TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 21 giugno 2021

Arrigo Cervetto nei ricordi di un settantenne


Per un libro in preparazione mi è stato chiesto un ricordo di Arrigo Cervetto. Ne è venuta fuori la storia di un incontro tra un uomo noto e un adolescente in cerca del suo posto nella vita. E pazienza se qualcuno, aspettandosi un sorta di saggio politico, resterà deluso.

Giorgio Amico

Arrigo Cervetto nei ricordi di un settantenne

Quando ero bambino negli anni Cinquanta furoreggiava “Selezione del Reader Digest”,tipica rivista da guerra fredda, dedita all'anticomunismo viscerale e apertamente utilizzata dal Dipartimento di Stato e dalla CIA per diffondere nell'Occidente, insidiato dal comunismo moscovita, i valori del cosiddetto “mondo libero” e l'esaltazione del mito americano. La rivista, formato libro, scritta in un italiano semplicissimo con articoli assolutamente elementari, piaceva però molto a quel ceto di piccoli impiegati e funzionari pubblici che, pur essendo in molti casi allo stesso livello economico e culturale degli operai, tuttavia si sentivano superiori ai lavoratori manuali se non addirittura parte della classe dominante. In una parola, democristiani, anche se poi, naturalmente, in pubblico guai ad ammetterlo. E proprio questo era lo scopo vero della rivista, spingere al massimo l'identificazione con il sistema gratificando i sogni di ascesa sociale dei borghesi piccoli piccoli dell'Italia ancora povera e ingenua di allora.

In casa mia “Selezione” era l'unica pubblicazione che entrava e io, se pur ancora molto piccolo, avevo allora otto o nove anni, ne aspettavo impazientemente l'arrivo ogni mese e, dopo che mio padre l'aveva letta o il più delle volte semplicemente sfogliata, la divoravo letteralmente dalla prima pagina all'ultima, senza tralasciare nessun articolo. Di nascosto, naturalmente, perché non erano letture per bambini. E dunque “cosa vuoi capirci tu, leggi il Corriere dei piccoli”, secondo la convinzione tipica dei “grandi” di allora, ma anche di qualcuno di oggi, che i bambini siano sostanzialmente degli adulti solo più piccoli di statura e scemi.

Certo, ovviamente non capivo tutto quello che leggevo, ma di due cose ero certo: i comunisti erano molto cattivi e l'America un grande paese. E a distanza di tanti anni una delle due certezze è rimasta, tanto che mi sono laureato con una tesi di storia americana, amo il cinema hollywoodiano in bianco e nero degli anni Trenta e Quaranta e sono un fan sfegatato dell'hard boiled school a cui Camilleri e il suo Montalbano han sempre fatto un baffo.

Tornando a “Selezione”, in ogni numero la rivista ospitava una sezione intitolata “Una persona che non dimenticherò mai” in cui individui, i cui nomi allora non mi dicevano nulla, ma che scoprii poi in molti casi essere personaggi importanti della politica, dell'economia e dello spettacolo, raccontavano l'importanza di aver incontrato ad un certo punto della loro vita una persona che aveva loro fatto vedere il mondo con occhi diversi.

Ecco. Immaginate ora di avere tra le mani un vecchio numero di “Selezione”, aperto nella rubrica di cui stiamo parlando, e che a raccontare sia un uomo di più di settant'anni che ricorda l'incontro avvenuto moltissimi anni prima con una persona che gli ha cambiato la vita. Siete pronti? Bene. E allora cominciamo: quest'uomo si chiamava Arrigo Cervetto.

Naturalmente, come in qualunque storia che si rispetti, per comprendere al meglio ciò che accade occorre aver chiaro il contesto in cui i fatti narrati si inseriscono. Sia chiaro, non è di storia che parliamo, ma di ricordi. E i ricordi sono altra cosa, vivissimi e al tempo stesso sfuggenti come gli odori e i sapori dell'infanzia. Insomma, piaccia o no, il ritornello è sempre quello del vecchio François Villon che la sapeva lunga e dunque finì male: Mais où sont les neiges d’antan?

E questo perché  i ricordi sono sempre personali e quelli di un adolescente sono fatti della materia di cui erano fatti i suoi sogni, ma anche qualche volta i suoi incubi. E allora il contesto di cui parliamo è quello di una Savona vista attraverso gli occhi di un ragazzo, vissuto fino ad allora in piccoli borghi di campagna. La città e il suo porto, la Torretta, il “Grattacielo” e le navi. Un mondo da scoprire e da esplorare. Sulle calate marinai di tutti i paesi e locali equivoci dai nomi invitanti e misteriosi :“Zanzibar”, “Scandinavia”. Posti che ricordo bui e fumosi, ma pieni di musica e donne dall'aspetto inequivocabile. Luoghi tabù, interdetti per decreto paterno, ma proprio per questo oggetti del desiderio. Luoghi di tentazione che iniziai a frequentare fin dai tempi del Ginnasio, assieme alle sale da biliardo, al felliniano bar Euterpe, al retro di certi bar dove si giocava forte e a altri luoghi di perdizione e di vizio. Un povero vizio, per me che non avevo soldi , limitato a qualche sigaretta e a vini dalle origini improbabili. Ancora memore dei romanzi salgariani e ora lettore insaziabile di libri gialli , quei locali, quegli odori, quelle atmosfere mi attiravano con una forza irresistibile che nessun interdetto paterno sarebbe mai riuscito a frenare.

Ma... ma poi c'era l'altra Savona, quella cattolica e benpensante della Messa alla domenica , degli oratori. La città della gente per bene i cui figli sedevano con me sui banchi del Classico. La Savona, ordinata e pulita, governata dai comunisti, ma dove in realtà poi ognuno sapeva stare al posto suo: i borghesi con i borghesi, i proletari con i proletari. La Savona della Villetta e quella di Piazzale Moroni, delle case popolari, dove, si diceva, gli immigrati arrivati dal Meridione piantavano il prezzemolo nelle vasche da bagno e i giovani erano tutti teppisti e delinquenti.

Una Savona ferocemente classista, fatta di bar eleganti in cui si celebrava il rito dell'aperitivo e della chiacchiera e di osterie rimaste come sempre al vino sfuso comprato a bicchieri o a quartini, vino nero e forte, o bianco asprigno, quel “vino di Quiliano” che costava poco prima che qualcuno, in anni ormai di consumismo, non lo facesse diventare come “Buzzetto” un vino quasi serio.

Una città dove tutto era separato secondo regole non scritte, ma cogenti. Tanto che il sabato pomeriggio nessuna liceale di buona famiglia avrebbe mai pensato di partecipare ad una festa in casa, allora si usava così, di un coetaneo dell'ITIS o delle Professionali. E le temerarie che osavano, lo facevano di nascosto e a rischio e pericolo della loro reputazione. Insomma, i borghesi con i borghesi, gli operai con gli operai. E questo valeva per i padri come per i figli.

Quanto a me vivevo in una terra di mezzo, a Santa Rita, nel cuore di quell'Oltreletimbro dove una speculazione selvaggia stava distruggendo orti e frutteti che ricordavano ancora il contado dei tempi del Chiabrera con le sue villotte e le sue crose che dalle colline scendevano al mare. Quartieri di palazzoni grigi, tirati su in fretta e furia, una sorta di terra di nessuno, senza storia e memorie, dove più facile era mescolarsi.

Il primo con cui mi mescolai si chiamava Nino Bogliani e lavava le scale del mio palazzo, dopo essere stato cacciato per le sue idee politiche da tutte le fabbriche in cui aveva cercato di lavorare. Aveva meno di quarant'anni, ma a me neanche diciottenne pareva vecchio. Lo incontravo quando tornavo da scuola, curvo sugli scalini, con l'immancabile sigaretta in bocca. Io spesso avevo l'Unità in bella vista nei mucchio di libri e quaderni tenuti insieme da una cinghia come si usava allora. Introdurre quel giornale in casa era il mio modo di negare l'autorità paterna, un tentativo di assassinio simbolico del padre molto modesto, ma a cui mi dedicavo con grande solerzia e indubbio piacere, del tutto incurante che il giornale finisse il più delle volte nel cestino. A me bastava la litigata, spesso dai toni epici, con mia madre che cercava di far ragionare mio padre che, fuori dalla grazia di dio, urlava che mai e poi mai avrebbe accettato roba simile in casa sua.

Ovviamente le urla si sentivano benissimo dalle scale e questo qualche imbarazzo comunque me lo creava. A togliermelo fu proprio Nino Bogliani che un giorno mi fermò. “Se sei davvero un compagno” mi disse “allora comincia a legger roba seria”. E mi mise in mano il primo numero di un giornale, Lotta comunista, di cui io non conoscevo fino ad allora neppure l'esistenza. Fu l'inizio di un'amicizia fraterna fra un ragazzo e un uomo che poteva essere suo padre, ma che sapeva ridere come mai avevo visto fare a nessuno. A piena bocca, ma con la sigaretta incollata alle labbra. Una cosa impossibile, che ho provato mille volte, per far colpo sulle mie compagne, ma senza mai riuscirci. Ma a lui riusciva e bene, come riusciva bene a catturare la mia attenzione con racconti della sua giovinezza, della guerra partigiana, degli anni del carcere dove era stato rinchiuso per non aver il 25 aprile considerata chiusa la partita con i fascisti. Parlava di comunisti, di quelli veri che il 25 aprile si erano tenuti ben stretto lo sten, dei giovani libertari dei GAAP, di cui conservava ancora nel portafoglio una tessera sgualcita, poi dei militanti internazionalisti di Lotta comunista. Lo ascoltavo affascinato seduto su uno scalino e mi sembrava di vivere in un racconto di Fenoglio. Nino fu davvero un amico, forse la mia prima vera amicizia adulta. Con lui non avevo problemi, gli facevo domande, gli parlavo apertamente delle mie insoddisfazioni, della mia rabbia crescente per un mondo che non mi piaceva. Lui ascoltava e mi raccontava di sé senza retorica e con molta ironia, dell'esperienza in montagna dove era andato a 17 anni e poi di quella in carcere nel primo dopoguerra per non aver voluto arrendersi alla fine del sogno rivoluzionario. Dei compagni conosciuti, di quelli che non c'erano più come Parisotto, ma anche di quelli che a un certo punto si erano tirati indietro. Ne parlava senza moralismi, conosceva per esperienza personale come la vita metta gli uomini costantemente alla prova e dunque anche l'abbandono dell'impegno politico fosse una possibilità concreta. Scoprii poi che con molti di questi manteneva nonostante tutto ancora rapporti fraterni di amicizia.

Anche se non lo sapevo era una specie di scuola e come in ogni scuola ci doveva essere un esame e io dovevo averlo superato, perché un giorno se ne uscì dicendo “dovresti conoscere Arrigo” . Me lo disse in dialetto, con la sua voce un po' roca per le tante sigarette fumate,ma la cosa che mi colpì di più, tanto che dopo tanti' anni ne mantengo un ricordo vivissimo, fu il rispetto profondo con cui pronunziò quel nome, quasi a farmi capire che per lui era una cosa importante, che ci teneva particolarmente.

Ovviamente quel nome non mi arrivava sconosciuto. Cervetto era una presenza forte a Savona. Lo avevo incontrato molte volte in biblioteca dove passava i pomeriggi curvo su un tavolino a prendere appunti fra pile di riviste, giornali e libri; lo avevo ascoltato tener testa al Circolo Calamandrei a personaggi anche importanti della politica nazionale e mi aveva colpito la differenza fra le frasi altisonanti e vuote dei politici o degli intellettuali di fama e il suo saper andare sempre al cuore del problema citando cifre e fatti che spesso lasciavano ammutoliti i suoi interlocutori scesi a Savona da Roma o Milano a portare il verbo a un pubblico di provincia e dunque ritenuto di tutto riposo. Cervetto ascoltava attentamente, talvolta annotava qualcosa, poi si alzava e con poche frasi smontava punto per punto l'argomentazione dell'illustre conferenziere. Persino un ragazzino alle prime armi, come ero io allora, notava come quei personaggi, poco abituati ad essere contraddetti, non solo fossero stupiti di trovare in una cittadina come Savona qualcuno che sapesse tenergli testa, ma soprattutto trovassero difficoltà a controbattere alla massa di dati e di citazioni da giornali e riviste che quello sconosciuto gli aveva rovesciato addosso. Osservavo non senza un certo divertimento il loro annaspare, gli altisonanti e vuoti giri di parole con cui cercavano di replicare, gli immancabili appelli finali all'unità seguiti dall'invito di non farsi strumento inconsapevole delle provocazioni dei padroni, del governo e naturalmente, buon ultimo, degli americani. Perché anche a sinistra il patriottismo, in questo caso di partito, era, come sempre accade, l'ultima risorsa di chi in difficoltà doveva comunque strappare l'applauso. O se si vuole, tanto per citare l'originale, l'ultima risorsa delle canaglie.

Erano anni duri e dure erano anche le claques dei fedelissimi e spesso anche manesche. Ma tanta era l'autorevolezza che Cervetto emanava, la forza del ragionamento, la calma sicurezza con cui senza alzare la voce esponeva punto dopo punto le sue tesi, che mai assistetti a fenomeni di intolleranza nei suoi confronti. Era facile poi incontrarlo a una certa ora al Caffè Grand'Italia, anche lì sempre intento in discussioni a sfondo politico con altri savonesi conosciuti come l'anarchico Marzocchi o Mirko Bottero del Calamandrei, ma mai ,ovviamente, avrei osato provare ad attaccare discorso con lui. Mi sembrava un atto di presunzione. Che cosa un giovane poteva avere di tanto interessante da dirgli? Sbagliavo.

Fin dal primo incontro Cervetto si rivelò estremamente curioso di quello che un giovane come me, impegnato nel nascente movimento degli studenti ed in un groppuscolo pomposamente chiamato Potere Operaio, pensava della situazione politica, ma soprattutto dell'insorgere di una questione giovanile che per la prima volta nel dopoguerra poneva istanze rivoluzionarie.

Nonostante la sua esperienza e i suoi studi, Cervetto voleva capire. Non gli bastavano quello che ne scrivevano, spesso in forma grottesca, intellettuali e politologi alla moda. Da operaio quale era stato, ma anche da scienziato della politica quale era diventato, Cervetto voleva attingere alle fonti, farsi un'idea concreta di prima mano. La fabbrica, anche per esperienza personale, la conosceva bene. Ora c'era da capire cosa avessero per la testa i giovani e l'unico modo era parlare con loro.Fu la cosa che mi colpì di più: l'attenzione e il rispetto con cui parlava con me che pure non rappresentavo niente.

Pur essendo molto giovane, non ero poi proprio alle prime armi, avevo avuto contatti con i primi gruppi maoisti - ricordo un incontro al limite del delirio a Genova con il responsabile ligure di Servire il Popolo - con i bordighisti di Programma comunista che allora avevano una sede a Savona, addirittura con il capo italiano della Quarta Internazionale, Livio Maitan, con cui avevo avuto uno scambio epistolare. Tutti avevano avuto verso di me e i miei compagni di allora, per lo più liceali, lo stesso atteggiamento di arrogante sufficienza di chi ha la verità in tasca. Nessuno ci aveva mai chiesto quali fossero le nostre idee, ma sempre e soltanto fatto lunghe tirate retoriche non prive di un certo disprezzo per noi ragazzini alle prime armi. L'incontro con Cervetto rappresentò una svolta radicale sul piano politico, ma soprattutto umano. Cervetto non predicava, dialogava. Il suo era un interesse vero. Pur nella differenza di età e di ruoli, sentivi il suo rispetto. Avessi avuto qualche anno di più, forse sarebbe stato tutto molto diverso. Certo, avrei comunque apprezzato la grande cultura politica di Cervetto, la sua estrema affabilità, ma sarei probabilmente rimasto sulle mie posizioni per confuse che fossero. Quello che in sostanza accadeva in quegli anni con gran parte dell'intellettualità progressista savonese a cui piaceva parlare con il rivoluzionario Cervetto e mostrarsi di larghe vedute, ma certo non al punto di impegnarsi poi concretamente e di abbandonare le rendite di posizione costruite grazie ai partiti “che contano”. Per loro la militanza in un piccolo gruppo come Lotta comunista poteva essere solo una fonte di guai. Anticonformisti si, ma con giudizio!

Ma io ero nell'età in cui i guai attirano con una forza irresistibile. Un'età in cui è destino rinnegare i padri naturali e andare alla ricerca di una figura di riferimento ideale. Io la trovai in Cervetto. E fu così non solo per me, ma per una intera generazioni di giovani savonesi e genovesi. Il mondo in cui vivevamo non ci piaceva, ne sognavamo uno radicalmente diverso. Cervetto ci indicò la via che a quel mondo conduceva, ci spinse a credere nel futuro e in noi stessi, ci educò allo studio e ad un impegno fatto di gesti concreti e non di slogan come andava di moda allora. Insomma ci aiutò a diventare adulti. Per questo gli ho voluto bene. Per questo, nonostante a un certo punto i nostri percorsi politici si siano divisi, gli sono stato e gli sarò sempre grato.