunto il nostro Spritz cruelty
free, dall’altra non ci garantisce affatto che i nuovi pigmenti
artificiali siano innocui come certamente lo era il carminio della
Cocciniglia che, peraltro, è ancora molto usato in alcuni prodotti
delle Americhe che non ammettono l’uso dell’E122 perché
considerato potenzialmente tossico.
Ma esiste un prodotto,
rosso quanto altri mai, il cui nome, almeno quello, ricorda ancora
non solo l’insetto fatale, ma mette in relazione il suo colore al
potere taumaturgico della Vergine.
L’Alchèrmes
Dall’arabo al-qirmiz,
che significa «il verme», in particolare proprio la Cocciniglia,
che indica da dove deriva il suo color cremisi, può
considerarsi un prodotto tipico italiano, e più precisamente
fiorentino. Nel capoluogo toscano l’Alchèrmes arrivò dalla Spagna
moresca: si narra che il liquore, considerato come una specialità
medicinale, fosse già prodotto come elisir di lunga vita dalle suore
fiorentine dell’Ordine di Santa Maria dei Servi, fondato nel 1233.
Alla fine del Quattrocento sappiamo della sua preparazione da parte
dei frati di Santa Maria Novella.
Nel Rinascimento aveva un
ruolo di primo piano tra le bevande preferite alla corte di Lorenzo
il Magnifico. Apprezzato durante le riunioni dei circoli
neoplatonici, se ne tessevano le lodi a partire dal colore, fatto
oggetto di eruditi studi simbolici. Pico della Mirandola, ad esempio,
si domandava quale influenza potesse avere sugli «umori» del corpo
quel fermentato rosso e liquoroso ottenuto da animali vivi,
sorseggiato sia da pontefici come Leone X e Clemente VII,
sia dalla regina Caterina, che ne portò la ricetta in Francia,
dove divenne noto con il nome di «Liquore de’ Medici». Forse, si
domandava Marsilio Ficino, il rosso che ricordava la porpora della
Vergine, poteva in qualche modo influenzare lo stato dell’anima
nella sua ascesa verso il divino?
Ma, anche qui, il
pigmento della Cocciniglia è stato sostituito con quello
artificiale, depotenziandone, almeno secondo testimonianze
direttamente raccolte dallo scrivente in Sicilia, l’originale
potere vermifugo, attribuito proprio alla produzione dall’insetto
naturale, perché legato al simbolismo del rosso velo mariano di cui
abbiamo detto.
Anticamente in Sicilia
questo liquore, chiamato «Archemisi», veniva infatti utilizzato
contro i «vermi da spavento», tipici dei bambini. In questi casi,
fatta la debita diagnosi, i parenti somministravano un cucchiaino o
due di questo liquore, allora preparato con il rosso della
Cocciniglia raccolta dai fichi d’india siciliani. Ma, perché la
terapia avesse effetto, era necessario il combinato disposto tra il
rosso estratto dalla Cocciniglia e l’invocazione alla Vergine
Maria, cui quel colore veniva attribuito come simbolo della sua
Passione di Madre del Salvatore. Oggi, con la scomparsa della
Cocciniglia, tutto questo non ha più luogo, dunque «non ha luogo».
Ma i simboli non
tramontano mai, ed anche se non ce ne accorgiamo, continuano ad
esercitare il loro influsso su di noi, E così tra simbolismo sacro e
medicina tradizionale profana, il colore del nostro Spritz si
scioglie nella gola mentre si ricompone nell’anima la memoria delle
sue origini.
Il Manifesto/Alias- 8 luglio 2017