TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 3 maggio 2023

Latino, oc e oïl: testi e lingue medievali dall’Atlantico al Po

 


Latino, oc e oïl: testi e lingue medievali dall’Atlantico al Po

Un maggio medievale con l’Espaci Occitan aspettando la Fiera degli Acciugai di Dronero


L’Associazione Espaci Occitan di Dronero organizza per maggio una breve rassegna dedicata al Medioevo, e in modo particolare alle strette relazioni tra lingua e mondo d’oc e d’oïl.

Si comincia sabato 13 maggio alle ore 10.30 presso la Cappella di San Salvatore a Macra con la presentazione dell’edizione fotografica de Gli Statuti della Valle Maira Superiore del 1441, un progetto di restituzione al territorio di questo importante documento storico. Introdurranno la giornata i saluti di Michelangelo Ghio, Presidente di Espaci Occitan, e Gabriele Lice, Assessore alla

Cultura dell’Unione Montana Valle Maira e Sindaco del Comune di Prazzo. Interverrà quindi il professor Giuseppe Gullino, già docente di Storia Medievale presso l’Università di Torino, trascrittore degli statuti e curatore del lavoro di traduzione italiana, ora in fase di realizzazione. Per concludere Secondo Garnero, cultore di storia locale, che illustrerà l’idea del progetto Valle Maira 28 maggio 2028, ed Erica Castelli professionista della comunicazione che presenterà il sito 1000annivallemaira.it, di cui è curatrice. Modera Rosella Pellerino. Seguiranno dibattito econclusioni.

Giovedì 18 maggio ore 17.30 presso la Confraternita del Gonfalone a Dronero sarà la volta di Andrea Giraudo, dottore di ricerca in “Filologia e critica” presso l’Università degli Studi di Siena e l’École Pratique des Hautes Études-PSL Paris, nonché assegnista di ricerca in Filologia romanza all’Università di Torino. Tema del suo intervento sarà Donne, cavalieri e astuzie d'amore tra oc e oïl: Flamenca e Joufroi de Poitiers: poco noti al grande pubblico, i duecenteschi romanzi in versi Flamenca (occitano) e Joufroi de Poitiers (francese) consentono non solo di guardare a dame, cavalieri e amori cortesi da un punto di vista diverso e complementare rispetto alla lirica, ma aprono anche interessanti prospettive su due mondi, quello d’oc e quello d’oïl, necessariamente connessi tra loro a tutti i livelli, come i testi presentati nella conferenza.

Si finisce giovedì 25 maggio, sempre alla Confraternita del Gonfalone di Dronero, con un doppio appuntamento: alle ore 17.30 Marco Piccat, già professore ordinario di Filologia Romanza all’Università di Trieste, parlerà di Tommaso III di Saluzzo e Le livre du chevalier errant, per cui ha curato l’edizione critica edita nel 2008. Il romanzo del marchese Tommaso III di Saluzzo fu composto in lingua d'oïl forse tra 1394 e 1396, anni in cui fu prigioniero dei Savoia-Acaia prima a Savigliano e poi a Torino, o più probabilmente in un soggiorno a Parigi fra 1403 e 1405, quando Tommaso rientrò a Saluzzo col manoscritto dell’opera. Autobiografia allegorico-didattica, narra il viaggio di un cavaliere prima alla corte di Amore, poi a quella di Dama Fortuna, per giungere infine, ormai vecchio e amaramente consapevole della caducità delle glorie terrene, alla dimora di Dama Conoscenza, che gli rivela la fede in Cristo come unico bene imperituro e gli permette di ritrovare la via della salvezza.

A seguire, sempre nel pomeriggio del 25 maggio, alle 18.45 Christine e Tommaso si raccontano,recita a due voci (durata 40’) incentrata sui personaggi di Christine de Pizan, prima scrittrice professionista della storia, e Tommaso III di Saluzzo. I due sarebbero stati a Parigi negli stessi anni, e Tommaso si servì della bottega di Christine per far realizzare le copie del proprio manoscritto.

La rassegna è realizzata con il sostegno della Regione Piemonte in collaborazione con la Parrocchia di Macra, la Confraternita del Gonfalone di Dronero e l’Istituto Superiore Denina di Saluzzo.

Tutti gli appuntamenti sono a ingresso libero e gratuito. Per informazioni Espaci Occitan, tel.0171.904075, segreteria@espaci-occitan.org, www.espaci-occitan.org, Fb@museo.occitano, Tw@espacioccitan, Ig @museooccitano.

martedì 2 maggio 2023

Navigatori del cielo stellato

 


Sono tre i luoghi dove il cielo stellato manifesta la sua potenza numinosa in tutta la sua terrificante e fascinosa bellezza: il deserto, l'alta montagna e il mare aperto. In questo suo ultimo lavoro Raffaele Salinari documenta il carattere archetipico e non meramente culturale di questo richiamo. Detto in altri termini il cielo stellato ci affascina in quanto uomini e non perché figli del Romanticismo. 

Raffaele K. Salinari

Navigatori del cielo stellato


«Sulla spiaggia di Sidone un toro tentava di imitare un gorgheggio amoroso. Era Zeus. Fu scosso da un brivido, come quando i tafani lo pungevano. Ma questa volta era un brivido dolce. Eros gli stava mettendo in groppa la fanciulla Europa. Poi la bestia bianca si gettò in acqua, e il suo corpo imponente ne emergeva abbastanza perché la fanciulla non si bagnasse… Europa intanto non vedeva la fine di quella pazza navigazione. Ma immaginava la sua sorte quando avessero toccato terra… Arrivarono ad una grande isola: Creta».

Cosi Roberto Calasso inizia il celebre Le nozze di Cadmo ed Armonia, saggio insuperabile di divulgazione dei miti Greci, di quelle storie che, come dice Sallustio nel suo Sugli Dei e il mondo, «non avvennero mai ma sono sempre». Da questo mito possiamo inferire molte cose, risalire ad esempio al principio fondativo della conquista dell’Europa, qui ipostatizzata da una giovane donna che proviene dalle spiagge dell’Asia minore, da Sidone appunto, rapita e violentata dal signore degli Dei, come di fatto, sino alla svolta europeista dopo il secondo conflitto mondiale, fu inteso il suo dominio da parte dei vari regni, imperi, stati in lotta tra loro, da quello romano al Sacro romano impero, dalla Francia napoleonica alla Prussia, dalla Germania nazista all’Italia fascista e via enumerando.  D’altra parte possiamo anche leggere nella genealogia di questo episodio il seme dell’ostilità tra Asia ed Europa, che Omero ha cantato magistralmente nell’Iliade.

Ma il mito come narrazione archetipica, capace cioè di svelarci le radici stesse della storia umana, è una manifestazione simbolica della realtà, e dunque racchiude in sé piani di lettura anche molto diversi tra loro, benché tutti irradiati da uno stesso “fuoco”, come le immagini di un caleidoscopio, sempre diverse anche se illuminate dalla stessa luce.

A. K. Coomaraswamy, studioso delle relazioni tra culture tradizionali di Occidente ed Oriente insieme a Renè Guénon, hanno evidenziato nei loro lavori sul significato esoterico del mito, come esso sia la «verità penultima» di cui ogni esperienza è il riflesso reale. In questo orizzonte di significati si inserisce anche la possibilità che il racconto mitologico, o la favola popolare, siano strumenti per tramandare antiche verità, oramai perse da tempo per l’esperienza dell’umanità attuale, degradate, dimenticate, ma che nell’antichità forse preistorica servivano per produrre effetti concreti, utili alla vita di ogni giorno. Questa è la tesi, estremamente documentata ed affascinate che propone Giorgio De Santillana nel suo Mulino di Amleto, quando ci narra dei racconti che conterebbero, sotto forma di leggenda popolare, ad esempio il cambio dell’eclittica che ha riposizionato le costellazioni celesti migliaia di anni or sono.

La navigazione celeste  

E allora, posiamo trovare qualche indicazione pratica anche nel mito di Europa? In quel suo viaggio sulla groppa di Zeus teriomorfo che parte dalla spiaggia di Sidone ed arriva a Creta? Pare proprio di sì, ed a suggerirlo sono le parole stesse che usa Calasso nel suo incipit quando parla della «pazza navigazione» di Europa sulla groppa del dio. Calasso non era a conoscenza di ciò che stiamo per dire ma, proprio per quella caratteristica intrinseca al mito che lui conosceva bene, forse qualcosa aveva già intuito. 

E infatti, uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Mediterranean Archaeology and Archaeometry, suggerisce che i marinai della civiltà minoica, il cui culmine possiamo datare all’Età del Bronzo che fiorì dal 2600 al 1100 a.C. e dunque immediatamente prima della guerra di Troia, navigassero orientandosi con le stelle utilizzando tecniche simili a quelle impiegate dalle culture polinesiane e micronesiane negli stessi secoli.

In particolare l’archeologo Alessandro Berio, ha avanzato delle ipotesi molto suggestive del fatto che l’antica civiltà minoica avesse elaborato tecnologie nautiche per sostenere i commerci marittimi, direttamente legati all’espansione della sua cultura e della sua ricchezza in tutto il Mediterraneo. La bellezza, ma anche l’opulenza dei suoi palazzi senza mura, i giochi sacri come la taurocatapsia che ancora vediamo effigiati negli affreschi della reggia di Cnosso, il mito stesso di Minosse il «talassocratore» e del labirinto di Dedalo con il suo Minotauro, testimoniano, infatti, di una civiltà che evidentemente dominava gli scambi marittimi ed era in grado di trasportare merci da una sponda all’altra del vasto mare, soprattutto a causa della sua posizione geografica.

L’idea di cognizioni legate alla navigazione con l’aiuto delle stelle nasce dall’osservazione di una corrispondenza astronomica tra l’orientamenti dei principali palazzi dell’antica civiltà minoica e le direzioni di navigazione delle rotte più importanti: in particolare l’asse più lungo delle grandi corti centrali rettangolari, caratteristica distintiva dell’architettura palaziale minoica, era orientato nel senso delle rotte stellari da seguire.

Nello specifico, e questa è la suggestione più importante, l’analisi delle piantine ha mostrato come l’asse dei palazzi minoici fosse orientato verso il sorgere o il tramontare di stelle portanti per la navigazione, che avrebbero dunque tracciato la rotta per i marinai verso le destinazioni commerciali dell’Oriente e del nord Africa. È quindi possibile che i minoici avessero elaborato una sorta di “percorsi stellari”, molto simili, nella tecnica, a quelli delle cosiddette “costellazioni lineari” della tradizionale navigazione stellare polinesiana conosciuta come kaveinga.

Certo la navigazione con l’orientamento stellare era conosciuta dai Greci omerici, come testimonia questo brano dell’Odissea: «Lieto l’eroe dell’innocente vento, La vela dispiegò. Quindi, al timone sedendo, il corso dirigea con arte, Nè gli cadea su le palpebre il sonno, Mentre attento le Plejadi mirava, E il tardo a tramontar Boóte, e l’Orsa, Che detta è pure il Carro, e là si gira, Guardando sempre in Orione, e sola nel liquido Ocean sdegna lavarsi: L’Orsa, che Ulisse, navigando, a manca Lasciar dovea, come la Diva ingiunse». (V, vv. 345-355 nella traduzione di Pindemonte). Ma qui siamo oramai verso l’anno mille a.C., mentre il mito è senza tempo e certo molto anteriore alla storia narrata dal cantore cieco.

Tornando ora al mito di Europa, è interessante notare come un esempio tra i più chiari di “percorso stellare” sia proprio Spica nella costellazione della Vergine, sulla cui traiettoria che collega il palazzo di Cnosso a Sidone è orientato l’asse maggiore della costruzione. Ecco, allora, che la rotta tra Sidone e Creta, adombrata nel racconto, quella «navigazione» di cui parla Calasso, è forse uno dei contenuti nascosti del mito, all’epoca certo praticato e conosciuto in tutte le sue sfaccettature, oggi solo da noi moderni intuibile nelle sue insondabili profondità.

Un ulteriore esempio è la corte centrale del palazzo centrale di Kato Zakro, l’ultima delle grandi costruzioni minoiche venute alla luce. Questa ha un orientamento che si allinea, seguendo una traiettoria lossodromica, che tiene cioè conto del fatto che la superficie terrestre è curva, verso l’antica città di Pelusium, in arabo Tel-el- Farama, rinomata nell’antichità per la sua birra, le cui rovine giacciono a circa 30 km a sud est dell’attuale Port Said alla foce del Nilo. È interessante tornare sulla definizione che la Treccani ci dà della tecnica di questa navigazione marittima poiché essa consiste nel «mantenere per tutto il tragitto l’angolo della prua rispetto alla direzione del nord indicata dalla bussola (o desunta in altro modo), cosicché la nave taglia tutti i meridiani con un angolo costante: la rotta che ne risulta (rotta l.) è la più semplice da seguire ma, a differenza della rotta ortodromica, non rappresenta in generale il percorso più breve per raggiungere la destinazione». Ora, al di là delle questioni astronomiche, appare evidente come chi applichi questa tecnica sappia bene che la Terra è rotonda, acquisizione dunque molto antica e non certo riferibile all’epoca della cartografia moderna.

Le stelle del Pacifico

Dall’altra parte del mondo, negli arcipelaghi del Pacifico, la navigazione stellare era nota da tempo. Le vestigia preistoriche in ceramica di queste pratiche sono raggruppate in quello che gli archeologi chiamano Civiltà Lapita, che sembra essere apparsa sulle isole Bismarck fra il 1.600 ed il 1.400 a.C. I portatori della ceramica lapita colonizzarono una regione che comprendeva le attuali Fiji orientali, le Tonga, le Samoa ed altre isole. Da queste vennero in seguito popolate le isole Marchesi e della Società, gli arcipelaghi della Polinesia centro-orientale fino a giungere a Rapa Nui (l’isola di Pasqua), le Hawaii e Ao-tea-roa (la terra della grande nuvola bianca) cioè l’attale Nuova Zelanda.

Il primo dato che emerge è come si sia più o meno nel medesimo periodo storico dell’età del bronzo minoica, nella quale si sviluppa la stessa tecnica della navigazione stellare. Ancora oggi, negli arcipelaghi polinesiani, i marinari rievocano nei canti e nei loro miti di fondazione queste tecniche: «Pianta il tuo seme, spargilo al vento, tu puoi morire ma la forza della vita resta, il flusso delle correnti ti aiuterà, o viaggiatore».

In tutto il Pacifico il cielo veniva rappresentato come una cupola, o come una serie di cupole sovrapposte. Anche qui, la corrispondenza tra la volta celeste e la curvatura della Terra rappresentava la base per l’orientamento. Sappiamo, ad esempio, che gli antichi navigatori polinesiani erano consapevoli che l’altezza della Stella Polare al di sopra dell’orizzonte settentrionale era uguale alla latitudine del luogo in cui ci si trovava. Quelli che invece navigavano a sud dell’equatore usavano invece il sistema di una stella allo zenit.

Il navigatore sacerdote Tupaia

Ma, forse, il personaggio più emblematico di questi antichi saperi, e della possibilità che siano giunti sino a noi, è certamente Tupaia.  Era nato nel porto di Ha’amanino sull’isola di Ra’iatea delle Society Island intorno al 1725, e divenne uno dei principali sacerdoti ariori per il Taputapuatea marae di Ra’iatea, luogo sacro per i Maori della Polinesia Orientale e centro di una vasta rete politico-religioso-culturale del triangolo polinesiano. L’area è chiamata Te Po, cioè «dove risiedono gli dei». Il marae originale era dedicato al dio Ta’aroa. Successivamente, il dio ‘Oro , dio della vita e della morte, fu venerato al suo posto. Secondo la mitologia polinesiana, il discendente di ‘Oro, Hiro, costruì i marae dandogli il nome di Taputapuatea, che significa «luogo dei sacrifici» e dunque centro sacro. La pietra bianca Te Papatea-o-Ru’ea ancora visibile sulla spiaggia, fu ad esempio usata per consacrare i capi di Ra’iatea con la cintura maro’ura dalle piume rosse. Con la diffusione della venerazione di ‘Oro, Taputapuatea divenne così il centro di una rete di navigatori oceanici.

Il marae era dunque anche un luogo di apprendimento dove si riunivano sacerdoti e navigatori di tutto il Pacifico per offrire sacrifici agli dei e condividere le loro conoscenze sull’origine genealogica dell’Universo, ma anche sulla navigazione che, come nel caso della cosmologia greca, erano pratiche strettamente correlate. Ecco che allora Tupaia venne addestrato sulla cosmologia ed anche ad essere un navigatore stellare. Le sue conoscenze includevano interi elenchi di isole, le loro dimensioni, la forma della barriera corallina e le posizioni dei porti, se erano abitate e cosa si produceva. Ancora più importante, la sua arte navigatoria comprendeva la posizione di ogni isola, il tempo per arrivarci e la successione di stelle e isole da seguire per tracciare la rotta. Queste isole includevano le Isole della Società, le Isole Australi, le Isole Cook, oltre a Samoa, Tonga, Tokelau e Fiji.

Quando, nel 1763, i guerrieri di Bora Bora invasero Ra’iatea, ferendo Tupaia e costringendolo a fuggire a Tahiti, il sacerdote navigatore  cercò la protezione dal capo di Papara, Amo, e da sua moglie Purea. Tupaia divenne così loro consigliere e sommo sacerdote. Infine si imbarcò sull’Endeavour di James Cook nel luglio 1769 quando il Capitano passò per la sua isola natale di Ra’iatea nel viaggio di andata da Plymouth. Fu accolto a bordo su richiesta di Sir Joseph Banks, botanico ufficiale della spedizione, sulla base della sua evidente abilità di navigatore e cartografo: quando gli furono richiesti i dettagli della regione, Tupaia disegnò una carta che mostrava tutte le 130 isole entro un raggio di 3200 km e fu in grado di citarne a memoria ben 74.

La mappa di Tupaia

L’originalità di questa celebre mappa consiste nel fatto che mette in relazione due diverse visioni cartografiche, e dunque del mondo: unisce, infatti, le tecniche di navigazione non strumentale dei polinesiani, in particolare la “bussola” rappresentata dalle isole, alle rilevazioni mediante i sestanti e bussole inglesi. Questa compresenza di metodi diversi ha impedito a lungo una lettura univoca della mappa: formalmente paragonabile a una classica mappa occidentale con punti cardinali, meridiani, paralleli e contorni delle isole, la sua decifrazione pone in realtà altri problemi in quanto alcune isole sembrano mal posizionate, altre addirittura non sono identificate.

Queste difficoltà, questa «crisi della ragione cartografica» direbbe il geografo Franco Farinelli, sorge dal fatto che la mappa di Tupaia è in realtà costituita dai compassi delle isole. A differenza delle carte nautiche occidentali, infatti, la posizione delle isole è relativa al punto centrale della bussola: l’isola o addirittura la canoa su cui si trova il navigatore. Questo documento illustra quindi la visione polinesiana dello spazio marittimo e del movimento al suo interno: data la rotazione della Terra, il cielo è in moto perpetuo sopra e tutt’intorno alla canoa. Una visione dinamica ben diversa da quella fissata nelle mappe occidentali che, appunto, cercano di definire e limitare lo spazio più che di capirlo. Nelle rappresentazioni dei marinai polinesiani, invece, l’imbarcazione diventa il centro di una serie di settori, chiamati “case”, ognuno con un suo nome che comprendeva informazioni riguardanti il ​​passaggio del sole, le stelle, il loro sorgere e tramontare, e così via. Queste conoscenze mostrano, allora, un diverso rapporto con la traiettoria, con il movimento: il punto di riferimento è la canoa, è l’oceano che si muove. Torna così la visione eraclitea dell’esistenza: tutto scorre, mai ci bagneremo una seconda volta nell’acqua dello stesso fiume.

Il Manifesto/Alias 1 aprile 2023



lunedì 24 aprile 2023

Quando i partigiani divennero banditi

 


Quando i partigiani divennero banditi

Molti all'estero, molti di meno in Italia dove per lo più ci si limita a polemiche di superfice, si interrogano su come sia possibile che a ottant'anni dalla fine del regime fascista un partito che orgogliosamente rivendica le sue radici nell'esperienza sanguinosa e drammatica della Repubblica Sociale Italiana (vedi la "fiamma" nel simbolo), sia diventato la principale forza politica e di governo italiana. Ovviamente il fenomeno è complesso e non esiste una risposta univoca. Esce comunque confermato ancora una volta che l'Italia, ed è cosa che risale almeno al 1500, è il Paese del Gattopardo, dove periodicamente tutto cambia, anche in modo violento, perché in realtà non cambi nulla. Così come va detto, anche se a molti non piacerà, che il fascismo è stato tutto meno che un fenomeno passeggero, con radici profondissime nella nostra storia tanto da segnare ancora oggi la nostra identità nazionale. Lo dimostra uno studio, documentatissimo e di ottima scrittura, di una giovane studiosa, in libreria da pochi giorni. Ne riportiamo la presentazione editoriale. Con la speranza che almeno questo 25 Aprile non sia occasione di vuote e retoriche celebrazioni, come ormai da troppo tempo accade, ma di una riflessione attenta sul presente e sul passato.

G.A.


Processo alla Resistenza

Molto è stato scritto sulla Resistenza e sulla guerra di liberazione in Italia. Ma che cosa accadde ai partigiani dopo l'aprile 1945? Come vissero realmente gli anni del dopoguerra e della rinascita del Paese coloro che la Repubblica avrebbe celebrato come i nuovi eroi della patria, martiri del secondo Risorgimento nazionale?

Dal 1948 e fino ai primi anni Sessanta, nelle aule di giustizia della nuova Italia democratica va in scena un «Processo alla Resistenza», destinato ad avere un forte impatto mediatico. Assassini, terroristi, «colpevoli sfuggiti all'arresto». Così la magistratura del dopoguerra, largamente compromessa col regime fascista, giudica quei partigiani che hanno combattuto una guerra clandestina per bande, tra il 1943 e il 1945.

Giudizio condiviso dalla stampa e da gran parte dell'opinione pubblica italiana, che si accompagna a una generale riabilitazione di ex fascisti e collaborazionisti della Rsi, autori di stragi e crimini contro i civili, costretti a «obbedire a ordini superiori».

Attraverso carte processuali e documenti d'archivio inediti, Michela Ponzani ricostruisce il clima di un'epoca, osservando i sogni, le spe-ranze tradite e i fallimenti di una generazione che pagò un prezzo molto alto per la scelta di resistere.

Michela Ponzani (Roma, 1978) insegna Storia contemporanea all'Università degli studi di Roma «Tor Vergata».


Michela Ponzani
Processo alla Resistenza
Einaudi 2023
€ 28,00

lunedì 17 aprile 2023

Ansgar Elde. La danza della materia

 


Ansgar Elde (1933-2000) nasce a Resele, nel nord della Svezia. A 19 anni si trasferisce a Braunschweig, in Germania per frequentare l’Accademia di Belle Arti e dedicarsi alla costruzione di marionette. Completa questo insolito percorso di formazione studiando danza moderna a Stoccolma ed esibendosi sui palcoscenici di tutta la Svezia. Nel 1959 raggiunge l’Italia con l’intenzione di studiare scultura a Brera, sotto la guida di Marino Marini. Consigliato da Aligi Sassu, però, Elde compie una breve deviazione per visitare Albisola, stravolgendo, senza saperlo, i suoi piani di vita. Qui incontra Asger Jorn e si dedica alla ceramica, trovando, in essa, concordanze e affinità con la sua pittura. Nei primi anni Sessanta è considerevole la visibilità che raggiunge a livello internazionale: si unisce all’Internazionale Situazionista (1962) e vince il Copley Foundation Award di Chicago (1964). Col tempo, Elde sviluppa un linguaggio potente e primordiale. La sua arte è l’emanazione di un universo privo delle categorie e dei limiti in cui gli esseri umani l’hanno costretto.

Cecilia Nastasi ha ricostruito criticamente la vicenda umana e artistica di Ansgar Elde muovendo dall’esame della corrispondenza, delle notizie di stampa, dei cataloghi e dei manifesti, delle immagini fotografiche, dei disegni e dei manoscritti facenti parte dell’archivio raccolto e conservato da Alfredo Meconi ad Albissola Marina, per una tesi di laurea magistrale, ora tradotta in un corposo saggio in corso di stampa presso l’editore Il Canneto.


venerdì 14 aprile 2023

Ucraina: a sinistra tutti sono contro la guerra, ma...

 


Ucraina: a sinistra tutti sono contro la guerra, ma...


Come tutti gli avvenimenti di portata storica, quelli per intenderci che segnano un'epoca, la guerra d'Ucraina scatena contrasti violenti, fa emergere contraddizioni, costringe ad interrogarsi sulla validità di concezioni fino a quel momento accettate, fa crollare miti. Ed infatti sugli avvenimenti ucraini la sinistra cosiddetta "rivoluzionaria" o "di classe" si è divisa – e non solo in Italia – in almeno quattro spezzoni. 

Iniziamo dai sostenitori del diritto di un popolo all'indipendenza e alla libertà e dunque a difendersi se aggredito. Al tempo della guerra del Vietnam fu posizione quasi unanime, condivisa anche da chi stalinista non era. Allora non importò che gli aiuti militari venissero dall'imperialismo sovietico o dal tardo stalinismo cinese, né tantomeno che la dirigenza del Partito comunista vietnamita, Ho Chi-minh in testa, avesse le mani sporche del sangue dei trotskisti, fucilati a centinaia nel 1945. La questione era difendere il diritto del popolo vietnamita all'autodeterminazione e gli aiuti militari alla resistenza erano benvenuti da qualunque parte venissero. Lo stesso vale oggi oggi per l'Ucraina invasa e schiacciata sotto una pioggia di missili. E dunque si agli aiuti militari alla resistenza indipendentemente da chi li fornisce e dai motivi per cui lo fa. Posizione coerente, ma minoritaria e accusata di essere filoimperialista o comunque di contribuire alla continuazione della guerra.

Segue poi l'area dei pacifisti ipocriti che a parole condannano l'aggressione russa, ma sono poi nel concreto ferocemente avversi ad ogni forma di sostegno militare al popolo ucraino. Ipocriti perché un'aggressione militare feroce non si ferma con le affermazioni di principio, ma soprattutto perché sulla base di questi presupposti quella pace così fortemente auspicata a parole non può configurarsi nei fatti che come una sostanziale resa.

Ci sono poi i nostalgici della vecchia Unione Sovietica che non hanno ancora elaborato il lutto della fine di quella esperienza e quasi per un riflesso condizionato restano accanitamente filorussi a prescindere dal dichiarato filozarismo putiniano. Al loro fianco gli antiamericani di professione, quelli per cui comunque e sempre gli Stati Uniti sono la causa di tutte le nefandezze del mondo contemporaneo e dunque chiunque sia in contrasto con loro va sostenuto. Un antimperialismo a senso unico che di fatto li porta a sostenere le "ragioni" di Putin che da aggressore diventa aggredito, vittima di una politica americana mirante a isolare la Russia di cui l'Ucraina si sarebbe prestata a essere il braccio armato.

Infine ci sono i puri, quelli che non si sporcano le mani con prese di posizioni concrete, ma si limitano a lunghe e ponderose analisi infarcite di dati e ad appellarsi ad un presunto internazionalismo proletario, di cui non si vedono da nessuna parte i segni, ma che dovrebbe, come la Madonna per il Papa, fungere da agente salvifico. In astratto il gioco potrebbe anche funzionare. Restare nell'empireo dei massimi sistemi permette, comunque vadano le cose, di avere sempre ragione.

Il problema nasce quando, come nel caso di Lotta comunista, si è presenti sul campo, nel caso specifico la Russia. Perché allora gli slogan astratti, tipo "Opposizione internazionalista alla guerra d'Ucraina", come si legge nella manchette del giornale, sono immediatamente sottoposti alla verifica impietosa della realtà quotidiana. Detto in altri termini: cosa fanno concretamente i "leninisti" di Proletarskij Internatzionalism, il gruppo "fratello" russo, per attuare questa direttiva? Disfattismo rivoluzionario, appello a trasformare la guerra imperialista in guerra civile, propaganda fra i soldati contro la guerra invitandoli a rivolgere le armi contro i loro ufficiali e a fraternizzare con i proletari ucraini, secondo la lezione bolscevica del 1914-1917? Assolutamente no. Come si evince dal lungo articolo apparso sull'ultimo numero del giornale a firma dei "nostri compagni russi", Proletarskij Internatzionalism si limita a ricordare che " i fautori delle guerre sono tutte le potenze imperialiste senza eccezione". Non una parola sulla concreta realtà della guerra, sui suoi costi in vite umane, sui crimini perpetrati dall'esercito russo nei confronti della popolazione civile ucraina, vecchi, donne e bambini. Il problema centrale, a giudicare dallo spazio dedicatogli nell'articolo, sembra essere la difficoltà russa ad esportare gas e a non farsi estromettere dai mercati. Una cosa è certa: se questa è l'opposizione internazionalista alla sua guerra, l'autocrate Putin può dormire sonni tranquilli.


lunedì 10 aprile 2023

Ansgar Elde. Monotipi

 


ANSGAR ELDE
MONOTIPI
a cura di Cecilia Nastasi
Entr'acte
via sant'Agnese 19R –
Genova
12 aprile – 10 maggio 2023
orario: mercoledì – venerdì
16-19 apertura mostra:
mercoledì 12 aprile 2023, ore 17


Ansgar Elde (1933-2000) nasce a Resele, nel nord della Svezia. A 19 anni si trasferisce a Braunschweig, in Germania per frequentare l’Accademia di Belle Arti e dedicarsi alla costruzione di marionette. Completa questo insolito percorso di formazione studiando danza moderna a Stoccolma ed esibendosi sui palcoscenici di tutta la Svezia.

Nel 1959 raggiunge l’Italia con l’intenzione di studiare scultura a Brera, sotto la guida di Marino Marini. Consigliato da Aligi Sassu, però, Elde compie una breve deviazione per visitare Albisola, stravolgendo, senza saperlo, i suoi piani di vita. Qui incontra Asger Jorn e si dedica alla ceramica, trovando, in essa, concordanze e affinità con la sua pittura. Nei primi anni Sessanta è considerevole la visibilità che raggiunge a livello internazionale: si unisce all’Internazionale Situazionista (1962) e vince il Copley Foundation Award di Chicago (1964).

Col tempo, Elde sviluppa un linguaggio potente e primordiale. La sua arte è l’emanazione di un universo privo delle categorie e dei limiti in cui gli esseri umani l’hanno costretto. L’universo di Elde è contaminazione e tumulto, libertà e vita, capace di manifestarsi con ogni mezzo espressivo. Nella produzione dell’artista, la grafica ha sempre mantenuto una posizione di rilievo. La mostra ospitata nella Galleria Entr’acte presenta una selezione di incisioni che rivela l’approccio sperimentale con cui Elde si è avvicinato alle tecniche canoniche di questa disciplina. L’acquatinta, la xilografia e l’incisione a secco su svariati materiali (plexiglass, metallo o legno) vengono reinterpretate ottenendo una produzione multipla differenziata in cui ogni singolo pezzo è unico. La maggior parte delle incisioni esposte è frutto della collaborazione con l’Atelier Il Bostrico di Albissola Marina, luogo dove Elde realizza i “monotipi”. Questi sono opere grafico-pittoriche, testimonianze del modo unico con cui l’artista dà vita alle sue visioni: con aggiunte progressive di colore e forme, seguendo una sorta di ritmo interiore. Ansgar Elde, pittore e danzatore, ha la capacità di trasformare in immagine la musica che permea la materia, rivelando a chi osserva l’essenza del mondo.

sabato 8 aprile 2023

Il quarto uomo. Considerazioni di un figlio

 


Questo è mio padre, Giuseppe Amico (1919-1996), durante la guerra, brigadiere dei carabinieri, prima in Albania e poi nel 1944 comandante della Stazione di Fiesole.


Questo invece è Giorgio Pasotti, protagonista del film Rai “A testa alta”, che interpretava il personaggio di mio padre, non senza qualche forzatura biografica, visto che la produzione allora non si curò di contattare la famiglia e io e mia sorella sapemmo del film vedendolo per caso in televisione.


Alla sua figura e a quella dei suoi compagni è stata ora dedicata un'opera lirica con la consulenza storica del Professor Jonathan Nelson, prestigioso accademico, oltre che amico personale, già curatore di una splendida mostra sui martiri di Fiesole.

Eppure mio padre, partigiano combattente e decorato, ebbe sempre un estremo pudore a parlare di quei fatti. Lo fece raramente, per brevi accenni e sempre parlando solo dei suoi compagni morti. Pensava di aver semplicemente fatto quello che in quel momento andava fatto. Oggi, con quel po' di esperienza portato degli anni, ho capito che il pensare di essere stato l'unico a sopravvivere a quel tragico evento, mentre tutti i suoi compagni erano morti nel fiore degli anni, gli provocasse una profonda sofferenza, come di una sorta di ingiustizia non voluta ma subita.