TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 22 dicembre 2013

Quando le montagne univano. La Rafanhauda, Utrecht 1713-2013



Giorgio Amico

Quando le montagne univano

Nel 1713 il Trattato di Utrecht metteva fine alla guerra di successione spagnola. La Francia cedeva ai Savoia l'Alta Valle Dora, l'Alta Val Chisone e la Castellata in cambio della Valle dell'Ubaye con Barcellonette. Il confine passò sullo spartiacque dividendo popolazioni alpine di cultura e lingua occitana. Le montagne che fino ad allora erano state un segno di unità diventarono un elemento di divisione.

L'Associacion Renaissança Occitana dedica l'ultimo numero della sua bella rivista La Rafanhauda a questo tema che non ha, come si comprende, solo un interesse storico, ma ancora oggi produce effetti sulla vita delle popolazioni delle valli che furono interessate da quegli eventi.

Introdotto da una approfondita riflessione di Alessandro Strano, il quaderno comprende un ampio estratto del libro (pubblicato nel 1910) dello storico subalpino Luigi Francesco Peracca sulle operazioni di guerra nella Valle d'Oulx dal 1700 al 1712. Segue poi, a cura di Valerio Coletto, una raccolta di documenti storici e un saggio di Andrea Celauro sulla storia delle valli Stura e Ubaia prima della divisione conseguente alla pace di Utrecht.

Un numero, questo di La Rafanhauda, che, come i precedenti, testimonia della cura minuziosa e dell'attenzione con cui questa giovane associazione lavora al recupero di una memoria storica che è cultura, ma soprattutto riscoperta dell'identità di un popolo.


Sommario

Au delai de la boina/Al di là del confine
La guerra di successione spagnola (Alessandro Strano)
La conquista della Valle d'Oulx fatta da Vittorio Amedeo II di Savoia (Luigi Francesco Peracca)
Giuramenti e suppliche delle Comunità della Valle della Dora tra 1709 e 1713 (Valerio Coletto)
Estura e Ubaia, unias fin au Tractat de Utrecht (Andrea Celauro)


Per richiesta di copie o informazioni: larafanhauda@gmail.com


L'esoterismo di Dante (prima parte)



Iniziamo con la prima parte di questo saggio di Francesco Lamendola ad affrontare il tema assai dibattuto e controverso dei contenuti esoterici dell'opera di Dante.

Francesco Lamendola

L’esoterismo di Dante


La parola italiana “esoterico”, in greco esoterikós, viene da esóteros che significa “interiore, intimo” e deriva da éso = dentro. Vale dunque per “interno, riservato, segreto”. La parola italiana “essoterico”, attraverso il latino exotericu(m), proviene dal greco exoterikós, da éxo = di fuori, esterno. Indica pertanto ciò che è esterno, palese, pubblico.

Esoterico era l’insegnamento impartito ai discepoli di alcune scuole filosofiche (segnatamente, il Pitagorismo): si trattava di un sapere intimo e segreto, che per tale sua natura non doveva essere reso pubblico. La tradizione, o la leggenda, vuole che un seguace della scuola pitagorica venisse ucciso per aver divulgato la scoperta dei numeri irrazionali, che sembrava incrinare il quadro di una matematica divinamente armoniosa, pervadente l’intero Universo. Questo, comunque, può dare un’idea del carattere cogente di segretezza che caratterizzava i saperi esoterici. Ancor più segreti, se possibile, erano i riti esoterici negli antichi Misteri, che erano quelli riservati ai soli iniziati. Il fatto che Gesù Cristo non ha, personalmente, messo per iscritto la propria dottrina ha favorito la nascita di un Cristianesimo esoterico, ossia degli iniziati, il quale ha storicamente assunto una posizione critica nei confronti dell’interpretazione canonica delle Sacre Scritture (e contestato l’esclusione dei Vangeli apocrifi).

Tornando alla filosofia, si dice quindi “essoterica” una dottrina che può essere conosciuta anche dai profani; particolarmente, di quel settore dell’insegnamento, nelle antiche scuole filosofiche, a cui era ammesso un pubblico più largo. Essoterici erano detti i discepoli non iniziati, ammessi all’insegnamento essoterico. Per capire questo fenomeno, occorre rifarsi al diverso rapporto esistente in Occidente, nell’antichità (e in Oriente anche in seguito), fra il corpus di determinate dottrine e i suoi eventuali destinatari. A noi, figli dell’Illuminismo e delle Rivoluzioni democratico-borghesi, e quindi portati a una visione “democratica” e anti-aristocratica del fenomeno culturale, la cosa a tutta prima può risultare malagevole.

Miniatura del canto XII del Purgatorio nella Divina Commedia.























La filosofia antica, come ha esemplarmente chiarito Aristotele nell’Etica Nicomachea, non mirava a una semplice “saggezza” (phrónesis), relativa alle cose mutevoli e contingenti, ma a una suprema “sapienza” (sophía), contemplazione delle cose eterne e, quindi, capace di rendere quasi divini coloro che la raggiungevano. Di conseguenza, non tutti possono accedere ai livelli superiori del sapere, perché non tutti potrebbero comprenderli a fondo e quindi farne un buon uso. Non da egoistico esclusivismo ma da autentica preoccupazione pedagogica e sociale deriva allora l’opportunità di trasmettere solo a discepoli scelti, e con estrema prudenza, il sapere ultimo del maestro. Da ciò la diffidenza nei confronti della parola scritta, del libro, che appunto non distingue fra coloro che hanno i requisiti per accedere alle verità superiori, e coloro che non li possiedono.

Il maestro, pertanto, per dirla con Omero (Iliade, II, 361), non deve “buttare le proprie parole”; esse devono cadere solo entro orecchi di persone capaci di assumersi le proprie responsabilità che il vero comporta. Platone, ad esempio, nella VII lettera (generalmente considerata autentica), così si esprime: “Ogni uomo serio deve con grande cura evitare di dare mai in pasto le cose serie, scrivendo su di esse, all’invidia e all’incapacità di capire degli uomini”. E ancora: “Questo ho da dire su tutti quelli che hanno scritto o scriveranno, quanti sostengono di conoscere l’oggetto delle mie indagini, sia per averlo ascoltato da me sia da altri, sia per averlo scoperto da se stessi: non è possibile, a mio parere, che costoro abbiano capito niente dell’argomento.

Certamente non esiste un mio scritto sul tema né mai esisterà. Infatti non può essere enunciato in nessun modo come gli altri insegnamenti; ma in seguito a una lunga frequentazione del suo oggetto, e dal conviverci, all’improvviso, come una luce che si accende da una scintilla di fuoco, compare nell’anima e si nutre ormai da se stesso. E so almeno che queste cose, se fossero scritte o dette da me, lo sarebbero nel modo migliore; e se fossero scritte male, ne soffrirei moltissimo. Se poi avessi ritenuto che fossero da scrivere in modo sufficiente per la massa e fossero comunicabili, quale compito più nobile avrei potuto affrontare nella vita, dello scrivere una cosa che è di grande utilità per gli uomini e del portare in piena luce per tutti quanti la natura? Ma non penso che il metter mano, come si dice, a questi argomenti sia un bene per gli uomini, se non per un numero limitato di persone capaci di arrivarci da se stesse attraverso una minima indicazione…”.

Trasmissione orale, quindi, e segreta del sapere da maestro a discepolo. Nel Medioevo l’esoterismo modifica solo di poco tale concezione: il sapere esoterico può anche essere scritto, ma solo mediante una sorta di codice che faccia da filtro rispetto ai lettori: i veri destinatari riusciranno a decodificare il testo “con l’aiuto di una minima indicazione”, come voleva Platone; tutti gli altri crederanno di aver capito e invece non capiranno – e ciò sarà un bene per loro e per la società intera. E’ questo il caso della magia, dell’alchimia, dell’astrologia, e non solo per quanto riguarda la comunicazione scritta, ma anche quella delle arti figurative: ad esempio, le sculture delle cattedrali gotiche. (A proposito, Fulcanelli nelle sue celebri opere Le dimore filosofali e Il mistero delle cattedrali sostiene che “arte gotica” non deriva affatto, come pure si ripete ancor oggi, dall’antico popolo dei Goti – e perché, poi, nella Francia del XII sec.? -, bensì da argot, linguaggio segreto riservato ai soli iniziati).

William Blake - Purgatorio, Canto XXX, 60-146


















Ed eccoci al punto. Nella XIII epistola, indirizzata a Cangrande della Scala, Dante Alighieri afferma che, a proposito della Divina Commedia “è da sapersi che il senso di quest’opera non è unico, anzi può dirsi polisema, cioè di più sensi (“dici potest polisemas, hoc est plurium sensuum”). Infatti il primo senso è quello che si ha dalla lettera, l’altro è quello che si ha dal significato attraverso la lettera (“nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram”). E il primo si dice letterale, il secondo allegorico o morale o anagogico (“et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus”). E si può esaminare questo modo di esporre, affinchè appaia meglio, in questi versi: <All’uscita d’Israele dall’Egitto, della casa di Giacobbe di fra un popolo barbaro, la Giudea diventò il suo santuario, Israele il suo dominio>.

Infatti se guardiamo alla sola lettera, ci è significata l’uscita dei figli d’Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; se all’allegoria, ci è significata la nostra redenzione operata per mezzo del Cristo; se al senso morale, ci è significata la conversione dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia; se a quello anagogico, ci è significata l’uscita dell’anima santa dal servaggio di questa corruzione alla libertà della gloria eterna. E benchè questi sensi mistici si appellino con vari nomi, si possono generalmente dir tutti allegorici, in quanto sono diversi da quello letterale o storico. Infatti si dice allegoria, dal greco “alleon”, che in latino si dice “alienum” o “diversum”. Visto ciò, è chiaro che occorre che duplice sia il soggetto, intorno al quale s’alternino i due sensi. E perciò si deve vedere riguardo al soggetto di quest’opera, secondo che si prende alla lettera; quindi, secondo che s’interpreta allegoricamente. Il soggetto di tutta l’opera dunque, presa solo letteralmente, è lo stato delle anime dopo la morte inteso genericamente; infatti su di esso e intorno a esso si svolge il procedimento di tutta l’opera. Se poi l’opera si prende allegoricamente, il soggetto è l’uomo, secondo che meritando o demeritando per la libertà d’arbitrio è soggetto alla giustizia del premio e del castigo”.

E la stessa struttura polisensa è ravvisabile nelle opere minori di Dante, a cominciare da quella Vita nova che è tutta un succedersi di visioni, presagi, sogni e rivelazioni., dunque interamente pervasa di spirito allegorico. Già i primi commentatori ne ebbero l’intuizione e cominciarono col chiedersi chi sia Beatrice, questa figura misteriosa che attraversa luminosamente tutta l’opera e riappare poi nella Commedia, per trionfare nei canti finali del Purgatorio e quindi nel Paradiso, là dove Dante dice di lei “cosa che mai non fu detta d’alcuna”. Donna reale o creatura simbolica? A partire dal Boccaccio si è andata consolidando l’interpretazione “realistica” di Beatrice, identificata nella figlia di Folco Portinari, che oggi persiste presso il vasto pubblico e nell’ambiente scolastico. Francesco Buti, nel suo commento alla “Commedia” del 1380, non solo nega che Beatrice sia la Portinari, ma che sia donna reale; e Pietro di Dante non fa il nome della Portinari nella prima redazione del suo commento, che è del 1340, ma solo nella terza, evidentemente riecheggiando il Boccaccio.

(continua)


http://www.centrostudilaruna.it/

Le illusioni d'Itaca



E' tradizione a Natale regalare libri. Lo facciamo anche noi, riproponendo Le illusioni d'Itaca, una storia ambientata nel Ponente ligure a cavallo fra Francia e Italia. Il libriccino, pensato come regalo di Natale per alcuni amici, fu poi pubblicato nel 2005 da un piccolo editore milanese.

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

I. La casa sulla collina

Sapeva di essere arrivato. Nonostante gli anni trascorsi non aveva dimenticato nulla di quella terra. Dal vecchio borgo giù in basso sino alla sommità del monte, che chiudeva la valle, tutto gli era familiare. Ogni metro di quel sentiero, ogni passo del suo snodarsi sinuoso lungo la collina fra i campi terrazzati un tempo coltivati ed oggi in abbandono, ogni roccia, ogni albero, tutto gli ricordava qualcosa. Era come se il tempo per lui non fosse passato. Come se non fosse mai andato via.

La sua casa era lì, al limitare del bosco, appena oltrepassato l'uliveto, quasi ai piedi della montagna. Un tratto ancora di strada e poi, dopo l'ultima svolta, gli sarebbe apparsa: sgangherata casa di frontiera tra mare e cielo. Ricetto di memorie che da tempo ormai non sentiva più come sue. Saliva a passi lenti. Eppure c'era stato un tempo, lo ricordava bene, in cui aveva percorso quel viottolo di corsa, senza provare fatica, forse anche con gioia. Ma ora si sentiva stanco.

Si fermò, si accese una sigaretta e si voltò a guardare verso il basso. Sotto di lui la città brillava nella limpida luce del mattino: una grande macchia grigia allo sbocco della valle. Dalle due alte ciminiere gemelle della centrale elettrica si alzava, più lontano sulla costa, un sottile filo di fumo bianco. La solida superficie del mare di Liguria, che intravedeva in lontananza dietro la linea verde delle colline, gli ricordò altri mari che aveva navigato in una delle sue tante vite.

Da giovane era stato marinaio. Per anni aveva vagabondato per gli oceani su vecchie carrette corrose dalla ruggine. Ricordava ancora bene l’emozione del primo imbarco. L’avventurarsi in mare aperto, con la costa alle spalle che lentamente si dissolve, fino a trovarsi sospesi nell’azzurro del cielo e del mare. Il sentirsi una cosa sola con la nave, con l’ansare ritmico dei motori, con il metallo vibrante delle paratie.

Ora, dritto sul ciglio del sentiero, lo sguardo perso lontano, il richiamo azzurro dell’orizzonte lo riportava ancora una volta indietro lungo le rotte insidiose della memoria. Ripensava ai Doca de Alcântara, a come li aveva visti la prima volta immersi nell’alba bianca di Lisbona. Si perdeva di nuovo nel caos mediterraneo di Fos, nel frastuono caotico di Malta. Risentiva sulla sua pelle il vento odoroso che spazza i moli di Genova, il calore del sole accecante delle isole dell’Egeo. Ricordavava le guardie interminabili passate a scrutare la notte dai finestrini della plancia. Riviveva i fortunali estivi e le tempeste invernali che squassavano la nave, i colori incandescenti delle albe radiose dei Tropici. Tempi di gioventù, tempi di solitudine. Unica compagna di allora era stata la poesia. Ma in mare si era sentito libero come mai più dopo gli era successo.



Quel tempo era passato per sempre, ma da allora si portava dentro visioni di bettole fumose nei porti del Mare del Nord, d’assolati pontili in Oriente, di tempeste terribili sulle rotte dell’Atlantico. Visioni che non lo abbandonavano. Echi dell’assordante rumore delle gru, del ronfare sordo dei motori, delle grida degli uccelli marini. Reminiscenze d’amicizie virili cementate dalla fatica e dal pericolo. Immagini di volti induriti dal lavoro e dalla salsedine. Nomi di uomini di ogni razza e di ogni paese, come lui in fuga dalla terraferma. Uomini soli, inseguiti dai ricordi. Marinai.

Si riscosse. L'odore antico della campagna, unito alla calda luce del sole, aveva in quel mattino d’estate un qualcosa d’inebriante che riempiva l'animo. Si sentì rassicurato e riprese a salire lungo il sentiero. Dal paese sottostante, dove aveva lasciato l’auto, lenta riecheggiava sulle balze assolate la campana di mezzogiorno. Ricordo di un tempo ormai passato in cui gli uomini di quella valle trascorrevano l’intera loro vita curvi su quelle fasce avare e lo scampanio delle chiese dei villaggi scandiva quotidianamente quella pena, annunzio di un domani simile all’oggi, sempre eguale nella sua immutabilità, senza speranza. Ben altra era oggi la condizione materiale. Le numerose villette sparse sulle colline stavano a testimoniarlo. Ma forse più aspra ancora era diventata la solitudine, più lacerante la pena, nella totale dissipazione dei legami che per secoli avevano comunque tenuto uniti quegli uomini, conferito loro un’identità che nessuno oggi era più in grado di ritrovare.

Perso in queste considerazioni, gli arrivò, inaspettato nel calore estivo, l'odore del fumo. Un odore amaro di legna d'ulivo che gli annunciava che la sua meta era vicina. Ed infatti, girato l'angolo, la casa era lì, proprio come per anni l’aveva vista nel ricordo: quattro vecchi muri di pietra messi di sghimbescio a poca distanza dal sentiero che andava a perdersi più in alto fra le rocce aspre del passo. Nulla pareva cambiato: una casa grigia, divorata dall’edera, con le lose del tetto smangiate dalla salsedine e dai licheni. Una casa del tutto simile a tante altre in quella valle, ma in una cosa diversa, unica: era la sua casa, il luogo dove era nato e cresciuto.

























Mentre lentamente percorreva il vialetto, che conduceva all’ingresso, si accorse che all'interno qualcuno trafficava. Attraverso le finestre aperte gli giunsero rumori di stoviglie smosse e odore di cibo. Rumori famigliari che gli ricordavano la sua infanzia e quelle lunghe mattine d’estate passate a giocare nel piccolo spiazzo erboso sul davanti, finché dall’interno la voce di sua madre lo richiamava al rito quotidiano del pasto di mezzogiorno.
  • Vieni a mangiare, tuo padre è tornato dal lavoro, non farti aspettare.
Spinse la porta ed entrò. Nell’ampia cucina una donna anziana armeggiava attorno al focolare. Lentamente la vecchia (poteva avere settant'anni) si voltò a guardarlo. Il suo volto non esprimeva sorpresa né sentimento alcuno. Era il volto di chi non si aspetta più nulla, una pietra rugosa incastonata nel grigiore della parete.
  • Finalmente siete arrivato, - gli disse - l'avevano detto in paese che venivate e allora sono venuta a far prendere aria alla casa. Già che c'ero, vi ho preparato qualcosa per pranzo. Sarete stanco.
La ringraziò un po' impacciato. Con poche frasi di circostanza.
  • Grazie, non era il caso di disturbarsi. Mi sarei comunque arrangiato…
  • Nessun disturbo, lo sapete. E poi a questa casa sono legata. Non volevo che la vedeste in abbandono. E’ ancora una bella casa. Sarebbe un peccato lasciarla andare in rovina.
Sapeva di doverle molto. Era lei che negli ultimi anni si era occupata di tutto. Una volta morti i suoi genitori, lui le aveva chiesto di curarsi della casa e delle quattro fasce sassose che la circondavano. E lei l’aveva fatto, senza chiedere nulla in cambio. Questa disponibilità lo metteva a disagio. Ora che finalmente aveva deciso di troncare ogni rapporto con quella terra e di vendere tutto, quasi se ne vergognava, non aveva il coraggio di dirglielo. Esitava.
  • Vedremo. Sono tornato proprio per sistemare le cose. Vedremo.
  • Vi lascio la chiave sul tavolo. – troncò corto la donna a mo’ di saluto - Se avete bisogno, sapete dove trovarmi.
Rimasto solo, si guardò intorno. Un calendario ingiallito pendeva dalla parete vicino all'ingresso. Su un tavolino un’antica lampada a petrolio faceva bella mostra di sé. In un angolo la vecchia macchina da cucire a pedale della madre. Dal vetro opaco della credenza tra bicchieri e tazzine spaiate lo fissavano le foto dei suoi vecchi.

Tutt'attorno a lui ancora la stessa dignitosa miseria di un tempo. Si vedeva comunque che la casa era stata tenuta in ordine da una mano femminile. Non c’era polvere sui vecchi mobili, né si avvertiva quel fastidioso odore di chiuso tipico delle case non più abitate. Lentamente si accese una sigaretta. Doveva evitare la trappola insidiosa della memoria, non farsi attirare sul piano scivoloso dei sentimenti.
  • Questione di pochi giorni si disse - ad allontanare la fastidiosa ondata dei ricordi - e poi via per sempre.
Si, via per sempre da quel mondo che forse una volta era stato anche il suo, ma che di certo da tempo non gli apparteneva più. Altra era stata la sua vita e a questo punto non si poteva certo ricominciare… che andasse pure tutto in malora. Tutta miseria in meno!


(continua)

sabato 21 dicembre 2013

Piero Manzoni e Albisola. Una visione internazionale



Un libro ricostruisce la presenza di Piero Manzoni ad Albisola, a metà del secolo scorso vivacissimo punto di incontro delle avanguardie artistiche.


Piero Manzoni ad Albisola


Il volume inaugura una serie speciale della collana Pesci rossi, realizzata in stretta collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni, che da sempre svolge e promuove studi sull’artista, nell’anno del cinquantesimo anniversario della morte dell’artista.

Una visione internazionale. Piero Manzoni e Albisola è il primo di una serie di pubblicazioni nate da questo sodalizio, coordinate da Rosalia Pasqualino di Marineo, che intendono approfondire aspetti specifici della ricerca intorno a Piero Manzoni e il suo tempo, grazie a materiali e documenti a volte inediti.

Con la sua eccezionale ricchezza d’immagini e contenuti, il libro documenta la complessità di rapporti e motivazioni che hanno contribuito in maniera fondamentale all’evolversi della creatività di uno dei protagonisti indiscussi della scena artistica della seconda metà del XX secolo.

Tra gli anni cinquanta e anni sessanta la cittadina ligure di Albisola, famosa per la lavorazione della ceramica, divenne un autentico crocevia catalizzatore d’incontri e sperimentazioni internazionali nel panorama artistico contemporaneo. Piero Manzoni che sin da bambino vi trascorreva lunghi periodo estivi con la famiglia, si trovò in un ambiente ricco di stimoli e ispirazioni.

Attraverso una puntuale verifica delle fonti bibliografiche, documentarie e testimoniali, è stato possibile ricostruire storicamente le vicende biografiche e l’attività espositiva di Manzoni in contesto albisolese (molte opere cruciali di Manzoni, come ad esempio le Linee, sono state esposte per la prima volta ad Albisola) e documentare una serie di importanti relazioni ad esso legate, ritrovando opere e testi inediti.

Il volume ricostruisce ad esempio le vicende di alcuni Achrome legati al contesto di Albisola (tele grinzate, cucite e oggetti), oppure ancora definisce quali tra le Linee, che Lucio Fontana riteneva l’opera più importante di Manzoni, fossero presenti nella prima mostra dedicata a questo ciclo, tenutasi nel 1959 nella cittadina ligure (tra di esse, la Linea m 9,48 acquistata in quest’occasione dallo stesso Fontana).

L’anno successivo Manzoni presenta ad Albisola anche i suoi Corpi d’aria e la località ligure è in parte luogo di elaborazione del progetto per il Placentarium, teatro pneumatico concepito per la rappresentazione dei Balletti di luce dell’amico artista tedesco Otto Piene.

La nota Merda d’artista trova altresì la sua prima apparizione pubblica in una mostra albisolese, nell’estate del 1961. Ad Albisola Manzoni instaura fecondi rapporti con altri artisti di rilievo internazionale e da qui scrive lettere interessantissime a colleghi e amici, di grande importanza per la ricostruzione di rapporti, motivazioni e vicende fondamentali legate all’attività dell’artista.

(Dalla pagina Facebook di Ale Hozro)




Francesca Pola
Piero Manzoni e Abisola
Una visione internazionale
Electa, 2013
euro 22


venerdì 20 dicembre 2013

Lampedusa. La nudità imposta


A proposito di Lampedusa riprendiamo l'intervento sul Manifesto del nostro amico Raffaele Salinari con il quale abbiamo condiviso momenti importanti di riflessione nell'ambito delle scuole di politica del PRC savonese.



Raffaele K. Salinari *

La nudità imposta



Mio nonno Raf­faele era par­tito i primi del Nove­cento con il Lusi­ta­nia alla volta di New York. Con la sua vali­gia di car­tone ed il biglietto di terza classe aveva con­di­viso il mal di mare ed il nero delle notti sull’oceano nella sof­fo­cante atmo­sfera di cuc­cette che rim­bom­ba­vano del fra­gore dei motori e impre­gna­vano i vestiti di olio meccanico.

Non c’erano pia­ni­sti a bordo che ral­le­gras­sero le serate, come rac­conta il neo­bar­baro Baricco, né i gia­ci­gli sem­bra­vano «letti a due piazze» come canta De Gre­gori. Que­sto mi diceva il nonno, ed anche, dopo tutto quel viag­gio verso l’ignoto, lo sbarco ad Ellis Island dove nei suoi occhi di ottua­ge­na­rio c’era ancora il ricordo di quando lo ave­vano spo­gliato, rasato, e disin­fet­tato con la pompa antisettica.

Quella nudità col­let­tiva, quella fila di corpi senza più la diver­sità carat­te­riz­zante che davano i sep­pur miseri vestiti, lo scon­vol­geva ancora. Quando trovò sul mio como­dino «Se que­sto è un uomo» mi disse sem­pli­ce­mente: lo capisco.

La nudità impo­sta, lo sco­prire a forza la «nuda vita» come dice Ben­ja­min, mostra ed espone il cuore dell’essere; non è un caso che ogni forma di domi­nio bio­po­li­tico, a comin­ciare dai Lager nazi­sti, summa anti­ci­pa­trice della moder­nità, l’abbia uti­liz­zata come dispo­si­tivo di espro­pria­zione di que­sto cuore. Eppure, pro­prio per que­sto, la resi­lienza, la sistole che diventa comun­que dia­stole, che torna ad espan­dere la dignità dell’essere nudo davanti ai suoi car­ne­fici, pre­vale, anche se non sem­pre, e prende forme mul­ti­ple, come quelle di mostrare al mondo un video di denun­cia di certe pra­ti­che, com’è suc­cesso a Lam­pe­dusa. Anche nei lager c’erano pro­ce­dure sani­ta­rie, anche Men­gele spe­ri­men­tava secondo pro­to­colli gali­leani, ma il senso di tutto que­sto era defor­mato dall’intento finale, dalla volontà dell’umiliazione.

Non sap­piamo se così sia stato anche per Lam­pe­dusa, vogliamo spe­rare di no, anzi dob­biamo spe­rare di no, le inda­gini lo diranno. Ma que­sto non impe­di­sce che una rifles­sione più pro­fonda vada fatta su ciò che è suc­cesso, anche indi­pen­den­te­mente, se sarà così, dalla volontà di chi ha gestito i fatti. In pri­mis un dato antro­po­lo­gico: pos­si­bile che dopo tanti anni di espe­rienza con i corpi migranti non si sia ancora capito dove risiede quell’inalienabile dignità che essi hanno con­ser­vato nelle tra­ver­sate mor­tali, che hanno man­te­nuto nelle tor­ture, negli stu­pri, negli abusi di tutti i tipi? Come si può essere così cie­chi da non capire il valore sim­bo­lico del vestito e della nudità di massa?

E allora qui siamo di fronte non ad una sem­plice super­fi­cia­lità, o peg­gio, ma ad una incom­pe­tenza che mette a giu­sti­fi­ca­zione di un gesto grave dei pro­to­colli che pos­sono essere appli­cati in ben altre maniere. E ancora, quale civiltà dell’accoglienza per­mette o anzi impone tali pro­to­colli? Ci sono dun­que respon­sa­bi­lità pun­tuali, ma anche poli­ti­che. Nulla è cam­biato dalla tra­ge­dia di Lampedusa.

I man­cati fune­rali di Stato, pro­messi dal pre­si­dente del Con­si­glio, hanno get­tato non solo un’ombra sulle reale volontà di uma­niz­zare l’inumanizzabile, ma anche di rico­no­scerne l’insostenibile valenza mor­ti­fi­cante. Allora i corpi non c’erano, occul­tati in tombe senza nome, oggi sono espo­sti allo scan­dalo di se stessi, acce­canti come tutto ciò che si vede ver­go­gnan­do­sene. Ora ci sono le imma­gini, e lo Spet­ta­colo ha ripreso il suo dominio.

La com­mo­zione durerà il tempo dei fra­mes tra­smessi dai media, ma la ferità bru­cerà pro­fonda nei corpi dei migranti e non solo, e non sap­piamo che infe­zioni pro­vo­cherà: è un nostro dovere sanarla immediatamente.

Già le asso­cia­zioni si stanno muo­vendo, e que­sta volta non baste­ranno fugaci visite o pro­messe da rivol­gere alla lon­tana Europa, per occul­tare il pro­blema. Tutte le solu­zioni sono alla por­tata del governo ora, dei suoi mini­stri e del pre­si­dente del Con­si­glio. Ci aspet­tiamo radi­cali cam­bia­menti nelle pros­sime ore.



Il Manifesto – 19 dicembre 2013

*Medico, Presidente della Fondazione Terre Des Hommes Italia. Autore di numerose pubblicazioni.



Alla scoperta del presepe popolare nei boschi di Savona



Andare per sentieri nei boschi alle spalle di Savona guidati dalle figure in legno realizzate da Imelda Bassanello e dagli abitanti di S. Bernardo in Valle, Santuario, Cimavalle, Ponte di Castel S. Agata, San Bartolomeo, Naso di Gatto, Le Meugge, Montenotte, Ferriere, Pontinvrea.


venerdì 13 dicembre 2013

Natale da sballo




Bevi vino, chè vita eterna è questa vita mortale,
E questo è tutto quel ch’hai della tua giovinezza;
Ed or che c’è vino, e fiori ci sono, e amici lieti d’ebbrezza,
Sii lieto un istante ora, chè questa, questa è la Vita.

Omar Khayyam

Ho scritto molto meno della maggior parte
di quelli che scrivono,
ma ho bevuto molto di più della maggior parte
di quelli che bevono.

Guy Debord