TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 27 agosto 2021

Raffaele K. Salinari, Fuliggine immaginale

 




Raffaele K. Salinari

Fuliggine immaginale

Miti. Dalla «Selva oscura» alla danza dionisiaca degli spazzacamini di Mary Poppins fino a Jules Verne

Chi non ricorda la mitica danza degli spazzacamini con il volto cosparso di fuliggine su per i tetti di una Londra notturna ed immobile? È una delle scene più poetiche e spettacolari di quel capolavoro disneyiano che è Mary Poppins. Certo, ad uno sguardo superficiale, può essere vista solo come una spericolata bravata di uomini con la faccia dipinta di nero a causa del loro mestiere; eppure qualcosa di molto antico traspare da quei volti capitanati dallo spensierato, ed al tempo stesso, profondissimo Bert, il deuteragonista perfetto della fata.

LA FORESTA INESPLORATA

Ricordiamo l’inizio della scena: di fronte ai due fratelli con la faccia dipinta di fuliggine che si sono persi sui tetti, volendo imitare gli spazzacamini, ecco letteralmente schizzare fuori da un camino Mary Poppins e subito dopo Bert. Il volto della eccentrica governante è, come sempre, quello di una sfinge: il sorriso sottile vela le sue reali intenzioni. Ma qui giunge l’invito pronunciato da Bert ai ragazzi: «Questa è quella che si può definire una circostanza davvero eccezionale», riferendosi a ciò che lui chiama la «foresta vergine» composta dalla moltitudine di oscuri camini illuminati da una pallida luna piena appena velata dalle nubi. Propone dunque ai ragazzi di esplorarla, naturalmente con il permesso di Mary Poppins. Lei ci pensa un momento…ed ecco il gesto chiave: trae fuori dall’inesauribile borsa un portacipria e, con tocco impeccabile, si cosparge il naso di fuliggine.
E allora cerchiamo le analogie poetiche di questa scena, partendo da quella che, ovviamente, è la «selva oscura» dantesca. Mary Poppins è la storia del passaggio dei due ragazzi da una infanzia vissuta inconsapevolmente, tra una madre impegnata politicamente ma distratta, e un padre totalmente preso dal suo materialistico lavoro di bancario, dai suoi «metalli», alla piena consapevolezza dello stupore infantile. Il film tratta, infatti, di uno svelamento del fantastico e del magico che sempre si cela in ogni aspetto dell’esistenza, per chi lo sa vedere.
Il parallelismo con la «selva oscura» è sottile ma chiaro: seguendo lo stesso diagramma trasmutativo, possiamo immaginare la «selva» dantesca come un analogo alla foresta dei neri camini, ed il giardino del paradiso, come percepiranno la distesa delle ciminiere i ragazzi dopo la danza degli spazzacamini, come lo stesso luogo, con la differenza formale che l’oscurità della prima è solo (solo!) la luce potenziale che illumina la seconda, colta qui finalmente in atto dal Poeta e dai ragazzi dopo la loro rettificazione. Non a caso, nel film, Mary Poppins, prima di far vivere ai fratelli, i neofiti dello stupore, la loro esperienza, li fa mettere letteralmente in riga. Senza quella postura del corpo, che corrisponde ad una predisposizione dell’anima, lo sguardo non avrebbe colto la meravigliosa trasmutazione. La pedagogia immaginale di Mary Poppins è dunque la stessa che esprime la celebre affermazione di W. Blake secondo cui «una volta le porte della percezione purificate, tutto apparirà agli uomini come esso è: infinito», sembra fargli eco lo spazzacamino Bart che potrebbe citare questa di M. Jouhandeau: «L’inferno è della stessa essenza del paradiso. Lo stesso fuoco che qui è luce, là arde».

L’invito di Bart ad esplorare questa «selva oscura» di camini, nasce allora dalla necessità, anche attraverso la frenetica, dionisiaca, danza degli spazzacamini, di far spaziare lo sguardo dei ragazzi sull’oscurità della selva, di renderlo uno sguardo mobile, al fine di evitare la maledizione della sua fissità, propria, in certe tradizioni mistiche, di quello dell’Antagonista. Ecco, infatti, che «due occhi fissi sull’oscurità immobile» sono quelli diabolici. A questo proposito possiamo notare come nel sufismo iranico si dice che «Satana si fa gioco di qualsiasi minaccia. Ciò che lo spaventa è vedere una luce nel tuo cuore». E forse per non rischiare di vedere questa luce, egli non chiude mai gli occhi. Un’immagine dall’analoga simbologia è quella espressa dall’«occhio di Sauron» l’Oscuro Signore di Mordor nel Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien. Anche W. Benjamin, nei suoi Passages, descrive le vetrine dei negozi come tanti occhi di Medusa che tengono infine pietrificato lo sguardo del viandante sulle loro merci, immobilizzando la percezione in questa innaturale e alienante fissità.

LA TEOGONIA ORFICA

Ora, non a caso, abbiamo usato all’inizio l’aggettivo «mitico» per definire la scena del film che poi culminerà con la danza dionisiaca degli spazzacamini. Nelle cosmogonie orfico-dionisiache, infatti, l’umanità viene forgiata da Zeus condensando l’oscuro fumo, la fuliggine, della folgorazione dei Titani che avevano divorato il corpo di Dioniso; da questo la scintilla divina dell’uomo ed al tempo stesso il suo essere creato secondo un principio alchemico di condensazione (coagula) dopo una dissoluzione (solve).
K. Kerényi chiarisce come nelle cosmogonie orfiche non si dica semplicemente che dalla cenere dei Titani abbia avuto origine la stirpe umana. «Il nostro corpo è dionisiaco», scrive il mitografo Olimpiodoro, che aggiunge: «Siamo pur sempre una parte di lui, perché siamo nati dalla fuliggine dei Titani che avevano mangiato della sua carne». Fuliggine e cenere non sono la stessa cosa: il termine scelto dal mitografo è, infatti, aithale, che nell’alchimia tardo-antica significa, non a caso, «vapore sublimato».
Se questo mito non avesse delle strette connessioni con i misteri orfico-dionisiaci, forse sarebbe bastata l’immagine della nascita dalle loro ceneri, in greco spodos. Ma, ci ricorda sempre Kerényi, il procedimento più complesso attraverso la condensazione dei vapori in materia – la fuliggine dei Titani – si rivela la sintesi magistrale di un autore che volle racchiudere nella sua immagine tutti gli elementi di questa creazione. I Titani, infatti, scomparvero nel Tartaro, il vapore del loro corpo si trasformò in fuliggine, e questa nella materia di cui è fatta l’umanità. Così risultano uniti due dati: l’antico mito dei Titani e un altro dato culturale: la valenza simbolica di una sostanza che restò quale residuo di un fuoco. Nella fuliggine si nasconde dunque della sostanza dionisiaca, che si trasmette negli uomini di generazione in generazione. In tal modo al dio viene ancora conferita sostanzialità materiale. Ecco che, allora, la danza degli spazzacamini, certo titanici nel loro lavoro, ed anche dionisiaci nelle loro spericolate acrobazie sui tetti di Londra, in quella «selva oscura» di camini che per i due ragazzi affascinati è già diventata il Giardino del Paradiso, diventa un rinnovamento dell’antico mito, come lo è il piccolo gesto che ci vede osservare rapiti la fuliggine che da ogni camino ci colora le mani.

LE INDIE NERE

All’opposto polare, dunque analogico, di Mary Poppins, si situa un romanzo di J. Verne. Se nel film, infatti, tutta l’azione si svolge in alto, qui si svolgerà in basso. La fuliggine come tema centrale lo ritroviamo dunque anche in uno dei maggiori romanzieri contemporanei, «iniziatore ed iniziato», come recita il titolo del libro che Michel Lamy a ha dedicato a Jules Verne. La relazione con la fuliggine come simbolo della conoscenza, o forse per meglio dire dell’avventura nel luogo della fuliggine per eccellenza, la miniera di carbone, come percorso di autorealizzazione, la troviamo espressa esplicitamente in un racconto, forse meno famoso di Ventimila leghe sotto i mari o del Giro del Mondo in 80 giorni, (il cui protagonista però si chiama Phileas Fogg, cioè Amico della Nebbia) benché di una profondità – è il caso di dirlo – simbolica e psicologica densissime, che questo intreccio sviluppa in maniera compiuta: si tratta delle Indie Nere.
In sintesi il romanzo narra del ritrovamento, da parte di una famiglia di minatori, i Ford, di un vero e proprio ambiente sotterraneo, con tanto di lago interno, dove gli abitanti del villaggio scozzese che era nato nei pressi dell’antica miniera di carbone – apparentemente esaurita – si insedieranno costruendone uno nuovo nelle viscere della terra: Coal-city, cioè la città del carbone.
Simon Ford, il patriarca della famiglia, infatti, non aveva mai voluto ammettere che il giacimento fosse esaurito, continuando la sua instancabile ricerca di nuove vene. Ma prima della scoperta cruciale c’era già qualcosa di misterioso nella miniera: diverse volte Harry, suo figlio, aveva sentito rumori, visto bagliori luminescenti mentre esplorava le gallerie oramai abbandonate. «Potrebbe esserci un genio della miniera?» si chiede ad un certo punto, introducendo così un sentore di sovrannaturale e misterioso. Certo è che mentre la famiglia Ford continua la sua esplorazione alla ricerca di nuove vene carbonifere, si verificano esplosioni dolose che provocano crolli nelle vecchie gallerie. Ad un certo punto, mentre Harry è impegnato nel dedalo dei cunicoli, si sente un battito d’ali e la sua lampada si capovolge, si spezza, lasciandolo così intrappolato nell’oscurità totale; inoltre, anche a tentoni, è impossibile uscirne: il passaggio è stato bloccato.
Oltretutto è impossibile scendere a salvarlo, poiché le scale sono state bruciate. Dopo molti tentativi, uno strano bagliore saltellante guiderà i soccorritori dove si trova Harry. Rinchiuso per dieci giorni nelle viscere della terra sopravvive, con altri membri della famiglia, solo in virtù di un essere misterioso che a volte porta loro da mangiare e da bere, senza mai essere visto. Anche dopo la scoperta della grande caverna sotterranea, Harry rimane ossessionato dal pensiero dell’essere sconosciuto che lo ha salvato. Un giorno, individuando un pozzo naturale che si addentrava più in profondità nella miniera, gli par di sentire un gemito e un battito d’ali. Seguendo il suo istinto trova una giovane ragazza. Harry decide di portarla con sé, ma viene attaccato da un uccello. La catastrofe viene evitata e la giovane Nell, così si chiama la donna, sarà adottata dai Ford; era stata lei a salvare Harry fornendogli abbastanza cibo ed acqua e dirigendo gli aiuti. A poco a poco, Nell impara a vivere normalmente, lei che non ha mai visto la luce del giorno. Harry e la giovane ragazza si amano, ma il giovane non vuole legarsi prima che ella sappia cosa potrebbe offrirgli la terra alla luce del sole.

Un giorno Nell è considerata pronta e per lei inizia la grande avventura: vedrà l’esterno. Qui siamo di fronte ad una riproposizione dell’uscita progressiva dalla caverna platonica: per due giorni, infatti, visiterà l’ingresso e poi, solo allora, uscirà.

Ed ecco entrare direttamente in gioco il misterioso personaggio che tanto ha cercato di impedire l’entrata dei Ford nel mondo sotterraneo: pochi giorni prima del matrimonio tra i due ragazzi, arrivano lettere con minaccia di morte per tutte le persone di Coal city firmate Silfax. È il nome di un «penitente»: si chiamavano così i minatori che aveva il compito, spesso mortale, di rilevare le sacche di grisù e di farle scoppiare con esplosioni più o meno controllate. Erano detti «penitenti» poiché indossavano una sorta di saio che li faceva sembrare dei monaci in pellegrinaggio nelle viscere della terra. Con il volto perennemente colorato dalla fuliggine, gli occhi fissi nell’oscurità, questo abitante del sottosuolo rappresenta infine l’Avversario che vuole impedire a Nell di tornare alla luce.

Ecco, ora, l’interpretazione che Michel Lamy darà di questo racconto. Non a caso il capitolo si chiama: «Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, ovvero la mistica ricerca delle Indie Nere».

«Il romanzo di Jules Verne è la storia di un uomo alla ricerca della sua anima, di quella parte divina che ciascuno di noi deve scoprire nel profondo, dentro di sé, attraverso delle prove, di qualcuno che deve liberare dalla matrice della materia la perla nascosta . Questa ricerca deve essere condotta con determinazione: ‘Corriamo al centro del globo, se necessario, per strappargli l’ultimo pezzo di carbone’, dice Simon Ford. Il richiamo della sua anima, Harry lo sentirà profondamente: ‘Era irresistibilmente attratto dalla speranza di trovare l’essere misterioso, il cui intervento lo aveva salvato. Cosa cercherà dunque in se stesso? La malinconia lo prende, non smette mai di sognare la sua anima, che Nell personifica in questa avventura».

LA PERLA NERA

Nell è quindi la personalizzazione di quest’anima impregnata di fuliggine, l’anima di un minatore, che Harry cercherà di risvegliare in lui. E infatti, non è forse Nell quella priva di luce solare, priva della luce finché Harry non la porta in superficie? Il suo stesso nome non è costituito dalla N di negazione e da Hel: il sole in lingua celtica, proprio come Helios tra i greci? Ma è anche legato all’Inferno Celtico e all’Hel islandese dell’Edda che designano l’Ade. Quando la trova tutto il suo volto è colorato di fuliggine, privato della luce. Nell porta dentro di sé l’ambiguità del passaggio attraverso la morte: è figlia della notte e del regno delle tenebre – come i Titani imprigionati nel Tartaro – (Hell), ma è anche promessa di luce (l’Hel celtico).

Anche Harry, come Mary Poppins ed il suo assistente Bart, è investito di poteri magici perché, ci fa notare Michel Lamy, è il figlio di Simon e Madge, nomi con cui dobbiamo riconoscere Simon Mago, mentre Madge è anche la «comare», nome dato alle streghe specializzate nell’uso delle erbe, che saluta sempre i turisti con i suoi migliori «auguri» (wishes), termine molto vicino a quello che designa le witches (streghe), ed anche i prognostici.

La ricerca quindi non sarà facile. Harry dovrà fare la sua discesa agli inferi, il suo tuffo nel fondo della fuligginosa miniera, cioè nel profondo di se stesso. Infine, come i bambini affidati a Mary Poppins, percepisce la manifestazione della sua anima solo perché è disponibile, vigile, avendo preferito prima interiorizzare (stare nel fondo), nel regno della fuliggine, e poi tornare a vivere superficialmente (in superficie). Anche i ragazzi faranno lo stesso percorso, prima saliranno sul tetto per scendere nella loro interiorità mercé l’ammirazione degli spazzacamini, poi torneranno in casa, alla vita in basso, portando con loro nuove visioni: nel mondo analogico della fiaba, ciò che è in alto è come ciò che è in basso, ma questo, in realtà, vale sempre, da sempre ed in ogni luogo.

Il Manifesto/Alias – 7 agosto 2021