TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 14 maggio 2020

Sergio Givone, Metafisica della peste




Sergio Givone, docente di Estetica all'università di Torino nel 2012 pubblica per Einaudi un libro, Metafisica della peste, molto interessante, ma che allora passò per stravagante. Oggi, in pieno Covid 19, siamo in grado di apprezzarne in pieno la profondità. Ne presentiamo una pagina come invito alla lettura di un libro affascinante che può aiutarci a convivere meglio con noi stessi nei tempi oscuri di una pandemia giunta,come sempre accade, inattesa e dunque distruttiva di ogni certezza.

Sergio Givone

Metafisica della peste


Com’è possibile la peste?

La peste è un enigma. Intanto, non ha a che fare con l’ordine naturale delle cose. Quest’ordine in genere è piú forte delle potenze distruttive che lo minacciano. Se la sciagura colpisce e distrugge le persone e il loro mondo, tuttavia la comunità resiste, finendo addirittura rafforzata. Non c’è evento catastrofico che non lasci intatti spazi d’esistenza in cui la vita continua a scorrere tranquillamente. Sarà pure indifferenza all’altrui dolore, questa; ma alla radice bisogna pur sempre riconoscere un incondizionato atto di fiducia nel futuro.

Solo la guerra è in grado di mutare la percezione che abbiamo del mondo, costringendo tutti, sia chi è al fronte sia chi è a casa, a prendere coscienza di una rottura irrimediabile e di una discontinuità irreversibile. Nessuno può credere veramente alla guerra. È una cosa troppo stupida. Cosí si pensa che non possa scoppiare o, una volta scoppiata, non possa durare: non sia insomma altro che un incubo. Da cui, prima o poi, ci si sveglierà. Anche durante la guerra i caffè sono pieni di gente e la burocrazia manda avanti il suo lavoro come se niente fosse. La vita continua. L’ordine entro cui la vita si svolge non è veramente messo in questione dalla guerra.

Con la peste le cose vanno un po’ allo stesso modo e un po’ diversamente.

Il ragionamento è: se la peste fosse reale, la vita sarebbe impossibile. Ma la vita non solo è possibile, è reale, realissima, con le sue banalità quotidiane, con le sue urgenze, le sue necessità, e dunque evidentemente è la peste a essere irreale. All’annuncio della peste molto ragionevolmente reagiamo dicendo: non è possibile! E se le autorità, fin da subito, minimizzano, occultano, mentono, forse lo fanno in tutta sincerità…

Ciò non toglie che la peste faccia la sua comparsa. Come proveniente da un’altra dimensione: che non è la nostra, infatti con la nostra è incompatibile. Questo significa che la peste (in questo simile alla guerra) fa segno a una originaria dismisura. Il flagello della peste, dice Camus, «non è commisurato all’uomo» . Ciò che non doveva e anzi non poteva accadere, in base alla capacità umana di previsione, accade, e l’uomo vi si espone inerme, sgomento, senza capire: quasi fosse annichilito e non solo messo a nudo. Reagisce a questa specie di derealizzazione dichiarando priva di realtà la sola cosa reale; ma a diventare irreale e allucinata è la sua vita, che vorrebbe continuasse come prima e invece è già precipitata nell’assurdo e nel non-senso.

Il fatto è che l’uomo, prima ancora che rispetto alla peste, non è «commisurato» rispetto a se stesso – e la peste lo costringe a prendere atto di questo paradosso. A misura che vive ingenuamente appagato, pieno di confidenza e di fiducia, abita l’assoluto come se fosse un orizzonte naturale: la sua fede, quale che sia, e per quanto ingannevole, pretende di essere vera, la sua dedizione a questa o a quella causa vuol essere incondizionata, e cosí via. Ma in tal modo si fa tentare dall’assoluto. Ne viene per cosí dire sedotto, al punto da cercarlo fuori di sé e come altro da sé. Senza poterlo trovare se non per negazione. E a misura che nello specchio dell’assoluto tutto gli si rivela incerto e confuso oltre che rovesciato, viene riconsegnato al relativo, al caduco e al mortale, che indubbiamente è roba sua. Ma com’è roba sua l’eterno.

Smisurata misura. Fin dal suo primitivo annunciarsi, la peste detta legge per bocca di coloro che vorrebbero ignorarla o disconoscerla. La città viene isolata. Mondo chiuso nei propri confini, mondo fuori del mondo. Però tutt’altro che autosufficiente e pacificato. Chi vi dimora si sente prigioniero e in esilio, costretto com’è a vivere un’esperienza di crudele separazione: dai famigliari, dai corrispondenti, dalle persone amate. (...)

E se fosse questa la nostra condizione? Se la dismisura e la scissione appartenessero non già a una determinata situazione esistenziale bensí all’essere stesso? Se la crepa che si apre nella realtà al sopraggiungere della peste, spaccandola in due; se lo smarrimento che ci coglie e il conseguente senso di estraneità a noi stessi avessero un rilievo ontologico prima ancora che psicologico?
(...)
Il problema sarà dunque come fondare un’etica della resistenza al male.

Sergio Givone
Metafisica della peste
Einaudi, 2012