TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 21 novembre 2019

Un anno di svolta. La polemica Secchia-Togliatti del 1953




È in via di editing il volume "Azione comunista da Seniga a Cervetto (1954-1966)" che ricostruisce la storia del Movimento della Sinistra Comunista dai suoi esordi nel 1954 alla crisi definitiva del 1965 conseguente alla rottura fra la componente leninista di Cervetto e Parodi (da cui prenderà poi vita l'attuale Lotta comunista) e la frazione maoista di Raimondi e Bazzanella (che diventerà poi l'effimera Federazione marxista-leninista d'Italia). Del libro, la cui uscita è prevista a breve, proponiamo l'incipit.

Giorgio Amico

Il 1953, un anno di svolta

Come si scriveva una volta nei romanzi d'appendice, la storia che andiamo a raccontare ha inizio nel 1953, vero anno di svolta, in cui lo scontro in corso in URSS sul dopo Stalin si trasferisce nel PCI fra gli “operaisti” che vedono ancora nella fabbrica il centro delle contraddizioni su cui fare leva per il cambiamento radicale della società italiana e i “rinnovatori”, ormai votati ad una tattica incentrata sul Parlamento, incamminati non senza tentennamenti sul lungo e accidentato percorso destinato a inserirli a pieno titolo nelle istituzioni democratiche repubblicane. È, per metterla sul personale, lo scontro fra Secchia e Togliatti che prende la forma, sul modello di ciò che sta accadendo in URSS, di una battaglia senza esclusione di colpi per una autentica direzione collegiale del partito che di fatto liquidi l'egemonia fin qui incontrastata del “Migliore”. Nella particolarità italiana, sono i “duri” del partito, gli uomini dell'apparato parallelo, a chiedere un deciso cambiamento democratico nei metodi di direzione politica al vertice del partito. Una situazione che un osservatore attento come Danilo Montaldi definirà paradossale.

Pensando di interpretare il nuovo clima che si respira a Mosca, dove si parla di “direzione collegiale” come risposta ai problemi del post stalinismo, Secchia coglie l'occasione per uscire allo scoperto e chiedere un profondo rinnovamento della vita interna del partito.

Aspettative condivise dal suo principale collaboratore, Giulio Seniga, ex-partigiano e responsabile del settore più delicato dell'apparato parallelo del PCI, quello incaricato di gestire “case sicure” in cui occultare fondi e documenti che devono restare segreti.Durissima la risposta di Togliatti, delegata al fido D'Onofrio, che non lascia spazio a mediazioni, svolta in un linguaggio cifrato comprensibile solo dagli iniziati. Una polemica

indiretta, cifrata, ed è difficile dire quanto sia compresa non solo dalla base, ma dagli stessi quadri intermedi del partito; sta di fatto che il conflitto fra Togliatti e Secchia, per quanto sotterraneo, si inasprisce e si avvia a un punto di non ritorno.

Una polemica fra ostinati sognatori della lotta armata, tanto per citare il (brutto) libro di Miriam Mafai e ormai convinti democratici sostenitori di un socialismo senza filo spinato? Assolutamente no, come nota già nel 1967 Marcello Flores per cui:

L'operaismo di Secchia si traduce puramente in un rafforzamento del partito, in una maggiore attenzione organizzativa all'interno dei luoghi di produzione; mai in una diversa concezione dell'unità di classe, degli obiettivi, delle forme di lotta, delle alleanze sul terreno sociale […]. Se la linea democratico-nazionale di Togliatti si presenta come una strategia difensiva che non considera le condizioni reali adatte ad una politica offensiva sul terreno di classe e non prefigura, quindi, nel breve periodo, che una massimizzazione della propria forza e della propria presenza nella società, le ipotesi organizzativo-massimalistiche di Secchia accentuano e codificano ancora di più questo carattere difensivo; certo una difesa più dura, più intransigente, ma anche una sostanziale sfiducia nella possibilità delle masse di innescare un processo alternativo.

In realtà, siamo in presenza di un contrasto non sulla strategia complessiva del partito, ma sulla tattica, di una accentuazione massimalistica e operaistica del togliattismo, cioè della forma storicamente assunta dallo stalinismo nel movimento operaio italiano. Una versione più dura e militante della via italiana al socialismo che non va al di là dei limiti ben definiti di questa, ma che proprio per la durezza, soprattutto verbale, usata può apparire accattivante per chi è stanco di attendere una ora x che non arriva mai. Che quello fra Secchia e Togliatti sia un contrasto tutto interno alla stessa ipotesi strategica non lo rende tuttavia meno aspro. La risposta di Togliatti alla fronda secchiana sarà durissima con l'obiettivo per nulla celato di fare il vuoto attorno al numero due del partito. Uno dopo l'altro saltano i segretari federali, dirigenti, come Alberganti a Milano, legati a Secchia da un rapporto personale di fedeltà risalente agli anni della cospirazione antifascista o della guerra partigiana. Già nel 1953 viene rimesso in discussione il monopolio dell'organizzazione da parte di Secchia e insieme a questo il ruolo egemonico finora svolta dai quadri formatisi nei tempi dell'emigrazione e poi della lotta armata. Nel rapporto al Comitato Centrale del 7 dicembre 1953 Togliatti chiude la questione, prima facendo suo il tema della direzione collegiale e poi portando l'affondo finale contro i «secchiani», visti come un peso morto, un ostacolo sulla via del necessario rinnovamento del partito.

Il PCI ha riassorbito la botta del 1948 ed è all'apice della sua forza organizzata; 2.145.000 iscritti, di cui 160.000 i nuovi reclutati. Eppure per i comunisti il momento è particolarmente difficile. È in pieno svolgimento una violenta campagna anticomunista che utilizza ogni mezzo, lecito e illecito, per ridurre il peso del Partito nel paese e spazzarne via la la presenza nelle fabbriche. Sono gli anni delle provocazioni anticomuniste di Pace e Libertà, il movimento finanziato dalla CIA e coordinato dalla stessa ambasciata americana a Roma. La guerra fredda è in pieno svolgimento e l'Italia, per la sua stessa collocazione geografica al centro del Mediterraneo, ne rappresenta uno dei principali fronti. Nel suo libro-testamento, Il sarto di Ulm, Lucio Magri offre una efficace rappresentazione di questa particolarità italiana:

Il Italia la nuova guerra fredda si trascinò più a lungo e, nel '54-'55, ebbe anzi un ritorno di fiamma. Il governo Scelba-Saragat ripropose le pratiche della repressione poliziesca (nello stesso giorno della sua nascita ci furono quattro morti durante una manifestazione a Mussomeli), e si aggiunse l'esclusione per legge dei comunisti da ogni posto di rilievo nella pubblica amministrazione; licenziamenti, e punizioni nelle fabbriche per ragioni politiche divennero ancor più sistematici; la censura diretta o nascosta ai danni delle attività culturali fu più stringente; una prima e ancora limitata ondata di assunzioni al lavoro dell'industria fu politicamente discriminatoria; le divisioni aspre tra le confederazioni, e l'influenza della Coldiretti e della Federconsorzi accentuavano le difficoltà delle lotte sociali. Infine era cresciuto, anziché attenuarsi, l'intervento diretto dell'ambasciata americana: l'affacciarsi di un eventuale allargamento dell'alleanza di governo al Partito socialista era visto con preoccupazione ed esigeva una ancor più netta discriminazione dei comunisti.

Pace e Libertà è in prima fila in questa azione, attraverso la produzione di materiali, volantini, documenti, lettere, che vengono poi massicciamente diffusi fra i militanti comunisti, utilizzando schedari segreti e del tutto illegali che contengono migliaia di nomi e indirizzi. L'obiettivo è far sentire sotto tiro i comunisti, soprattutto quelli che lavorano in fabbrica o nell'amministrazione pubblica, esposti alle rappresaglie delle direzioni aziendali. È solo uno dei tanti tasselli della strategia della «guerra psicologica» al comunismo programmata nella riunione del 14 maggio 1952 del comitato dei capi di stato maggiore degli eserciti della NATO e nota con il nome in codice Demagnetize.

Una campagna a tutto campo che coinvolge in ruoli non secondari anche esponenti della sinistra non comunista, come Saragat e il suo partito, sindacalisti “liberi” di CISL e UIL, uomini dal passato torbido come Ignazio Silone, transfughi della guerra fredda come Eugenio Reale, riviste come “Critica Sociale” del socialista di destra Faravelli. Il tutto in nome dei valori della democrazia e dell'Occidente minacciati dall'espansionismo sovietico. Un dato che occorre sempre tenere ben presente quando si affronta a qualunque titolo la politica italiana degli anni Cinquanta. È in questo contesto che si colloca e trova alimento il caso Seniga.