TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 4 agosto 2024

Ma Parigi è davvero romantica come un pissoir ingorgato?

 


Oggi il supplemento culturale di Repubblica dedica l'apertura a Truman Capote nella ricorrenza dei sessant'anni dalla tragica morte. Nonostante il titolo "Colazione da Truman", non tanto demenziale (che sarebbe stato almeno un merito) quanto banale che campeggia in prima pagina, il fascicolo ospita un intrigante articolo di Natalia Aspesi incentrato soprattutto sul rovinoso declino dello scrittore successivo alla pubblicazione del suo libro "Preghiere esaudite" in cui Capote metteva crudelmente alla berlina, mettendone in piazza vizi e segreti inconfessabili, l'élite intellettuale di New York. Una colpa che non gli fu mai perdonata e che gli costò una sorta di damnatio memoriae e l'esclusione definitiva da quel mondo.

Recuperato nel loculo dei libri a suo tempo comprati e mai letti, il libro che non è un capolavoro, ma merita comunque, se non altro per la ferocia gelida  della scrittura che porta un po' di aria fresca in una giornata afosa, contiene perle affascinanti. Fra le tante una crudelissima descrizione di Parigi di cui in questi giorni , fra pugili dalla sessualità discussa e grandeur macroniana andata a male (vedi la Senna inquinata),  si parla tanto, a proposito e a sproposito.


"Se penso a Parigi, mi sembra romantica come un pissoir ingorgato, allettante come un nudo strangolato che galleggia nella Senna. I ricordi sono limpidi e azzurri, come scene che affiorano tra le languide cancellature di un tergicristallo; e mi vedo saltare da una pozzanghera all’altra, perché è sempre inverno e piove; o se no seduto da solo a sfogliare «Time» sulla terrazza deserta dei Deux Magots, perché è sempre anche una domenica pomeriggio d’agosto. Mi vedo svegliarmi in camere d’albergo non riscaldate, camere deformate e ondeggianti nei postumi di una sbornia di Pernod. Attraversare la città, passare i ponti, percorrere il deserto corridoio fiancheggiato da vetrine che collega i due ingressi dell’Hôtel Ritz, aspettare nel bar del Ritz una faccia d’americano danaroso, scroccare bibite lì e poi al Boeuf-sur-le Toit e alla Brasserie Lipp e poi sudare sino all’alba in qualche localaccio stipato di puttane, reso eccitante dai negri e azzurrato da Gauloises bleu; e svegliarmi di nuovo in una camera inclinata e oscillante con cadaverica esuberanza. Certo la mia vita non era quella di un normale indigeno; ma neanche i francesi riescono a sopportare la Francia. O meglio, adorano il loro paese, ma disprezzano i propri compatrioti – incapaci come sono di perdonarsi i loro comuni peccati: la diffidenza, la spilorceria, l’invidia, la grettezza generale".